Secondo una leggenda fu verso la fine della prima decade del XIV secolo che Gediminas, Gran Duca di Lituania, si ritrovò a condurre una battuta di caccia non lontano dall’antica capitale Kernavè, giungendo sulle sponde di un lago piacevole e tranquillo. La cui natura attraente, benché non particolarmente difendibile, avrebbe suscitato in lui il desiderio di trasferirsi qui, costruendo la tipica residenza fortificata dei signori medievali. Un castello collinare, oggi andato perduto, difeso nella stessa misura da mura solide e la conformazione stessa del territorio, che sarebbe riuscito a sopravvivergli soltanto per mezzo secolo, prima che l’inizio delle ostilità da parte dei Cavalieri dell’Ordine Teutonico portasse l’esercito di questi ultimi a bruciarlo sino alle fondamenta. Non che tale edificio, a quel punto della storia, rivestisse ancora quel ruolo di primo piano nella protezione del territorio nazionale, vista l’intercorsa costruzione di altre, ben più formidabili roccaforti. Entrambe commissionate, e successivamente abitate in sequenza, da uno dei più importanti eroi di questo paese, quel Kestutis, figlio di Gediminas, che rivestì per buona parte della sua vita il ruolo di principe, attraverso una serie di accesi conflitti dinastici, prima di acquisire brevemente il ruolo di sovrano all’età ormai avanzata di 81 anni. Non che la sua dipartita, sfortunatamente, ebbe modo di avvenire per cause in alcun modo naturali. Ma prima di giungere a tale capitolo, sarà opportuno cercare di comprendere che tipo di personalità avesse, colui che assieme al fratello maggiore Algirdas, nel 1337 aveva rovesciato il governo del minore dei due, Jaunutis, scelto per ragioni imperscrutabile dal padre per succedergli nel governo del Gran Ducato. Sempre disposto a chinare la testa e offrire la sua spada per servire, nell’interesse di un ruolo relativamente marginale nel duumvirato di famiglia, occupandosi nel contempo di quella che potremmo definire come la parte “tecnica” dell’esercizio del potere. Che in quegli anni oscuri pareva sottintendere primariamente l’organizzazione della difesa contro un nemico formidabile e strategicamente superiore. Ormai da oltre un secolo proclamato come legittimo bersaglio di una crociata con il beneplacito dell’istituzione papale, lo stato parzialmente pagano della Lituania aveva subito un lungo assedio economico ed occasionalmente militare da parte dei due ordini cavallereschi dei Teutonici e Livoniani. Abbastanza da giustificare, nella mente del condottiero secondogenito, l’edificazione e mantenimento di strutture difensive di maggiore efficienza. A partire dall’ulteriore grande castello precedentemente edificato a Trakai, una roccaforte peninsulare tra i due rami del lago Galvé e quello di Luka, da utilizzare come residenza negli occasionali momenti di tranquillità. Ma per resistere ai reiterati attacchi dei tedeschi, Kestutis ben sapeva che sarebbe servito qualcosa di meglio, il che l’aveva portato attorno al volgere del XIV secolo a dare inizio alla costruzione della sua opera più notevole e duratura. Una magione inespugnabile sopra l’isola più grande del lago, collegata alla terra ferma soltanto da uno stretto ponte facilmente difendibile, altrettanto rapido da far inabissare ogni qual volta se ne presentasse la necessità. Come sarebbe avvenuto puntualmente nello stesso anno in cui i fratelli presero il potere, con l’assedio dei cavalieri destinato ad interrompersi soltanto con la morte del Gran Duca Algirdas, e la successiva fragile pace stipulata dal figlio e successore Jogaila. Iniziò quindi un periodo altrettanto travagliato per il paese, con i Teutonici che continuavano a razziare oltre i confini, indifferenti agli accordi presi e la necessità di mantenersi alleati dell’Ungheria, un obiettivo perseguito da Kestutis fingendo di convertirsi al cristianesimo. Quando nel 1381 Jogaila, ancora privo di eredi, venne temporaneamente preso prigioniero dal nemico, momento in cui l’ormai anziano zio a suo volta fuggito da una cella del castello di Malbork grazie all’aiuto del servo Alfas, decise finalmente di assumere il ruolo di Gran Duca. Dando inizio a un regno che sarebbe durato soltanto appena un paio d’anni: poiché fu l’inizio, sostanzialmente, una sanguinosa guerra civile.
