Visioni di un possibile futuro passato, narrativamente indicativo delle circostanze del mondo moderno. E l’insinuante, ponderosa presa di coscienza che in fin dei conti, non sia davvero possibile biasimarlo. Persino il capannello di persone assiepato attorno al green della 17° buca del TPC Louisiana, vicino la città di New Orleans, guardò la grossa bestia preistorica e sembrò per qualche attimo condividere il suo punto di vista. Di un carnivoro spietato che aveva dovuto rassegnarsi, nel corso degli ultimi 30-50 anni, a vedere il proprio modo capovolto e trasformato letteralmente in qualcosa di completamente diverso. L’ancestrale acquitrino drenato, le ultime pozze d’acqua circondate da erba corta e regolare. Strana sabbia posta dentro apposite buchette mentre gli alberi, uno dopo l’latro, venivano abbattuti e un certo numero di piccole bandiere sollevate in punti strategici del tutto privi di significato per qualsiasi alligatore. Poco prima che iniziasse, d’un tratto, la pioggia… Non continua ma inesorabile, di piccole uova sferoidali e zigrinate, fatte decollare dai rumorosi bipedi mediante l’uso di randelli di metallo che impugnavano a due mani. Così Tripod, questo il nome descrittivo attribuitogli dagli abituali frequentatori del suo vicinato, uscì fuori dai cespugli con il tipico passo dondolante, dovuto alla mancanza della zampa anteriore destra (che si dice abbia perso in un confronto con un altro maschio adulto per il territorio) sfilando con la solita indolenza innanzi all’apparente consorzio di disturbatori attenti e vocianti. Fino all’area dove, in apparenza, era stata preparata una sorta di piccola cerimonia, per l’attribuzione della coppa dello Zurich Classic, un torneo di questo strano gioco che gli umani chiamano “golf”. Ma fu allora che improvvisamente, s’immobilizzò: di fronte al proprio sguardo incredulo, era comparsa l’inconfondibile sagoma di un rivale! Nero come la notte, le sue scaglie lucide ed i denti in grado di riflettere la luce, il coccodrillo lo guardava con un chiaro intento di minaccia. Non senza una certa sorpresa, Tripod notò inoltre che l’animale nemico sembrava soffrire della sua stessa menomazione. Ottimo. Puntellando bene a terra la forte coda per bilanciarsi, il signore incontrastato del country club spalancò così la bocca ed iniziò il crudele soffio che preannunciava una carica assassina. Gli sciocchi spettatori non sapevano cosa stava per accadere. Ben presto avrebbero scoperto, volenti o nolenti, il vero significato del concetto di “furia” della natura.
Difficilmente una scultura dell’artista americano ed ex-giocatore di baseball Blake McFarland potrebbe ingannare lo sguardo di un altro essere umano. Ed è palese che ciò esula del tutto dallo spettro dei suoi obiettivi, vista la maniera in cui il materiale e metodologie impiegate siano poste al centro del progetto e come principale aspetto in grado di connotarne l’effettiva realizzazione finale. Quasi sempre un animale, raffigurato nella sua forma più perfetta ed iconica, mediante l’uso di una considerevole perizia figurativa ed attenzione ai dettagli. Assieme alla capacità di saper scegliere oculatamente le proprie battaglie, collaborando con il mondo dello sport e del marketing aziendale per dare maggiore risonanza ad un approccio che potrebbe avere conseguenze positive per l’impronta carbonifera complessiva dell’età moderna. Dopo tutto ogni “piccola” cosa può aiutare, compreso l’intento creativo di qualcuno che vedendo un cumulo di spazzatura pensa: “Ah, però! Che spreco.” Lasciando che le proprie mani seguano l’idea nel tuorlo dentro l’uovo del pensiero. Per dar vita, come niente fosse, a qualcosa di nuovo…
Stati Uniti
Storie messicane dal villaggio che scoprì di essere appartenuto agli Stati Uniti
Nella progressione storica dei gironi e dei giorni, esistono soltanto due possibilità: soffrono le persone, oppure soffrono le nazioni. Entità che sorgono dai vortici dell’ambizione collettiva, per poi espandersi e guardare verso l’indomani con l’intento di trovare un punto d’equilibrio, la condizione statica oltre cui nessuno possa dire: “Fin dove si spinge lo sguardo, tutto quello che vedi è mio!” Un percorso lungo secoli e adesso guarda il risultato: dozzine di famiglie, certe volte ancora intere (che fortuna!) che ansimando immergono le loro stanche membra dentro le acque di quel fiume. Nel disperato tentativo di guadarlo. Nella speranza di potersi ricavare uno spazio là, dove lo spazio è stato de-finito da tempo. Eppur esistono dei luoghi, ove la civilizzazione “propriamente” detta è un mero miraggio distante. Distese brulle o polverose e innumerevoli simili