L’astruso mico-parassita che compare dopo 30 lustri ai cercatori predestinati

Un calice diabolico che sorge dalle oscure profondità, eppure non più grande di una decina di centimetri appena. Co propaggini simili a tentacoli, che ricordano piuttosto le zampe di un ragno, o le protrusioni acquatiche di un qualche tipo di echinoderma. Tesoro irraggiungibile ed onirico, all’interno di un oceano di grigiastra e trascurabile Normalità… Ogni anno a partire dal 1991, all’apice dell’estate, nei dintorni del lago Calumet all’interno della città metropolitana di Chicago, un gruppo di persone si riunisce per assolvere a un’importante promessa. Specialisti e appassionati, giovani ed anziani, dopo un breve discorso motivazionale quindi si separano, perlustrando ciascuno un’area attentamente definita del terreno umido ed a tratti paludoso della zona. Camminando con la massima cautela, qualche volta a appoggiati su braccia e gambe, gli occhi rivolti magneticamente verso il terreno, spostano le foglie, frugano tra il suolo friabile, abbassano la testa per scrutare sotto l’incavo delle radici. Ed ogni tanto, qualche volta, uno di loro grida “Gente, accorrete! Credo di averla trovata!” Si discute per qualche minuto. I botanici del gruppo danno il proprio contributo. Finendo per riuscire ad identificare, ogni volta, il piccolo fiore come appartenente a specie di una varietà decisamente più comune. Di quella stessa pianta che nel 1912, la studentessa dell’Università di Chicago Norma Pfeiffer scorse casualmente durante una passeggiata, scuotendo indirettamente il mondo scientifico della sua Era. Dopo averne fatto l’oggetto di una sua ricerca, coronata dal raccoglimento di un campione, destinato a riprodursi per un breve periodo in laboratorio. Eppure dopo la fine di quella particolare linea di discendenza, nessuno avrebbe mai più visto coi suoi occhi la semi-leggendaria Thisma Americana. E non per mancanza di tentativi…
Questione niente meno che inevitabile, quando si parla di una pianta come questa, del tutto priva di clorofilla e per questo in grado di sopravvivere, per la stragrande maggioranza della sua esistenza, interamente sotto terra. Come… Un fungo, potremmo affermare e non è questo certamente un caso, quando si considera lo stretto rapporto simbiotico intrattenuto con lo strato di micelio che, inevitabilmente, condivide il territorio di simili appartenenti all’ampio gruppo delle monocotiledoni. Che successivamente ad una serie d’importanti deviazioni dal corso principale dell’evoluzione, hanno finito per apprezzare un po’ troppo il tipico rapporto mutualmente vantaggioso della micorriza, in cui l’organismo produttore di spore fornisce nutrimento alle radici soprastanti, penetrandovi all’interno tramite l’impiego delle apposite propaggini chiamate “ife”, da cui assorbe in cambio le sostanze elaborate grazie ai processi della controparte di superficie. Laddove nella perversione di un simile meccanismo, piante mico-eterotrofe come questa assomigliano piuttosto a dei veri e propri vampiri, riuscendo a prosperare grazie ai metodi fungini senza dover offrire alcunché in cambio. Un approccio certamente più raro, associato ad alcune varietà di orchidee. Ed in maniera ancor più univoca ed imprescindibile, all’intero genere della spesso perduta e largamente introvabile Thismia Griffith, raramente più larga di pochi centimetri, e per questo soprannominata come un piccolo gioiello oppure grazie all’espressione assai caratteristica di “lanterna delle fate”. Così come all’inizio battezzata dall’importante botanico e ricercatore italiano del XIX secolo Odoardo Beccari, che ne illustrò e documentò un’esempio nella densa foresta pluviale malese circostante il massiccio di Matang, sul finire dell’anno 1867. Primo ed ultimo all’interno di un periodo destinato a durare ben 151 anni, finché l’incredibile non avrebbe avuto modo di realizzarsi. Dimostrano come i sogni, qualche volta, possono riuscire a trasformarsi in verità…

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Osservando le acute strategie di caccia del ragno triangolare australiano