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L’incomprensibile incontro notturno con gli gnomi automobilistici di Wollaton Park
Era una serata tetra e prevedibile, tra le verdeggianti campagne circostanti la città di Nottingham, nell’omonimo contea di britannica delle East Midlands. Quando l’allegra brigata composta da sette bambini tra gli 8 e 10 anni della scuola elementare di Radford, indifferente alla giurisdizione di qualsiasi sceriffo reale o immaginario, scavalcò la recinzione al fine d’introdursi nella proprietà privata ai margini della tenuta elisabettiana di Wollaton Hall. Una di quelle grandi e distintive case di campagna, appartenute alla prestigiosa nobiltà britannica, prima che il cambiamento dei tempi e delle priorità portasse l’antica famiglia a trasferirsi in un contesto più urbano gestibile, permettendo in questo caso la trasformazione delle mura nel Museo di Storia Naturale della città. Non che in quel 29 ottobre del 1971, alcuno di costoro fosse interessato a scheletri di dinosauro o vecchi fossili, tanto più che l’istituzione pubblica ormai vecchia di 45 anni risultava ovviamente chiusa alle 8:30 di sera. Ciò a cui essi agognavano, di contro, risultava per quanto sappiamo allineato maggiormente a quell’aleatorio ed ineffabile bisogno, tipico delle giovani di menti, di vivere un qualche tipo di memorabile avventura o vicenda, di cui poter narrare ai propri amici e compagni di scuola. E quale miglior luogo… Di questo? Selvaggio, ombroso, impenetrabile, sconosciuto ed esoterico erano tutti aggettivi altrettanto validi, al fine di descrivere quell’area boschiva e parzialmente paludosa, ove cervi, volpi, scoiattoli e altre creature si aggiravano nella più assoluta libertà, noncuranti della distanza di appena qualche centinaio di metri dai margini del pericoloso ambiente cittadino. Fu a questo punto, secondo la narrazione di cui disponiamo nell’accurata intervista effettuata dagli insegnanti e psicologi della loro scuola la mattina successiva, che il gruppo ebbe l’iniziativa di separarsi. Con due tra i più cresciuti che s’inoltrano tra i tronchi, camminando sul sentiero parallelo allo stagno fangoso al centro della palude, finché all’improvviso non ebbero l’occasione di scorgere “qualcosa” tra le cime degli alberi. Un movimento rapido e inqualificabile, subito seguito dall’occorrenza di una serie di eventi tanto inspiegabili da poter rientrare a pieno titolo nella catalogazione d’incontri sovrannaturali del terzo tipo. Con per protagonisti, per inciso, non quegli esseri con grandi teste ed occhi provenienti da pianeti lontani, bensì una presenza folkloristica assai più familiare dei racconti e leggendari europei: il comune gnomo di foresta, con tanto di cappello, lunga barba bianca ed abiti di colore blu e rosso. Ma connotati da un contesto indubbiamente aggiornato per essere al passo dei tempi e la modernità, visto come il primo palesarsi del piccolo popolo, i cui membri furono successivamente descritti dai bambini come “non più grandi di una bambola” sarebbe stato riportato vederne alcuni raggruppati a due a due, in quelle che potevano soltanto essere delle bizzarre automobiline tondeggianti con carrozzeria trasparente, che costoro guidavano agevolmente sopra la superficie fangosa della palude. Ciò che segue è l’unica parte ragionevole del racconto, con gli spettatori accidentali della scena che si mettono a correre, inciampano e cadono nel fango. Per poi raggiungere i margini del boschetto e riunirsi al resto del gruppo, inclusi i bambini più giovani. Ed è allora che la storia entra nel vivo: poiché lungi dal desistere dal proprio “inseguimento” gli gnomi si palesano a questo punto in una vera e propria parata: 30 veicoli da quattro ruote e due occupanti ciascuno, ordinatamente in fila mentre inseguono i bambini in giro per il parco, terrorizzandone alcuni fino alle lacrime, finché non riescono finalmente, ormai stanchi ed affannati, a raggiungere i confini di Wollaton Park. Per poi narrare ai propri genitori, come giustificazione alla condizione dei propri abiti e l’orario tardo di ritorno a casa, puntualmente quello che credevano (?) di aver vissuto. In altri luoghi e tempi, simili eventi non avrebbero fatto particolare notizia. Dopo tutto, quello che fanno i bambini è inventare storie, giusto? Ma in questo caso, c’erano alcune ragioni di contesto e precedenti tali da non permettere di accantonare la vicenda con particolare ed immediata facilità…
