La mucca grande come un rinoceronte

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L’enorme creatura sovrasta i visitatori del Sequoia Zoo di Eureka, nel nord della California. Strane suggestioni provenienti da Jurassic Park: quale artropode nell’ambra, quale proboscide di una zanzara scongelata, è responsabile di questa straordinaria clonazione? Perché non sembra, all’apparenza, sussistere alcun’altra possibilità: il pacifico bovino è la versione rediviva dell’antico bove primigenio, il celebrato uro, di cui Erodoto e Aristotele parlarono nei loro scritti e che nel mondo d’oggi, a quanto ne sappiamo, risulta estinto da almeno 400 anni. La terra cede al passo dei suoi zoccoli, che lasciano tracce profonde. Il suo muggito, una sirena che sconquassa la foresta all’orizzonte. Il suo nome: Danniel (si proprio così, con due n) e il genere maschile ci dimostra un chiaro aspetto della situazione. Ovvero che non siamo dinnanzi ad una mucca, ma neppure a un toro, bensì tecnicamente a un bove; che poi nient’altro sarebbe che un maschio castrato, generalmente utile all’industria zootecnica per una cosa e quella solamente: diventare, prima o poi, carne. Fato al quale, per quanto ci è dato di capire, costui è stato sottratto grazie all’evidente unicità. Due metri al garrese per oltre una tonnellata di peso! Praticamente, più alto di un rinoceronte nero africano, ed ampiamente tra le specifiche di un esemplare maschio come peso. Al servizio, tuttavia, di un’indole amichevole del tutto paragonabile a quella di un cane domestico, grazie all’educazione ricevuta fin dalla giovane età.
“Iniziammo a capire che c’era qualcosa di strano…” Racconta Ken Farley di Ferndale, proprietario dell’insolito animale “…Verso i cinque mesi di età. Danniel era un drop calf (vitello tolto alla madre) che non sarebbe dovuto sopravvivere a lungo. Io e mia zia lo avevamo acquistato sei anni fa per una nostra femmina ancora giovane, il cui piccolo era morto al momento del parto. Tuttavia, lei lo rifiutò. Così siamo stati noi a nutrirlo amorevolmente, allattandolo ogni giorno con la bottiglia. Finché all’improvviso, non era diventato così grosso e forte da strapparcela di mano.” Nel campo del bestiame, per ogni mucca che produce copiose quantità di latte da immettere sul mercato alimentare c’è, naturalmente, un figlio che non potrà raggiungere l’età adulta. Sarebbe in effetti del tutto impossibile assicurare il benessere della prole così privata del nutrimento, mantenendosi allo stesso tempo economicamente produttivi, un aspetto al quale non molti amano pensare spesso, a meno che non siano dichiaratamente ed apertamente vegani. Questi vitelli, generalmente, vengono venduti per la loro carne entro il primo anno di vita, dandogli una fine misericordiosa ed indolore. Può accadere talvolta, tuttavia, che si verifichi qualcosa d’inaspettato ed è proprio questo ciò di cui stiamo parlando. E non è impossibile, a quel punto, che il destino ricompensi coloro che si sono dimostrati generosi.
Danniel è una mucca di razza Holstein, che poi sarebbe il nome più tipologicamente corretto, ed usato ancora oggi nella lingua discorsiva degli Stati Uniti, per le nostre frisone, tra i capi di bestiame di maggior successo e più amati al mondo. Creature già normalmente grosse e pesanti, originarie della regione al confine tra l’Olanda e la Germania, che secondo l’opinione degli studiosi giunsero a crearsi per una casualità imprevista attorno al 100 a.C, quando i popoli della regione di Hesse migrarono verso il mare del Nord, venendo ad incontrarsi con le tribù dei Frigi tra i fiumi del Reno, del Mosa e del Waal. Mescolando il proprio codice genetico e di pari passo quello dei propri armenti, rispettivamente del tutto bianchi e del tutto neri, il che sarebbe poi all’origine della particolare colorazione a macchie della mucca frisona.

