Un intero arcipelago formato dalla furia incontenibile del magma primordiale, emerso dal profondo oltre il punto di cesura dello stretto di Tokara, in epoche geologicamente e cronologicamente remote. Ma neppure la sua colonizzazione ad opera di genti provenienti dal vicino Giappone, risalente ai periodi arcaici di Jōmon, Yayoi e Kofun, sarebbe stata sufficiente ad esplorare e contestualizzare ogni singolo mistero delle Ryukyu, dorso delle tartarughe metaforiche del tutto circondate dal vuoto dell’oceano senza tempo. Dove strane cose, e strani individui, si aggirano tra le ombre longilinee degli alberi di kadsura e i banani. Oscuri, subdoli, mimetizzati: sono i Kenmun, folletti antropomorfi associati allo scorrere delle acque, per certi versi vicini ai più famosi Kappa della tradizione nazionale, visto il possesso di una ciotola concava sulla cima della testa, fonte in base alle leggende della loro forza sovrannaturale. Ma di colore scuro, con gli occhi rossi e ricoperti di una folta peluria, possibilmente fatta scomparire a comando soltanto nel momento in cui s’infiltrano tra le persone per giocare qualche dispetto o tiro mancino. Pur non essendo, nella maggior parte delle circostanze, dotati di connotazioni veramente maligne. Questo perché simili creature, come tanti esseri facenti parte del distintivo e inconfondibile folklore nipponico, possono venire ricondotti a specie animali realmente esistenti. E caso vuole che per quanto riguarda i possessori di tali prerogative, l’ipotesi predominate porti dritta a un animale che non ha istinti aggressivi, né capacità di nuocere a chicchessia. Il parimenti timido, notturno, silenzioso e al tempo stesso intraprendente Pentalagus furnessi, che tutti chiamerebbero coniglio “di Amami” pur essendo maggiormente simile a una lepre tozza del colore di un tasso del miele. Ovvero di un grigio scuro inframezzato da tonalità divergenti, come nel tipico manto ricercato in determinate razze di cani che incontra la definizione tecnica di “sale & pepe”. Essere piuttosto sconosciuto fuori dal suo territorio di appartenenza, pur superando anche in tal senso le legittime aspettative, vista l’esistenza stimata ad oggi di un massimo di 5/6.000 esemplari, come determinato dal conteggio delle caratteristiche sferette di sterco disseminate lungo tutto il territorio isolano. Tutti concentrati, per l’appunto, entro il sopracitato ambito territoriale e per questo imprescindibilmente a rischio di essere colpiti da possibili agenti patogeni, disastri naturali o il tipo di fraintendimenti causati dalle intenzioni, il più delle volte benevole, dei loro coabitanti umani. Vedi il caso dell’introduzione artificiale in questi siti attorno alla fine degli anni ’70 di 15 coppie in età riproduttiva della piccola mangusta indiana o Herpestes javanicus, con l’intento di favorire l’eliminazione sistematica delle pericolose vipere Kume Shima habu/P. flavoviridis (o più semplicemente habu) se non che trattandosi di creature dalle abitudini notturne, contrariamente al vorace carnivoro del continente, quest’ultimo avrebbe presto cercato, con gran soddisfazione, una preda elettiva maggiormente conduttiva ai propri bisogni. Individuandola, per l’appunto, nell’Amami no-kuro-usagi (アマミノクロウサギ 奄美野黒兔 – Coniglio nero selvatico dell’isola di A.) anch’esso abituato a muoversi dopo l’ora del tramonto, ma purtroppo per lui non altrettanto abile a scomparire durante il passaggio delle ore diurne. Una grave mancanza, per un letterale spuntino ambulante, privo di altro metodo di autodifesa che la capacità di correre via veloce. E tanto spesso, neppure quello…
foresta
Osservate, formiche, il tenero batuffolo distruttore dei mondi
La bandiera nazionale della Guinea Equatoriale, una delle poche in cui figuri un arbusto, nasconde in realtà un piccolo segreto. Poiché se fosse possibile ingrandire tale pianta, scrutando attentamente in mezzo alle sue fronde, vi apparirebbe l’accenno appena visibile di un movimento. Poiché saldamente abbarbicato ai rami del kapok (albero del cotone sudamericano) figura in mezzo ai vaporosi baccelli una creatura dello stesso identico colore, consistenza e aspetto in senso generale. Colui o colei che lentamente compie le sue esplorazioni, alla ricerca dei popolosi insediamenti da distruggere… Con il passaggio di una lingua imprevedibilmente lunga e micidiale. Tutto in