La camera lucida, ultimo scalino tecnologico prima dell’invenzione della fotografia
È una fondamentale idiosincrasia della società contemporanea, nonché prova pratica dell’influenza delle immagini fittizie sul nostro stile di vita, se dinnanzi ad una scena o luogo memorabile, c’è sempre un’alta percentuale di persone che l’osservano mediante un’interfaccia tecnologica intermedia. L’oggetto creato per immortalare ciò che siamo indotti ad osservare, incorporandolo all’interno di pellicola, rullino o scheda di memoria in silicio e plastica, diviene in questo modo anche un’affettazione, ovvero il metodo per connotare l’effettiva acquisizione esperienziale degli eventi. E quante volte, nella comunicazione fatta di stereotipi del buon pensiero, ci siamo sentiti ripetere o abbiamo pronunciato noi stessi le seguente parole: “Metti giù quel cellulare/fotocamera ed osserva, vivi, affidati alla tua memoria.” Ah, se soltanto gli antichi maestri della pittura avessero seguito un simile consiglio! Probabilmente al giorno d’oggi avremmo da studiare un numero molto minore di capolavori… Ed i programmi di storia dell’arte sarebbero ancor più brevi di quelli d’educazione fisica, con buona pace di chi organizza gli orari di lezione all’interno dei migliori licei. Col che non voglio certamente dire che personaggi del calibro di Jan van Eyck (1390-1441) Lorenzo Lotto (1480-1557) e Johannes Vermeer (1632-1675) avessero a disposizione un primissimo modello di Samsung o Apple iPhone 3G, sollevando la questione dei viaggi interdimensionali ed attraverso l’asse scorrevole del tempo; quanto piuttosto la più ragionevole approssimazione della loro funzione fotografica, presentata in una guisa ed un livello d’ingombro alquanto fuori misura. Quello, per l’appunto, di una vera e propria tenda o grossa scatola con un piccolissimo foro, da cui lasciar filtrare una piccolissima quantità di luce da un paesaggio o scena assolata. Con il risultato totalmente naturale di ottener la proiezione invertita dell’immagine, sopra la parete tenebrosa antistante. Molti furono i manuali, ed altrettante le parodie umoristiche, relative al duro lavoro del pittore intento a ricalcare i propri disegni preparatori infilandosi all’interno del pertugio, strategicamente collocato innanzi al soggetto scelto per essere trasferito su carta. E sto qui parlando, sia chiaro, della camera obscura, un principio noto in via teorica, almeno dai primi esperimenti sulla luce documentati dall’architetto bizantino del sesto secolo, Antemio di Tralle, ma conosciuto e disponibile su larga scala non prima di dieci secoli da quel tempo. Utilizzato per quanto ci è dato comprendere, o desumere a seconda dei casi, a sostegno d’innumerevoli quadri famosi, dipinti con assurda precisione matematica proprio perché creati tramite l’impiego di una macchina, sebbene di un tipo particolarmente semplice da concepire ed implementare. Il che sarebbe a un certo punto andato incontro ad una radicale alterazione della sua importanza, quando nel 1806 venne introdotto sul mercato qualcosa di migliore sotto ogni punto di vista rilevante: (più) portatile, privo di irrimediabili distorsioni ottiche, adattabile ad una maggiore quantità di situazioni. E soprattutto, privo delle specifiche condizioni d’utilizzo in materia d’illuminazione, non necessitando più dell’impiego e montaggio di assurdi rifugi mobili prima di appoggiare solennemente lo strumento di disegno sulla pagina oggetto della propria creatività. Il suo nome, questa volta, era camera lucida come delineato dallo stesso inventore, il chimico e polimata inglese William Hyde Wollaston (1766-1828) sebbene il principio di funzionamento fosse sostanzialmente diverso a tal punto da quello dell’approccio esistente, da porlo letteralmente all’opposto all’interno del suo specifico campo d’impiego. In ogni campo, tranne quello pratico dell’effettiva necessità a cui doveva offrire una soluzione…