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La lega dei più straordinari spadaccini di YouTube

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L’abbiamo sempre fatto, tu ed io. Questa cosa d’incontrarci sui sentieri della vita e dimostrare chi è il più forte, per rivivere le grandi sfide del passato, vestendoci di luce e del tessuto della cappa degli eroi: Ulisse alle Termopili, Achille a Gaugamela. Cesare tra i colli di Agincourt. E Zorro che si lancia all’arrembaggio, scavalcando la murata del galeone del pirata Barbanera sulla Senna, mentre il carcere della Bastiglia trema per le rimbombanti cannonate all’uranio impoverito. Non più bambini, quindi, siamo diventati più sofisticati. Lasciato il ramo cruciforme, o quel righello piatto come una katana, le nostre spade sono diventate più sottili e immaginarie, eppure nondimeno, terribili e taglienti. Come raggi laser. Parole che trafiggono, pensieri che separano, gesti appartenenti al lato oscuro della Forza e della Luna. “Non guardare alle apparenze: quella è una stazione spaziale, giovane Skywalker…” Così come la gente, specie se si guarda più lontano dei propri confini quotidiani, che non è tutta fatta nello stesso modo. Al punto che qualcuno, crescendo, quella scherma che era un gioco ha poi deciso di studiarla. E approfondirla, finché non si è trovato… Ecco a voi la scena: uno scarno corridoio del castello di Kurovice in Moravia, struttura fortificata risalente al XV secolo che è sostanzialmente un grosso cubo, un tempo appartenuto alla nobile famiglia dei Vrchlabsky, prima che venisse trasformato in un museo. Il che non significa, del resto, che i giorni della guerra siano terminati. Mentre il suono del cozzare viscerale, sferragliante e indubbiamente fastidioso, ancora si ode a rimbalzare tra i pilastri degli ambienti privi di riscaldamento. A mostrarcelo, nel nostro caso, ci pensa la semplice telecamera, coadiuvata da un montaggio rapido e più instabile di un film di Jason Bourne, secondo i dettami di un metodo registico molto “contemporaneo” e “appassionante”. Ma se tutto questo fosse vero, e se noi fossimo delle mosche di passaggio, quello che i nostri occhi vedrebbero sarebbe l’ora di un confronto al primo e ultimo sangue (alfa ed omega, la perdizione) tra due uomini determinati a fare fuori l’aspro rivale. Le circostanze non lasciano alcun dubbio: siamo dinnanzi al rituale del duello, un confronto per difendere il prestigio dei propri nomi. Benché portato avanti, guarda caso, da due membri dell’associazione della Repubblica Ceca Adorea Olomouc, dedita alla pratica delle HEMA (Historical European martial arts) e rinomata su Internet per la proposta di un canale video le cui coreografie di combattimento rivaleggiano col meglio del cinema internazionale.
Lo scenario, di per se, risulta già piuttosto insolito. Perché non si è forse mai verificato, nella storia di simili prassi sanguinarie, che due contendenti si siano affrontati in assoluta solitudine, impugnando armi sovradimensionate come una longsword. La famosa spada “da una mano e mezza” o come usavano chiamarla già in quell’era, lama bastarda, perché concepita per usi multipli e sostanzialmente diseguali. Vuoi disarcionare un nemico a cavallo? Perfetto, vibra il colpo alla sua massima estensione, come se stessi usando lo strumento di una falce. Occorre perforare un’armatura? Niente di più semplice, basta posizionare la seconda mano sul ricasso (parte non tagliente della lama) e trasformare il simbolo del proprio onore in una volgare picca, sulla cui efficacia ben pochi oserebbero sollevare dei dubbi. Ma se c’è l’improvvisa necessità, più o meno oggettiva, di far fuori un avversario in abiti civili, ecco, non è che manchino strumenti più efficaci. Proprio per questo, a partire dal XVII secolo, nacque la spada all’italiana o striscia, che gli anglofoni chiamano rapier, concepita per saettare rapida verso i punti vitali di un qualsivoglia corpo umano. Difficilmente, con un attrezzo ponderoso come quello usato dai due figuranti della presente scena, si sarebbe potuto raggiungere un simile grado d’efficienza. Ma prima di allora, tutto era possibile. Anche che due soldati mercenari dell’Europa Centrale, magari dei lanzichenecchi innamorati della stessa donna, si sfidassero impiegando lo strumento con cui avevano maggiore familiarità. Senza ricorrere al vestito corazzato, perché ciò non tollerava il senso di una simile tenzone, ma soltanto ben vestiti per andare all’aldilà. Con tanto di vistosa braghetta per tenere in vista i gioielli genitali nel caso del guerriero in pantaloni verdi, ma soltanto (?) perché ciò esigeva la moda dell’epoca. Cosa non si farebbe, per apparire storicamente corretti…