Nella vita accelerata di una mosca, la bellezza può essere pericolosa, persino letale… Voglio dire, per un dittero anche la bruttezza può esserlo, o persino l’assenza di una percezione sensoriale di alcun tipo, accompagnata dall’assenza di particolare senso critico che si accompagna stesso alla natura assai rudimentale di un cervello che capisce più che altro dei concetti vaghi come “fame”, “sazietà”, “risposare” o “FUGA!”. Poiché non importa quanto possano essere allenati i propri sensi, non si può scappare da quello che non si è capaci di vedere, e/o individuare come fonte di pericolo, o/e sviare con un rapido balzo all’indietro, seguito dal ronzante tentativo di elevarsi al di là del problema. Cose che silenti giacciono sul bordo della foglia. Esseri dormienti, ma soltanto in apparenza, il cui senso stesso della vita si realizza nell’agire rapidi, ed inaspettati, chiudendosi come una pinza creata per tagliare il flusso di un massiccio acquedotto cittadino.
Placida, tranquilla, addirittura amena può essere una forma come quella del cerchio. Solida e coerente quella del quadrato. Ma è il triangolo, tra tutte, ad essere la più dinamica e aggressiva, spigolosa, intonsa di un pesante senso di minaccia di natura primordiale; quello espresso, a suo modo, dal genere australiano e delle isole limitrofe degli Arkys, un gruppo di ragni tessitori della famiglia Araneae che in un momento non specificato della loro esistenza pregressa devono essersi detti qualche cosa sulla falsariga di “Chi ha davvero tempo per fare questo?” Abbandonando l’abitudine di creare le tipiche appiccicose trappole di forma grossomodo circolare. Scegliendo in modo alternativo di affidarsi alla rapidità fulminea delle proprie zampe anteriori, capaci di chiudersi con una forza sufficiente a mantenere intrappolata un’ampia varietà di possibili prede. Predatori dunque di quel tipo aracnide alternativo, cui appartengono anche i cacciatori salticidi, ma tutt’ora inclini ad adottare l’originale tattica dei propri antichi predecessori ancor più tradizionalisti contemporanei: passività prima del movimento. Pazienza sopra l’avidità. Ben sapendo che qualcosa o qualcuno, presto o tardi, dovrà necessariamente passare di lì.
Creature non troppo studiate dal mondo scientifico, probabilmente per il semplice rapporto tra la quantità di aracnidi esistenti e il tempo disponibile all’interno dei laboratori, i ragni triangolari sono d’altronde particolarmente amati dai fotografi del continente d’Oceania, proprio per la loro abitudine a sostare immobili rendendo molto facile l’inquadratura, anche alle loro dimensioni assai ridotto che raramente superano gli 8-10 millimetri nella femmina, circa 6 nel maschio. Per non parlare dell’aspetto sostanzialmente identico tra i sessi per ciascuna singola specie, nonché straordinariamente variegato tra queste, in un tripudio di colori, forme e approcci molto personalizzati al concetto di mimetismo. Poiché non c’è agguato maggiormente inutile, di quello che persino una mosca potrebbe anticipare. Soltanto il suo concetto di chiarezza non è sempre, oppure necessariamente, identico a quello di un imponente bipede del mondo bipede dei Sapiens

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Torna libero a San Valentino il rarissimo cinghiale non più grande di un bulldog francese

Elefanti, rinoceronti, bufali della giungla. In mezzo all’erba nella terra dei giganti, alle pendici dei più alti monti del pianeta Terra, qualcosa di minuscolo agita il pesante strato di vegetazione. L’abitante che grugnisce, la creatura onnivora del sottobosco, un parente non così lontano del suino selvatico frequentemente avvistato sui confini delle grandi capitali europee. Sebbene sia stato spostato nuovamente dopo più di 100 anni nella classificazione originaria del 1847, all’interno di un suo genere distinto creato dal naturalista ed etnologo inglese Hodgson, il cui nome in lingua latina riesce ad essere già un programma: Porcula, ovvero “il piccolo maiale” silvania, “della foresta”. Appena 25 cm d’altezza: quasi la realizzazione accidentale del perfetto sogno, tanto a lungo perseguito, di una creaturina casalinga degna in linea di principio di essere affiancata a cane, gatto ed altri esseri considerati affini, per la naturale inclinazione a conoscere e comprendere gli spazi degli umani. Se non fosse per il trascurabile dettaglio, in realtà difficile da superare, degli appena 100-250 esemplari rimasti liberi allo stato brado, tali da farne anche il detentore di un record molto meno desiderabile: quello del singolo suino più raro attualmente in bilico sul baratro dell’estinzione. Avendo dato luogo, nel corso degli ultimi 25 anni, ad una delle iniziative di conservazione più stratificate e complesse di tutta l’India, centralizzata primariamente nel Parco Nazionale di Manas dello stato di Assam, con un possibile (teorico) sconfinamento in Bhutan. Questione particolarmente difficile da confermare, vista la natura schiva e scaltra di questo animale, forse massimizzata attraverso i molti secoli di caccia condotta ai danni della sua linea di sangue, così gradevolmente commestibile e purtroppo totalmente indifesa. Questione di per se ancor meno problematica della costante riduzione del suo habitat, dovuta all’allevamento locale di bovini ed altri armenti, seguìta dall’incendio sistematico d’intere aree ricoperte dalla succitata erba Imperata cylindrica, della poco praticabile altezza di 60 cm. Ampiamente sufficiente per nascondere, d’altronde, le frequenti peregrinazioni dei gruppetti familiari di 4 o 5 esemplari di queste creature onnivore, ciascuno in grado di mantenere il controllo di un territorio di fino 25 ettari, all’interno del quale costruiscono il proprio “nido”. Una vera e propria cupola creata con l’erba intrecciata, dentro cui la femmina si ritira all’inizio della stagione dei monsoni, per mettere al mondo un numero variabile tra i 3 ed i 6 piccoli generalmente una singola volta l’anno. In una quantità purtroppo insufficiente, per far fronte alla potente pressione che grava quotidianamente sulla sopravvivenza di questa specie, per non parlare della predazione naturale ad opera di tigri, pitoni e corvi, mentre manguste e gatti risultano ampiamente sufficienti all’eliminazione sistematica della prole…

