Col sopraggiungere dell’epoca industriale, grazie all’invenzione della macchina a vapore, fu scoperto che pompare l’acqua verso l’alto portava inerentemente un’ampia serie di vantaggi. Svuotava le miniere allagate, permettendo di continuare l’estrazione mineraria anche nei periodi più piovosi dell’inverno; consentiva d’irrigare terreni precedentemente reputati non coltivabili, in funzione della loro inaccessibilità territoriale; ma soprattutto, permetteva d’immagazzinare a tempo indeterminato l’energia. Già perché, se analizziamo le caratteristiche fisiche di quello che siamo soliti definire il mondo, appare evidente come due tra i quattro elementi identificati dalla filosofia classica tendano perennemente verso il basso, in funzione della forza gravitazionale che permea ogni cosa. Ragione per cui, intrappolare un fluido più pesante dell’aria all’interno di un’alto edificio, significa disporre di una preziosa risorsa, capace d’instradarlo in seguito verso qualsiasi direzione desiderata. È il concetto, questo, di uno degli elementi più antichi e tutt’ora rilevanti di qualsiasi acquedotto in senso moderno, il serbatoio sopraelevato. Anche detto standpipe (tubo verticale) o dal punto di vista prettamente architettonico, torre piezometrica della pressione. Se si osserva con la giusta inclinazione, appare quindi facile trovarne pressoché ovunque: dalle piccole comunità rurali del centro europa alle città anglosassoni, per non parlare delle loro controparti d’Oltreoceano, le vaste metropoli degli States. Passando per comunità olandesi come Ijmuiden, il porto commerciale che si affaccia alla foce del Noordzeekanaal (Canale del Mare del Nord) un tempo villaggio di contadini dal nome di Breesap, prima di crescere fino a svariate decine di migliaia di abitanti nel corso del XVII secolo, quando furono completati i lavori per collegarla con Amsterdam tramite la via marittima artificiale. Un passaggio, questo, capace di sollevare svariate problematiche infrastrutturali. Tra cui quella, sempre presente, di fornire acqua in quantità sufficiente per tutte le case.
La situazione fu affrontata per gradi, attraverso tutto il corso del XVIII, durante il quale i più abili ingegneri d’Olanda costruirono un sistema idrico capace di sfruttare le pendenze naturali del territorio per trasportare l’acqua oltre le dune, fin dentro le case di un numero sempre crescente di cittadini. Fu soltanto nel 1915 quindi, che nel contesto di un simile sforzo istituzionale, venne costruita la torre piezometrica dell’Evertsenstraat, un tozzo edificio alto la cifra considerevole di 42,60 metri (praticamente, l’equivalente di un palazzo di 11 piani). Chi si trovava ad osservarla dal livello della strada, tuttavia, notò fin da subito qualcosa di strano: sopra la solida struttura in calcestruzzo costellata d’inutili finestre ornamentali, l’ignoto progettista aveva deciso di porre una vera e propria abitazione in stile vagamente vittoriano, accentuando notevolmente l’aspetto bizzarro del paesaggio così profondamente ridisegnato. Praticamente poteva sembrare che la famiglia Addams, stanca di dar retta ai suoi innumerevoli visitatori, avesse deciso di spostare la propria casa sulla cima di un albero, per scrutare con sdegno l’intera città addormentata. Un’espressione, se vogliamo, di un diverso modo di assolvere alle necessità dell’ambiente cittadino: quando le infrastruttura non venivano ancora considerate un male necessario, bensì l’occasione di abbellire ulteriormente, in qualche maniera, lo scenario in cui molte migliaia di persone sceglievano di trascorrere la propria vita. Nel 1927 fu spesa una cifra ulteriore di 2.300 fiorini, per installare un orologio sulla sommità del serbatoio, in grado di contenere 2500 metri cubi d’acqua. Successivamente abbandonato a se stesso per l’introduzione delle moderne stazioni di pompaggio cittadine, l’edificio fu quindi oggetto di un incendio doloso e vari atti vandalici verso l’inizio degli anni 2000, eventi a seguito dei quali fu effettuato un profondo intervento di restauro con finanziamenti privati, dal costo di oltre un milione di euro, finalizzato a rimuovere gli elementi strutturali non più necessari. L’azienda che aveva acquistato il sito dalla notevole rilevanza storica, quindi, non poté fare a meno di notare quanto esso assomigliasse naturalmente a una specie di condominio a sviluppo ultra-verticale. Ragione per cui, una volta ottenuti i permessi necessari, iniziò immediatamente i lavori per trasformarlo in una serie sovrapposta di loft, l’uno sovrapposto all’altro, dalle rifiniture di alto livello e una vista inconfondibile sul Noordzeekanaal. Ciò che un tempo era necessario, oggi tornava utile. E la città di Ijmuiden aveva ritrovato un apprezzabile monumento.