proporzione, s’intende! Chi potrebbe temere d’altra parte, tra gli umani, questo esponente di 15 centimetri circa del super-ordine degli Xenarthra o “vertebrati-alieni” per la particolare conformazioni delle loro vertebre e il bacino. Esseri principalmente appartenenti al contesto ecologico dell’America Meridionale, che includono l’armadillo, i bradipi ed i formichieri. Tra cui la nostra beneamata conoscenza, dal numero del Pokèdex incerto, ed altrettanto ardua classificazione attraverso il succedersi delle epoche pregresse. Biasimate, a tal proposito, la remota collocazione della specie, ma anche la semplificazione ereditata da Linneo in persona nel 1758, che potendo basarsi unicamente su un numero limitato di campioni e cataloghi di seconda mano, individuò una singola specie monotipica “pigmea” che decise di denominare Myrmecophaga didactyla (oggi diventato Cyclopes didactylus) in netta contrapposizione con il genere lievemente meno compatto e ferocemente territoriale del Tamandua. Soluzione data come buona almeno fino all’epoca corrente, quando l’accumularsi dell’evidenza nelle osservazioni portò a far notare l’effettiva persistenza di due almeno tre popolazioni geneticamente indipendenti: quella settentrionale a nord dell’Amazzonia, una seconda nel nord-est del Brasile ed una terza più piccola, situata nel paesaggio paludoso di mangrovie dell’isola di Trinidad, a largo della costa sudamericana. Il che potrebbe non aver neppure dato inizio all’effettiva presa di coscienza della situazione, quando si considera lo studio pubblicato nel 2017 da Flávia Miranda ed altri naturalisti dell’Università federale di Minais Gerais, relativo all’individuazione di ben sei distinti gruppi di fenotipi e una conseguente speciazione, potenzialmente, ben più complessa di quanto originariamente sospettato. Certo, in forza di tratti esteriormente non troppo evidenti, quali la forma del cranio e la scurezza delle linee disegnate sul ventre e il dorso del formichiere, purtuttavia funzionali a comprenderne la fondamentale diversificazione a partire da un’eredità genetica comune, probabilmente risalente al remoto Pleistocene. Ben più che una mera formalità, quando si rileva la sua effettiva classificazione monolitica come animale a “rischio minimo” d’estinzione, che potrebbe del tutto ragionevolmente non corrispondere alla verità dei fatti…
L’improvvisa manifestazione dei gamberi miracolosi nelle pozzanghere del Maine
Quanto delicato è realmente questo ecosistema, fino a che punto dobbiamo pensare ai nostri gesti e quello che riescono a causare, più o meno direttamente, nello scivoloso rapporto tra gli eventi fino a condizioni non più necessariamente recuperabili, in alcun modo conduttive a condizioni che si oppongono all’entropia? Per comprenderlo davvero, utilizzando un caso come punto di riferimento, basterà guardare al triste fato del gambero fata della Florida (Dexteria f.) finito per estinguersi nel preciso momento durante l’anno 2010 in cui, per costruire un edificio, fu deciso di prosciugare un piccolo punto d’accumulo dell’acqua piovana, in una depressione totalmente indistinguibile da tutte le altre. Almeno finché non fu fatto notare, purtroppo in ritardo, la maniera in cui quel sito costituiva l’unico recesso noto per quella notevole specie animale, che a partire da quel momento sarebbe stata relegata alla memoria dei naturalisti e i libri scientifici sul tema dei piccoli crostacei nuotatori. Giusto, sbagliato, poco importa: il corso del progresso porta l’uomo a muoversi attraverso dei binari obbligatori. Che pur espandendo i territori e i margini del profitto materiale, tende a metterlo in conflitto con l’ambiente così com’era prima della sua venuta. E tutto quello che all’interno di esso, fin da un’epoca remota, continuava a vivere in maniera ragionevolmente indisturbata. Ma il problema principale, che esula persino dallo spettro dei problemi presi in considerazione negli ambienti dei commissari ambientalisti più appassionati, è la maniera in cui non tutti le creature sono carismatici, appariscenti, sufficientemente grandi da lasciare un chiaro segno nella mappa ideale delle circostanze. E ve ne sono alcune, in modo particolare, che sfuggono alla percezione della gente comparendo ai meri margini della coscienza, a stagioni alterne, per poi ritornare nuovamente nell’ottuplice ed impercettibile dimensione.