aggettivi deplorevoli, ove il confine tra i paesi non è netto né propriamente definito. Posti dove l’unica maniera disponibile per l’uomo, al fine di tracciare quella linea in modo chiaro e incontrovertibile, è tentare di riuscirci tramite l’impiego dei fiumi. Assurdo, se ci pensi. Poiché cosa muta e scorre, varia il suo tragitto, più dell’acqua nel percorrere la strada che la porta fino ai limiti del mare? Così come faceva, ed senz’altro solito ancor fare il Rio Grande (alias Río Bravo del Norte) con i suoi 3.051 Km sufficienti a renderlo il quarto corso d’acqua più lungo dell’America settentrionale. Nonché suddivisione ragionevolmente in comune, selezionata nel 1840 al termine della Intervención estadounidense en México, un conflitto durato quasi due anni come conseguenza dell’annessione di territori allo stato del Texas da quello confinante di Tamaulipas, dopo la ratifica forzata da parte del presidente del Messico di una serie di trattati ineguali. Realtà di fronte cui i sapienti cartografi statunitensi, ben intuendo la problematica sopra descritta, decretarono che la demarcazione tra i due paesi fosse calcolata in base al punto mediano del suddetto percorso idrologico, fermo restando che qualsiasi deviazione antropogenica in tal senso sarebbe stata ignorata e severamente redarguita dalle autorità competenti. Così negli anni a venire, all’interno delle “dita” formate dai meandri del fiume, nacquero comunità di frontiera, nessuna delle quali più notevole attraverso le sue alterne peripezie ed aneddoti di quella denominata per l’appunto come esso stesso: Rio Grande. Che dal 1845 occupò il tratto di Horcón, uno spazio di 1,67 chilometri quadrati situato dalla parte degli Stati Uniti, ad apparente ed ulteriore sempiterna memoria. Finché qualcuno, alla ricerca di potenziali vantaggi economici, non fece quello che era stato espressamente ed originariamente vietato…
La rivoluzione diligente del mostro meccanico che raccoglie il cotone
La profonda comprensione del progresso tecnologico implica fiducia nel concetto, implicitamente non scontato, che il sogno di una singola persona possa cambiare il mondo. Scenari onirici come quello vissuto poco dopo l’anno 1930 da John Rust, meccanico del Texas e collega del fratello laureato in ingegneria, che assieme a lui si era lanciato, con significativa manifestazione di serietà e competenza, in una delle più sentite e significative ricerche di progresso della sua Era: un metodo che funzionasse a scanso di possibili ritardi o gradi di complicazione ulteriore, per semplificare al massimo la raccolta del cottone. Fibra tessile dai grandi meriti economici, motore di profonde e spesso dolorose riorganizzazioni sociali. Come quando il presidente Lincoln, veicolando e interpretando una necessità che apparteneva a molti, fece il gesto necessario d’abolire il diritto a schiavizzare un altro essere umano. Il che avrebbe portato a uno sconvolgimento dei processi funzionali collegati ad un’industria che, nel bene o nel male, aveva condizionato l’economia di un’intera nazione. Sia perciò chiaro come quel risveglio, in una notte carica d’ispirazione, sia un momento registrato nelle cronache ufficiali e più volte raccontato da questa figura d’importanza storica piuttosto rilevante. In cui egli sollevando il dito della mano destra, si ricordò di come le sue mani diventassero appiccicose sui campi della sua famiglia, quando da bambino si bagnava con la rugiada al principio del giorno di raccolta. Da qui ad immaginare un poderoso ‘gin, o motore, entro cui dozzine di copie fedeli e scivolose di quell’arto roteavano rapidamente, risucchiando in questo modo la preziosa materia al centro dell’annosa questione. Sarebbe stata la nascita, di lì a poco, del cotton picker o “raccoglitore” di cotone, l’oggetto teorizzato per la prima volta nel 1890 da Rembert e Jebediah Prescott di Memphis, Tennessee che pur avendone potuto conseguire il brevetto, non si erano messi mai davvero a costruire alcunché di concreto. Questo perché le vie che erano state tentate fino a quel momento risultavano, fondamentalmente, tutte in qualche modo fallimentari, dai sistemi avvolgenti inclini ad intasarsi dopo pochi passaggi, alle avveniristiche macchine pneumatiche o basate sull’elettricità statiche, tutte egualmente inefficienti al fine di scorporare ed aspirare le fibre dalla capsula della pianta. Così che tutti erano convinti, in maniera ragionevolmente esplicita, che il cotone sarebbe stato raccolto unicamente a mano ancora per moltissimi anni. Una presunzione destinata ad invertirsi, in maniera piuttosto drastica ed evidente, con la dimostrazione pubblica da parte