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Cavalli e altre figure disegnate nello scheletro delle colline
Figurano senz’altro tra le immagini chiaramente inscritte nel repertorio della fantasia comune contemporanea, quella dell’uccello dalle ampie ali, del ragno geometrico e la scimmia, la lucertola e le altre messe in mostra sopra il suolo del deserto peruviano, dall’antica civiltà dei Nazca tra il 300 e il 500 d.C. Geoglifi dell’ampiezza di 300, 380 metri, fantastici e moderni nello stile fortemente idealizzato che li caratterizza. È curioso e significativo, tuttavia, che un’espressione molto simile dell’arte primordiale, al tempo stesso più antica ed a noi notevolmente più vicina, sia largamente sconosciuta all’opinione pubblica europea. Per lo meno fuori dal suo paese di provenienza, l’Inghilterra. Luogo di gigantesche pietre disposte in cerchio per formare antichi osservatori, ma anche anomali prodotti della geologia, colline, montagnole ed alture in cui grattato via lo strato superiore del terreno, compare il gesso bianco come l’osso che costituisce il grosso della massa sottostante. Uno stato dei fatti, questo, che può essere descritto solamente come origine di ogni ispirazione, ovvero in termini televisivi, il prototipo dell’Art Attack.
Certo è probabile che, circa 3.000 anni fa (verso la fine dell’Età del Ferro) la creatività dell’uomo fosse propensa ad instradarsi nella riproduzione di quello che aveva modo di vedere coi suoi stessi occhi primitivi. E non abbiamo alcun esempio, tra i ritrovamenti parietali sotterranei o le altre pitture miracolosamente giunte fino a noi, di arte astratta totalmente scollegata dall’espressione quotidiana dell’esistenza. Eppure questo non significa che i nostri remotissimi antenati fossero del tutti privi di talento: guardate, ad esempio, i ritratti di animali che ricoprono la celebre grotta di Lascaux, raffiguranti tra gli altri tori giganteschi, uri ed altri animali oggi estinti. O il colossale cavallo realizzato ad Uffington, nella contea dell’Oxfordshire, della lunghezza di 110 metri dal muso alla punta della sua lunghissima coda arcuata. Secondo un canone estetico che sembra concepito più che altro per esprimere l’idea del dinamismo, di questa creatura nobile e scattante, attraverso il numero minore di linee, con una concisione che in altre circostanze o località geografiche, si potrebbe quasi definire Zen. Chi ha tracciato tutto questo? Non si sa. Per quale ragione l’avrebbe fatto? Anche questo, a voler essere pignoli, non è chiaro. Benché le teorie naturalmente abbondino, compresa quella più probabile secondo cui si tratterebbe di un’insegna territoriale, tracciata all’epoca per indicare che l’intera zona era sotto il controllo di un’autorità, oggi convenzionalmente definita “il clan del Cavallo”. Non per niente, nel corso dell’ultimo secolo sono state ritrovate alcune monete risalenti alle origini della civiltà britannica, sopra le quali figura la rappresentazione dello stesso cavallo, facendone un probabile sigillo ricorrente dell’organizzazione sociale di allora. Ma proprio simili ritrovamenti, incidentalmente, si trovano alla base dell’assai difficile datazione, facendo di questo cavallo l’unico geoglifo inglese la cui autenticità è ritenuta pressoché certa. Diversamente dalle molte imitazioni presenti nel Sussex, nello Wiltshire e nell’Aberdeenshire, generalmente più simili alla sagoma di quello che potremmo definire un “cavalllo” eppure tutte risalenti al periodo che va dal 1700 alla seconda metà del XIX secolo. Tutt’altra questione invece per un paio di figure antropomorfe, in merito alle quali sussiste per lo meno un certo grado di sospetto d’autenticità.