Anostraca, forse saprete già di cosa parlo. O più nello specifico Branchinecta, Branchinectidae. Non le tipiche “scimmie” di mare in salamoia, questa volta (giocattolo scientifico dei tempi andati) né il triops, minuto fossile corazzato dal guscio idrodinamico (di cui pure parlammo in tempi non sospetti) bensì quei loro umili cugini raramente superiori ai 3-5 cm di lunghezza, disseminati nell’intero territorio degli Stati Uniti a partire dalla penisola meridionale nell’Atlantico ai fino ai territori ricoperti di foreste, pianure aride, colline remote lungo il tragitto della costa situata maggiormente a settentrione. Questo perché di animali acquatici che vivono primariamente circondati dalle acque ce n’erano già troppi. Laddove il gambero fata essenzialmente non ha nessun reale bisogno di quel tipo di presupposto. Facendo del suo stile la capacità di prosperare non soltanto nell’entroterra, bensì sfruttando quel tipo di pozza d’acqua dolce meramente stagionale, che compare al culmine della stagione delle piogge per poi evaporare o essere assorbita dalla terra, nel corso dell’estate più secca e incombente. L’inizio ricorrente, per tali esseri, di una drammatica ed al tempo stesso imprevedibile avventura…
Lo spettacolare mega-insetto che perlustra dopo 10 anni la foresta sudamericana
Non si tratta esattamente del tipo di creatura che scorgi ai margini del campo visivo, mentre zampettando esplora silenziosamente la veranda della tipica villetta a schiera di periferia. A meno di voler considerare, in linea di principio, ciò che può essere incline a immaginare nello spazio tra le sue mandibole e il pronoto. Ma l’orecchio umano è chiaramente in grado di riuscire a percepire il suo passaggio, di sei zampe grosse quanto ramoscelli, le scricchiolanti elitre e la grossa pinza mandibolare, abbastanza grande da poter fare a fette una zucchina di media entità. Purché simili verdure, s’intende, crescessero nelle foreste di Guatemala, Brasile, Argentina e in generale tutte le nazioni attraversate dal bacino del Rio delle Amazzoni, quasi come se fosse stato unicamente il corso del grande fiume ad aver accompagnato, in una qualche epoca pregressa, le lunghe migrazioni dei suoi primordi. Il che da un certo punto di vista, rappresenta un lato positivo degli eventi, poiché un ipotetico incontro con la forma adulta del Macrodontia cervicornis, alias “scarabeo dalle lunghe corna e grande mandibola” potrebbe risultare per noi terrificante. E se non riuscite ancora a immaginarne le effettive proporzioni, lasciate che ve le chiarisca: fino a 17,7 cm dalle punte segmentate delle sue ganasce alla parte finale delle strisce ondulatorie marroni e nere che percorrono la sua schiena. Per una creatura a suo modo magnifica e che la natura ha ben pensato di notare, come parte del suo ininterrotto processo di miglioramento, anche della dote encomiabile del volo. Creando la documentata contingenza, tutt’altro che impossibile, di un esemplare che accidentalmente sbatte contro una finestra, giungendo addirittura a infrangerne la superficie trasparente. Penetrando dentro casa come l’orribile incubo che può almeno in linea di principio giungere a rappresentare.
Ed altrettanto inoffensivo nel corso delle ore di veglia, purché non se ne abbia paura, come massimo rappresentante della famiglia dei Cerambicidi (o Cerambici) ovvero scarabei il cui più grande gesto con effetti sul benessere comune è quello di fagocitare grandi quantità di legno marcio ed altra materia vegetale, attività non del tutto priva d’inaspettati risvolti positivi. Lasciando esistere in effetti degli studi non specifici, secondo i quali il ruolo di questa intera classe di creature possa essere benefico per la diffusione dei funghi e delle muffe, favorendo conseguentemente l’interscambio e riutilizzo delle sostanze minerali destinate alla terra. Un’attività indubbiamente praticata con profitto dall’intero genere di appartenenza del nostro imponente esploratore domestico, composto da un minimo di 11 specie acclarate con la classica varietà che tende a caratterizzare gli insetti, vista la tendenza a mettere in pratica tale attività nel corso della propria vita per un periodo di circa una decade. Non che durante il corso di tale frangente, riuscireste facilmente a riconoscerlo senza l’assistenza deduttiva e scientifica di un po’ di biologia creativa…