dei fratelli Rust del loro prototipo nel 1936 presso la Delta Experiment Station di Leland, Mississippi. Di un apparato che una volta collegato ad un trattore e spinto (piuttosto che tirato) lungo gli ordinati filari delle piante, avrebbe potuto svolgere l’opera di 50-100 lavoranti umani riducendo la forza lavoro necessaria del 75%. Abbastanza da suscitare un senso di terrore latente niente affatto trascurabile, così come quello sperimentato più di un secolo prima per l’invenzione di Eli Whitney, capace di separare le preziose fibre dagli inutili semi all’interno di sferraglianti opifici, portando alla graduale vaporizzazione di centinaia di migliaia, se non milioni di figure professionali. Ma la realtà è che la filiera, da quel fatidico decreto d’emancipazione emesso durante la guerra civile nel 1863, non si era mai davvero adattato all’onda del cambiamento, causando l’effettiva proliferazione di una pletora di fattorie distinte, economicamente poco produttive e inadeguate al fabbisogno vigente. Finché il dito umido di un singolo visionario non si alzò, improvvisamente, a percepire la direzione del vento…
Gli aspetti meno trasparenti nel consumo sistematico del frutto della palma di acai
Visivamente simile ad una sorta di mirtillo dalle dimensioni quattro volte superiori, quindi pari a 2 cm di diametro, l’acai è una drupa di colore scuro dal sapore aspro ed earthy (“terroso”) che è stata gradualmente trasformata da un sapiente marketing, nel corso degli ultimi trent’anni, in una sorta di super-cibo dei miracoli capace di curare una pluralità di afflizioni, contribuendo nel contempo alla salute ed il mantenimento di un fisico esteticamente perfetto. Per un’analogia soltanto vagamente giustificata, mediante l’inerente trasferimento al contesto contemporaneo di una costellazione di antiche credenze dell’Amazzonia, particolarmente attribuite alle popolazioni fluviali dei Ribeirinhos, che erano soliti consumarne ampie quantità con fini sia gastronomici che medicinali. Tanto da esser giunti, nel loro sistema mitologico tramandato per via orale, ad attribuirne la provenienza alle particolari circostanze di una carestia pregressa, durante cui un antico capo aveva dolorosamente decretato che i nuovi nati dovessero essere lasciati morire per l’intero anno a venire, affinché la tribù potesse riuscire a sopravvivere alla crisi. Norma applicata, spietatamente, al nipote messo al mondo dalla sua stessa figlia che dopo averlo seppellito, vide spuntare nel giro di pochi giorni dalla terra stessa un nuovo albero svettante, sotto cui decise di lasciarsi morire. Ma quell’albero (chi l’avrebbe detto?) cominciò di lì a poco a dare numerosi frutti nutrienti, che permisero alla gente del villaggio di sopravvivere fino al ritorno dell’auspicabile sostenibilità ambientale. Il nome della sfortunata donna: Iaca, ovvero acai al contrario. Non è certamente un caso. Ancorché l’etimologia effettivamente studiata del termine lo veda provenire dalla lingua portoghese , come adattamento della parola in lingua tupi ĩwasa’i, letteralmente traducibile come “frutto che piange acqua” in riferimento ai suoi notevoli presupposti d’idratazione. In aggiunta ai ricchi e più recentemente scoperti ingredienti attivi di numerosi flavonoidi ed antiossidanti, almeno in linea di principio associati alle presunte qualità benefiche di questa pianta. E ciò sebbene, resta fondamentale specificarlo, nessuno studio scientifico in materia le abbia mai davvero confermate, lasciando significativo spazio al cosiddetto passaparola online, molto spesso veicolato tramite l’opera degli stessi venditori o trattazioni tutt’altro che oggettive delle rilevanti circostanze. Da dove verrebbe, dunque, l’attuale successo internazionale, soprattutto concentrato negli Stati Uniti, che ha portato all’elaborazione di numerosi sistemi per l’esportazione di un simile frutto, tutt’altro che durevole e facile da conservare? Tutto ha inizio, o almeno questo è ciò che si dice, con il boom delle palestre di arti marziali miste all’inizio degli anni ’90, cui fece da apripista la celebre famiglia Gracie, considerata l’origine della moderna disciplina dell’MMA. Nelle cui gremite istituzioni, veniva insegnata l’importanza del mantenimento di una dieta sana, di cui una delle colonne portanti era proprio il frutto dell’Euterpe oleracea, ben presto contestualizzata in un crescente numero di coltivazioni intensive, non sempre etiche nei confronti dell’ambiente e rispettose dei confini della foresta. Un altro inaspettato problema, per così dire, dell’attuale condizione della Terra e tutti coloro che devono condividerne le limitate risorse…