Esse sono: l’Uomo Lungo (72 metri) di Wilmington, silhouette con strette nelle mani due lunghi bastoni sui quali, in base ad alcuni disegni d’epoca, un tempo trovavano posto gli accessori necessari a farne un rastrello e una falce, simboli universali dell’agricoltura; e l’assai più famoso, nonché scurrile, gigante di Cerne Abbas. Scavato per 55 metri in Dorset sull’omonima collina, con il possibile scopo di rappresentare una divinità pagana legata al culto della fertilità, vista la totale assenza di vestiti nonché l’evidente erezione, posta in giustapposizione con una grossa clava tenuta sopra la testa. Che potrebbe anche rappresentare, secondo alcuni, il dettaglio (si fa per dire: è lunga già da sola 37 metri) concepito la fine d’identificare il personaggio, che in tal caso dovrebbe essere niente meno che Ercole, la versione latina dell’eroe figlio di Zeus, Eracle il fortissimo guerriero e cacciatore. Oppure, nell’interpretazione meno antica del geoglifo, semplicemente il dittatore militare del XVII secolo Oliver Cromwell, così raffigurato per mettere in ridicolo la sua dura lex, esercitata nella punizione sistematica di chiunque auspicasse alla restaurazione della monarchia inglese. Senza mai essere sconfitto in battaglia, almeno fino a che contrasse la malaria e un brutto caso di calcoli renali, lasciando le sue truppe impreparate a cedere sotto l’assalto di re Carlo II, che riuscì a riconquistare la capitale. Di certo, ad ogni modo, una simile interpretazione non spiega l’evidente stato di eccitazione sessuale del gigante…
Musica, maestro? E non dimentichi di accendere la vongola gigante
Se esiste un centro luminoso della Cina meridionale, esso non può essere che situato nelle vicinanze della baia di Xiangzhou, dove un ipotetico pescatore, dalla sua barca a poche centinaia di metri dalla riva, potrebbe allargare le sue braccia per contenere allo stesso tempo le città di Hong Kong, Macau e Shenzhen, forse il più importante polo dell’industria elettronica in tutta l’Asia. E risalendo solamente un poco l’ampio delta del Fiume delle Perle, menzionato in tanta poetica e letteratura di quel paese, scorgere gli alti palazzi della zona moderna di Canton, circa 20 secoli fa nota con il nome di Panyu, nonché il ruolo di capitale provinciale dell’impero degli Han. Ma c’è un solo agglomerato, incuneato tra questi recessi urbanistici d’importanza nazionale, ad essere stato votato una pluralità di volte come “città più vivibile di tutta la Cina”. E questo centro è Zhuhai, fondata formalmente negli anni ’80, come risposta pratica all’istituzione delle Zone Economiche Speciali nel principale paese comunista al mondo; un polo turistico d’eccezione, con le sue bianche spiagge e attrezzatissime riviere, che la rendono paragonabile per certi versi alle nostre Rimini e Riccione. E una popolazione di “appena” un milione e mezzo di persone, tale da renderla praticamente semi-vuota per gli standard locali. Ma se c’è una cosa che mancava, fino a poco tempo fa, in questo mezzo paradiso dal clima sub-tropicale, era un punto di riferimento valido a farlo conoscere in tutto il mondo, qualcosa che potesse restare impresso sul paginone centrale delle guide turistiche, così come i ricordi dei visitatori stranieri. Ed è così che verso gli inizi degli anni 2000, l’amministrazione cittadina ha indetto un concorso per la costruzione di un nuovo auditorium/teatro dell’opera in prossimità della linea costiera, traendo probabile ispirazione da quello arcinoto dell’australiana Sydney, forse tra le architetture moderne del mondo cosiddetto Occidentale, una delle più famose in assoluto. E nessuno potrebbe negare che risultato conseguito, verso la fine del 2017, sia certamente… Peculiare.
