Razzo nel cielo con incidente imprevisto a SoCal

“Caro, guarda la strada, guarda la strada. Guarda la stradaa ano ba ‘yan!” Era rimasta la sua abitudine, nei momenti più concitati, passare di nuovo al tagalog, la lingua dei loro genitori. Nonostante i lunghi anni trascorsi negli Stati Uniti, assieme al marito e i loro figli educati prevalentemente in inglese. Ma il senso latente di terrore, si sa, non conosce confini. “Sinabi mo! Este… La COSA si sta avvicinando…” La cosa, guarda caso, era una Toyota Corolla il cui autista tutto faceva, tranne prestare attenzione. E fu allora che avvenne il tamponamento.  Che la dashcam, telecamera di bordo per automobili, fosse la fonte di 999 video dagli improbabili presupposti, oramai Internet ce l’aveva insegnato da tempo. Disastri mancati, ubriachi e folli al volante, carri armati che attraversano la carreggiata in Russia e chi più ne ha… Particolarmente da quelle parti, del paese più vasto del mondo, dove sono ormai anni che la frode assicurativa è talmente diffusa, da aver convinto il cittadino medio a registrare ogni singolo evento che gli si pari innanzi mentre percorre la striscia d’asfalto urbana. E così anche negli Stati Uniti, per ragioni diverse, particolarmente lungo la Costa Ovest, dove notoriamente “sorpassare a sinistra” è considerato un consiglio e tutto appare lecito, tranne mancare di rispetto ai limiti di velocità. Ma la legge dell’abitudine, si sa, appiattisce le aspettative. Così che non sembrava esserci più niente in grado di suscitare in noi un qualsivoglia grado palpabile di stupore, proprio quando, incredibilmente, siamo arrivati ad un nuovo livello. Avevate mai visto dal vero un UFO? Oggetto Volante non Identificato, concetto il quale, contrariamente all’opinione comune, non deve necessariamente indicare un alieno. Bensì anche un evento, dall’origine tutt’altro che incerta, che improvvisamente si palesa nel cielo, costringendo tutti i presenti a farsene testimoni, col mento orientato verso l’alto ad almeno 45°. Casi come quello verificatosi lo scorso 22 dicembre a partire dalle 17:27, tutto attorno alla base militare di Vanderbilt nella contea di Santa Barbara (California del Sud) quando decine di migliaia di persone hanno visto formarsi al di sopra delle loro teste una figura spettrale dalle dimensioni spropositate, simile nella forma a una medusa dei mari del Pacifico. Che ha assunto progressivamente una forma più allungata, mentre procedeva con moto obliquo rispetto alla linea dell’orizzonte, lasciandosi dietro una scia bianca di luminescente condensazione, che ad un tratto si è separata dal corpo centrale, trasformandosi in suggestiva spirale. Un fenomeno che, inevitabilmente, si è propagato sulle onde di Internet neanche si trattasse di un terremoto, mentre le ipotesi più assurde si susseguivano da un hub social all’altro: “Deve trattarsi di un disco volante… No, è certamente un missile lanciato contro la patria dell’apple pie. L’unica spiegazione, ascoltate a me: un vortice interdimensionale verso il pianeta Xen.” Finché per la fortuna di tutti, una volta che i fatti si erano già compiuti, a qualcuno non venne in mente di accendere la cara vecchia televisione, prendendo atto di cosa realmente si trattasse: il razzo Falcon 9 di SpaceX, lanciato su mandato dell’imprenditore di origini sudafricane del settore auto elettriche Elon Musk, allo scopo di portare in orbita l’ennesimo carico di satelliti per le telecomunicazioni, del progetto Iridium, pensati per offrire la banda larga ad ogni più remoto recesso del nostro pianeta, poli inclusi.
Era proprio in quel momento, per un puro caso del destino, che la famiglia filippina di Mark Sales si trovava casualmente su una delle molte strade che conducono alla città di Los Angeles, quando il dramma ha iniziato a dipanarsi al di sopra della troposfera. Uno spettacolo di luci assolutamente straordinario, definito in gergo l’effetto twilight (nessun collegamento alla saga dei vampiri innamorati) ovvero crepuscolo, poiché tende a verificarsi esclusivamente in quel momento della giornata, con cielo perfettamente limpido e privo di nubi. Proprio per questo, risulta essere piuttosto raro: consiste, essenzialmente, in un lancio del tutto riuscito che si ritrova ad attraversare gli strati superiori dell’atmosfera proprio quando il sole, recentemente tramontato, si trova in posizione tale da raggiungere coi suoi raggi la regione del lancio avvenuto solamente ad altissima quota. In modo che le molte particelle di carburante dei motori, prevalentemente d’acqua ed idrogeno, espulse ad alta quota ed immediatamente congelatasi alle bassissime temperature in quota, si ritrovino a rifletterne la luce, come in una versione indiretta dell’ampio catalogo di prodigi celesti, che includono arcobaleno, parelio, falsa alba e via così a seguire. Ma forse la spiegazione migliore ce l’ha data, con il suo solito stile, proprio il capitalista patròn di Tesla e di tutto questo, organzzatore dell’intero happening pre-natalizio, sul suo profilo Twitter: “Nuclear alien UFO from North Korea” È proprio vero che i miliardari hanno un fantastico senso dell’umorismo…