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La città messa in fuga dalla sua stessa miniera

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Monica Larsson, lo chef del ristorante per famiglie sulla via del corso principale ricoperta dalla neve, parla amabilmente con la troupe del documentario finanziato dall’ente turistico di stato. “Si ve lo confermo, le esplosioni non si fermano neanche di notte.” Quasi a sottolineare le sue parole, l’edificio trema come per l’effetto di uno spaventoso terremoto, mentre un boato riecheggia dalle viscere del sottosuolo. Lo scenario della cittadina semi-addormentata, visibile dalla finestra principale, sembra assumere contorni sfocati, mentre il vetro vibra freneticamente alla frequenza di un diapason da quattro soldi. “Ma io neppure mi sveglio. Ormai ci sono abituata!” E come potrebbe essere altrimenti? Da queste parti, il sole tramonta in autunno. Per sorgere di nuovo solamente in primavera. Ma se dovesse sparire sotto la linea dell’orizzonte anche l’intera città, quell’alba diventerebbe un sogno lontano…
L’eccezionale abbondanza di una particolare risorsa è inevitabilmente alla base di un insediamento remoto. Funziona così: i cartografi all’inizio del secolo, durante i loro mesi vagabondi, giungono presso la montagna o la collina sperduta dentro al territorio popolato solamente dai nativi. Durante la loro opera di prospezione, scoprono la “cosa”: Platino? Argento? Zolfo? Nickel? Cobalto? Con grande rischio personale, costanza ed attenzione, essi stilano quindi un rapporto minuzioso, in cui si elencato i punti a favore per porre le basi dell’insediamento. La questione, da quel momento, resta inosservata per diversi anni. Finché il governo più vicino oppure qualche compagnia privata, corroborata da recenti fondi d’investimento in eccedenza, non decide di cogliere la sfida, affrontando le spese iniziali per scavare la prima miniera. Ed è a quel punto, normalmente, che la gente molla tutto per cercare qui la sua fortuna. È successo in Nord America, agli albori della corsa all’oro nel Far West, ed allo stesso modo è capitato qui, all’estremità settentrionale più estrema d’Europa, in Lapponia, entro le propaggini del Circolo Polare Artico. Dove, a partire dal 1736, furono nominate dall’ufficiale svedese Anders Hackzell le due colline di Fredriks berg e Berget Ulrika Eleonora (rispettivamente denominate sulla base del re e la regina di allora) letteralmente ricolme del più puro, universalmente utile e sorprendentemente prezioso dei metalli: l’umile ferro. Per più di un secolo, il minerale venne faticosamente raccolto dagli uomini di frontiera, e trasportato fino alla civiltà con slitte trainate da renne o cavalli. Il loro agglomerato di casupole venne chiamato Kiruna, la versione abbreviata del nome di una vicina montagna nella lingua dei popoli sami. Gli unici a condividere con loro tali vertiginose, gelide latitudini. Finché nel 1884, finalmente, non ci si rese conto di come i giacimenti dell’intera regione non fossero destinati ad esaurirsi prima di molte generazioni, portando quindi la compagnia inglese della Northern Europe Railway Company a investire nel futuro, costruendo in un primo momento dei binari tra le vicine città costiere di Luleå e Narvik. Poco prima di andare sfortunatamente fallita, e ritrovarsi a vendere le infrastrutture allo stato svedese per la metà della cifra spesa. E fu allora che quest’ultimo, estendendo le linee fino alla sua miniera più settentrionale, aprì la strada alla trasformazione progressiva di Kiruna in villaggio, quindi in vera e propria cittadina. L’amministrazione del giacimento venne data alla compagnia statale della Luossavaara-Kiirunavaara Aktiebolag (LKAB) che vide una crescita di produzione fino all’inizio del secolo successivo, e non smise di dirigere le operazioni neanche durante le due guerre mondiali, quando le materie prime estratte localmente diventarono una condizione totalmente necessaria alla sopravvivenza di qualsiasi nazione, specialmente se neutrale come la Svezia.
Negli anni più recenti, questo luogo caratterizzato da una ricchezza endemica e indubbiamente duratura, può raccogliere i frutti dei suoi quasi 200 anni di ottima amministrazione, con una disposizione urbanistica funzionale, numerose installazioni turistiche e ben due centri dedicati alla ricerca spaziale: l’Esrange per la costruzione di razzi e Istituto di Fisica, un dipartimento del politecnico di Luleå. La ridente cittadina, tuttavia, ha un problema. Secondo gli ultimi studi geologici e in funzione della progressiva necessità di scavare sempre più a fondo, per continuare ad estrarre il beneamato ferro, entro i prossimi 100 anni essa prenderebbe entusiasticamente il posto della terra rimossa dalle oscure profondità. In altre parole, cadrebbe giù nel baratro, tutta intera.