La Zhuhai Opera House si eleva sopra un’estensione artificiale dell’isola di Yeli, la più grande e prossima alla costa delle 146 che costellano il tratto di mare dinnanzi al centro cittadino, connessa al continente da un aggraziato ponte curvilineo che sembra protendersi verso il punto d’incontro tra il cielo e il mare. A metà del quale, rosso come una peonia, sorge dalle acque il caratteristico ristorante a forma di nave-pagoda Dayuefang, prevedibilmente specializzato in pesce e suoi derivati. Ma nemmeno questa forma sgargiante può distogliere oggi l’attenzione dai due massicci edifici, alti rispettivamente 90 e 60 metri, creati per costituire l’attrazione principale dell’intero tratto costiero. Con la forma che ricorda molto da vicina quella di altrettante conchiglie, o per essere più specifici, esponenti della specie naturale Amusium pleuronectes, un tipo di mitile dalla forma “a pettine” chiamato anche vongola della Luna. E proprio questo afferma di aver voluto rappresentare l’architetto Chen Keshi, direttore del Centro di Ricerca per la Progettazione Urbana di Pechino nonché professore presso l’istituto architettonico di Shenzhen, già premiato dalla critica di settore per la “Città dei Sogni”, un hub di grattacieli ultra-modernisti situati nella seconda di queste città. Il quale tuttavia, per questo tempio della musica che sorge dalle acque, dimostra la sua propensione a seguire ispirazioni molto differenti. Tra cui una, inaspettatamente, di origini addirittura italiane…
Un sogno a pedali 50 metri sopra il lago di Garda
Ricordi possibili di un futuro imminente: ho lasciato in macchina l’autostrada per Milano dopo il casello, scorgendo oltre il guardrail un baluginìo distante. È un bacino idrico tra i più famosi del Nord Italia e probabilmente, l’intera Europa, immerso tra ripide colline create dall’azione di un antico ghiacciaio. Garda, immerso in uno scenario spettacolare come un anfiteatro, famosa meta turistica fin dai tempi dell’Impero Romano. Attraversando le verdeggianti colline mi avvicino a Desenzano, il comune più popoloso di queste rive, tra il castello e lo scenario intrigante del Porto Vecchio, per imboccare quindi il viale asfaltato che transita, attraverso un paio di decine di chilometri, attraverso Padenghe, Cunettone e Salò, per poi diventare l’epica e rinomata strada Gardesana. Un percorso pianeggiante dalle dolci curve, tra luci ed ombre dei tunnel scavati nella roccia a strapiombo sul lago, in grado al tempo stesso di ospitare un giro panoramico o il serrato inseguimento di un film di James Bond. Ed è allora che, attraverso palpebre socchiuse per il riflesso dell’astro solare, vedrò qualcosa di difficile da dimenticare. O meglio, qualcuno. Intento a procedere in bicicletta per la sua strada, parallelo al tragitto automobilistico per stagliarsi contro l’altra riva distante, evanescente per l’effetto della foschia. Irrigidendo la mia postura al volante, tento di fare mente locale; mi trovo oramai oltre il borgo di Limone, dove ogni pretesa di spiaggia viene cancellata dal ripido scoglio del corno del Corno di Reamol, sopra cui era collocata l’artiglieria dell’Esercito Italiano, costantemente intenta a far fuoco contro le postazioni austriache dall’altra parte del lago. Ed io so, con certezza nata da Google Earth, che oltre l’orizzonte visibile non c’è nulla, fino alle svariate decine di metri che ci separano dalla superficie dell’acqua distante. Eppure, egli è sospeso, tra cielo e vuoto, mentre impugna il manubrio neanche fosse il triangolo di un deltaplano. Faccio appena in tempo a evocare immagini del piccolo alieno nel cesto anti-gravitazionale, in uno dei film più famosi degli anni ’80, che inizia il tunnel e lo perdo di vista. Una svolta lieve a sinistra, quindi, tra le rocce, appare finalmente la verità. Che come spesso avviene, tenta il sorpasso in curva della fantasia.