“Sembrano 5.272 formiche variopinte” disse lui dall’alto, finendo di contare il pubblico del Royal Albert Hall
Tom Scott, il nostro amico digitale nonché Virgilio d’innumerevoli trasferte in luoghi distintivi ed impressionanti, mette un piede sulla rete di metallo instabile e dondolante. Sotto i piedi l’assoluto vuoto per l’altezza approssimativa di cinque piani, ed una quantità di vuoto largamente eccessiva che campeggia anche a portata delle proprie braccia, tese nel tentativo vano di aggrapparsi o sorreggersi a un punto fermo della struttura. Ed allora che il suo collega per questa specifica avventura, perfettamente a suo agio, scherzando sulla precarietà soltanto apparente della situazione compie un saltello, facendo oscillare in modo ansiogeno l’intero apparato, inducendo il documentarista dalla solita maglietta rossa ad una serie d’espressioni contrastanti. Difficile, in ultima analisi, decidere di biasimarlo…
La paura è il compagno che accompagna i primi giorni di una grande varietà di professioni: timore di fallire nello svolgimento dei propri compiti, di commettere dei passi falsi nelle relazioni interpersonali, di fraintendere l’effettiva portata delle proprie responsabilità, finendo per deviare l’andamento consono e normalmente automatico degli eventi. Ma il terrore che accompagna i neofiti di un particolare ambito del mondo teatrale, altamente specifico e pressoché costante, risulta ad un tal punto inscindibile da una simile qualifica da poter essere considerato un distintivo e rito di passaggio per gli incaricati. Coloro che devono allestire, modificare ed implementare le soluzioni d’illuminazione o gli apparati per l’emissione di fumo, foschia, effetti speciali a una quota variabile da terra, sopra il palcoscenico occupato dagli attori, cantanti e musicisti che si prenderanno almeno in parte il merito del proprio lavoro. Fino a una quarantina di metri, per essere più precisi, corrispondenti al punto culminante della terza cupola più grande di Londra (dopo la tensostruttura del Millennium e chiaramente, la beneamata cattedrale di St. Paul) che ricopre l’imponente teatro dedicato dalla Regina Vittoria e suo figlio al defunto consorte reale, il principe Alberto. Un vero capolavoro architettonico di tale epoca, ultimato nel 1871 dopo quattro anni di lavori sotto la supervisione del Maggiore Generale Henry Y.D. Scott, dopo la morte dell’originale progettista, il capitano degli ingegneri Francis Fowke. Entrambi figure provenienti dal mondo militare ma perfettamente in grado di soddisfare i canoni estetici del proprio secolo, sfruttando il terreno acquistato presso il quartiere di Kensington poco prima della morte del principe nel 1861, sfruttando almeno in parte i fondi guadagnati con la Grande Esposizione Universale gestita da lui stesso assieme al proprio amico ed aiutante di vecchia data, l’imprenditore Henry Cole. Uno spazio definito per l’appunto in suo onore “Adrianopolis” e per il quale si era giunti a immaginare in un futuro prossimo un nuovo spazio per spettacoli, discorsi ed eventi, che potesse costituire “La sala del villaggio dell’intera nazione”. Teatro costruito in pieno stile italianeggiante (in ing. italianate) e mediante l’utilizzo di una quantità impressionante di mattoni rossi cementati nell’impronta di un ellisse, per un diametro nel punto più largo di 83 metri e uno spessore di un metro. Sormontata da quella che potremmo definire senza timore di trovarci in errore, una delle meraviglie ingegneristiche del terzultimo secolo a questa parte…