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Il mezzo in grado di spostare fino a 10.000 tonnellate

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Il buon vecchio sistema usato per edificare un qualcosa, che prevede la disposizione di un mattone sopra l’altro, sopra l’altro, sopra l’altro: superato, lento, inefficace, anacronistico, obsoleto. Soggetto ad infinite problematiche complicazioni. Che succede se il luogo prescelto manca di infrastrutture? E se ci si trova in un paese con regolamenti particolarmente onerosi, oppure si è ricevuta la direttiva d’intervenire con il minimo impatto ambientale? È mai possibile trasportare fino al luogo deputato centinaia di operai specializzati? Che non parlano la lingua e quindi non interagiscono con le maestranze… Senza contare i costi vivi di una tale metodologia. In un mondo in cui  tutto deve muoversi velocemente, incluso il tempo stesso, e ci si prefigura di vedere pronto in poche settimane ciò che è stato appena concepito, persino l’architettura è diventata una questione di catena di montaggio. Mettere in posizione un ponte, una piattaforma offshore, un serbatoio, un trasformatore elettrico: tutto può essere fatto, ovunque. Ma è tanto più efficiente, sia dal punto di vista dei costi che dell’organizzazione, affidarsi all’ambiente controllato della fabbrica, ovvero gli strumenti tecnologici della metallurgia. Immaginate i componenti che prendono forma con immediatezza sostanziale, mediante la trasformazione idonea dei preziosi materiali primi. E quindi, previo l’esercizio della volontà umana, iniziano a spostarsi con estremo ordine, lungo l’autostrada e fino al distante molo d’imbarco. Poi da lì, fino ai porti di terre lontane. È come se gli oggetti grossi come una montagna avessero messo zampe invisibili, prese in prestito dal ragno Universale. O più nello specifico, molte (potenzialmente Infinite!) Paia di ruote.
Il primo punto alla base del concetto degli SPMT (Self Propelled Modular Transporter) non è tanto il Self, riferito alla loro capacità di spingere se stessi innanzi, mediante l’impiego di un certo numero di potenti motori, ma il Modular, ovvero l’innata e superiore capacità di cooperazione. Anzi è proprio questo, in definitiva, a renderli più forti di qualsiasi altro veicolo su questa Terra. Considerate, come termine di paragone, il rapporto tra un orso e le formiche: il primo sarà in grado di spostare facilmente il tronco di un albero, grazie ai suoi muscoli davvero impressionanti. Ma le seconde, a parità di peso, potrebbero smontare una foresta. Ed è proprio di questo, se vogliamo usare una similitudine, che riesce ad occuparsi la Mammoet, azienda olandese che opera, in diverse fin forme, ormai da ben due secoli disseminati di successi. Benché l’invenzione del suo mezzo simbolo, questo incredibile prodotto della moderna tecnologia, non risalga che al 1984, grazie ad una fortunata collaborazione con il gruppo Scheuerle di Pfedelbach, in Germania. Alcuni affermano, con sicurezza estrema, che veicoli appartenenti a questa singolare classe fossero in realtà esistenti da diversi anni, nell’interpretazione che aveva dato la compagnia inglese Econofreight. Questo non è facile da verificare; ciò che resta certo, tuttavia, è che gli eredi di Jan Goedkoop, l’imprenditore che aveva iniziato a trasportare carichi via mare tra la prima e la seconda Rivoluzione Industriale, furono i primi a dotare la loro piattaforma su ruote della capacità di ruotare su se stessa, e inoltre ad avere la geniale idea di farla larga esattamente 2,43 metri e lunga un massimo di 8,4, permettendogli di essere caricata all’interno di un container dai portuali. Il che gli ha permesso, nel corso delle ultime generazioni, di seguire il carico attraverso le onde dell’Oceano, per trovarsi pronta, caso per caso, a portarlo fino all’ultima destinazione.

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