Naturalmente, questo scenario ipotetico suppone che io sia vissuto, per molte settimane a partire da oggi, all’oscuro del grande evento che attende il comune più succoso e acido in provincia di Brescia oggi alle 17:00, l’inaugurazione del tratto appena completato di Garda by Bike. Attrazione turistica, infrastruttura pubblica, ausilio alla viabilità, polo mediatico e social dell’entusiasmo e il “desiderio di esserci” delle persone, già richiamate ai dintorni da una campagna pubblicitaria che è stata spontanea, ancor prima che stipendiata. Ma soltanto 300 fortunati tra loro, ciascuno di essi un abitante per l’appunto di Limone, potranno accedere in questa giornata alla passerella sospesa lunga all’incirca due chilometri e mezzo (circa 5 quando sarà completa) infissa direttamente nel fianco roccioso e pietroso con molte centinaia di piloni, versione perfezionata di una vera e propria montagna russa orizzontale, situata niente meno che in uno degli scenari più fantastici disponibili all’immaginazione! Per tutti gli altri, l’unica opzione sarà soggiornare qui fino a domenica mattina, giornata dell’apertura effettiva del varco d’accesso all’itinerario dei sogni, un ricordo pronto a popolare i loro profili Facebook e feed di Whatsapp, forse come elemento a sostegno di una passione decennale per il ciclismo. Oppure, strumento di un bisogno straordinariamente moderno di comparire, lasciare un segno nel fiume di bytes che circonda, oggi giorno, quel mare in tempesta che è il nostro ego personale. E la memoria non può fare a meno di spostarsi, a margine della questione, verso la storica opera galleggiante The Floating Piers dell’artista statunitense Christo, che tra giugno e luglio del 2016 fece del lago d’Iseo una destinazione su scala nazionale, tra una sorta di frenesia che sembrò travolgere un popolo desideroso, almeno una volta nella vita, di “camminare sulle acque” sfruttando dei grossi materassini in polietilene di colore rigorosamente giallo. Mentre la creazione ciclabile del gardesano, sostanzialmente, sarebbe tutto il contrario di quell’effimera evanescenza, fine a se stessa al di fuori di uno specifico messaggio, che a dire il vero è sfuggito alla stragrande maggioranza di coloro che vi presero parte. Qui stiamo parlando, piuttosto, di una sincera dichiarazione d’apprezzamento nei confronti di un mezzo di trasporto, particolarmente intrinseco in queste regioni, la bicicletta che può spostarsi confortevolmente senza un motore, a patto che le strade siano sicure, prive di buche e per lo più pianeggianti. Ecco qualcosa che dovremmo sperimentare tutti, al di fuori del sogno utopistico di un domani ideale.
Eppure non c’è nulla, in tutto questo, che esuli dalla sfera del possibile o il temporaneo, essendo il passaggio frutto dell’opera di un studio ingegneristico, Fontana & Lotti Lorenzi, già famoso per l’assistenza data al patrimonio turistico e architettonico di queste terre, in grado di elaborare per l’occasione un sistema al tempo stesso ingegnoso e funzionale, capace di costituire il gioiello sulla corona di un’intero tragitto lungo 140 Km che potrebbe anche includere, secondo alcune interpretazioni, un’ulteriore ciclabile sospesa di pari lunghezza sulla riva orientale del Garda. Chissà quando potremo assistere a un tale spettacolo fuori dal mondo…