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Le più grandi piattaforme vegetali che galleggiano nei laghi dell’Amazzonia

Così divenne uno stato di fatto, nel prolungarsi delle interminabili giornate, che ogni domanda fosse posta al grande oracolo di Lilynet. E le risposte più difficili, ormai una cosa da nulla, si palesassero dinanzi a chi era stato abituato a vivere nell’incertezza. Lilynet, una grande rete interconnessa di pannelli, capaci di fluttuare lievi sopra il mare dell’ignoranza. Nati progressivamente dal diffondersi di un singolo seme, in grado di riuscire a replicar se stesso molte incalcolabili migliaia di volte. E quanti conflitti, quanta sofferenza, quanta distruzione, nell’incedere continuo delle circostanze, sono stati dedicati alla prosperità di questo seme, sommamente dedito all’acquisizione del suo percepito “spazio di sopravvivenza”. Poiché Lilynet è modulare, adattabile e omnicomprensiva. Ma non tollera la deviazione dal fondamentale canone che governa la considera la base di ogni accordo non stretto, qualsiasi configurazione incerta dei fattori interconnessi. Ogni ramo deve avere una ragione. Ciascun gambo in fibra vegetale, assolvere allo scopo di veicolare il grande flusso delle informazioni, mediante l’energia linfatica ricolma del potere della sua scienza. Perché un simile sistema, in natura come in ambito creato dagli umani, può sussistere soltanto grazie all’impiego di circostanze favorevoli alla sua continuità ininterrotta; che potrebbe e tanto spesso necessità della possente luce della grande stella al centro del nostro cielo. Sole, vita, luce incontrastata di una verità importante: che ogni singola creatura dello stagno, dev’essere passata al vaglio dalle spietatissime sub-routine di Lilynet. E quasi mai, gli riesce di superare un così complicato esame.
E perché una simile teoria non resti solamente tale, ecco a voi una breve trattazione esplicativa, gentilmente offerta al pubblico di Internet dalla Tv britannica, per pubblicizzare l’ennesima serie di magnifici documentari con la voce del grande Attenborough: “il tiranno degli abissi” hanno deciso di chiamarlo. E per quanto possa essere opinabile tale collocazione nelle oscure profondità acquatiche (qui si arriva al massimo di 7-8 metri sotto la superficie) non credo nessuno possa anche soltanto pensare di criticare la seconda parte di quel titolo, che vorrebbe anche essere un soprannome. Dedicato alla Victoria amazonica, niente meno, quella che costituisce la più notevole e imponente ninfea dell’intero pianeta Terra, con un’areale distribuito principalmente tra i confini del Brasile ed altri paesi limitrofi dell’America Meridionale. La cui indole inerente implica una forza di autoaffermazione, ed il principio d’annientamento verso qualsiasi possibile rivale, da far l’invidia delle casate nobili al centro della serie di romanzi del Trono di Spade. Una dote… Significativa, quando si prende atto dei circa 3 metri occupati da ciascuna foglia e 40 cm di fiore, di una pianta che non soltanto necessità di ampi spazi, ma vere e proprie piazze limpide di acqua stabile nascoste tra le schiere d’alberi nel sottobosco. Grazie all’impiego di una serie assai particolari di accorgimenti. Non ultimo, un sistema riproduttivo particolarmente insolito e funzionale…

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