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La terribile sfida dei 100 dossi in autostrada

Tutti ricordiamo l’esistenza di un’Età dell’Oro, in cui le auto circolavano felicemente per le strade senza alcuna traccia di catene imposte alla normale viabilità urbana. Poi vennero gli irresponsabili, con la loro abitudine a percorrere determinate strade a una velocità eccessiva. Che cosa avrebbe mai potuto fare, a quel punto, la società civile? Furono installati semafori addizionali, posti vigili a controllare gli incroci. Ma nessuno può essere sempre attento, 24 ore su 24, per evitare infrazioni della legge da parte di chicchessia. In una notte priva di stelle, dunque, tra le fronde di un bosco antico, i progettisti stradali e i capi ingegneri si riunirono attorno ad una stele di pietra, con le mani protese in segno d’inimmaginabile preghiera. Intonando un’invocazione agli Dei del sottosuolo, ricevettero un’ispirazione diabolica, ma funzionale. “Steve, Steve, ascoltami. Ho avuto un’idea…” Disse il più anziano di loro, le rughe sul volto simili a una cartina stradale, il cappello a punta da stregone di un giallo paglierino un po’ come il casco da cantiere che avrebbe dovuto ricordare: “…E se noi mettessimo un qualcosa… D’irregolare, laddove l’automobilista si aspetta un manto stradale del tutto privo della benché minima asperità? Un DOSSO, per così dire…” Steve apparve pensieroso, quindi iniziò lentamente ad annuire. Un fulmine squarciò in quel momento il cielo notturno, dividendo le tenebre di un mondo addormentato. Ma il vero incubo doveva ancora incominciare….
Situazione allarmante a 130 Km/h: siete in marcia verso la vostra destinazione elettiva, come la spiaggia dove cogliere gli ultimi sprazzi d’estate, piuttosto che la convention internazionale degli appassionati della beneamata serie di Alf – Un alieno in famiglia. Il veicolo a quattro ruote di famiglia procede ad un ritmo sostenuto, mentre le sottili vibrazioni del volante trasmettono ordinatamente, alla parte più primitiva del vostro cervello da rettile, la benché minima asperità del terreno. Sotto ogni punto di vista, siete diventati l’automobile, e la strada appartiene a voi. Quando al volgere di un singolo secondo, lungo la linea dell’orizzonte, scorgete sulla striscia d’asfalto qualcosa d’inaspettato. Come un’escrescenza, la cresta di un dinosauro, il dorso del serpente sotterraneo che striscia sotto l’incoscienza dell’odierna collettività. “Se non fosse impossibile, direi che sembra…” Iniziate a sussurrare basiti. Ma il tempo raggiunge rapido l’epoca del suo esaurimento. Mentre il semiasse anteriore arriva in corrispondenza dell’inaspettato oggetto, il parafango corrispondente inizia immediatamente ad accartocciarsi. Il contraccolpo vi scaraventa contro il volante, mentre l’airbag si apre secondo il preciso copione subito seguìto da quelli laterali, e la poppa della vostra nave in tempesta inizia minacciosamente a sollevarsi. Quindi prendete il volo. Mentre il veicolo si dispone a 45 gradi, con il muso che punta verso il terreno ad un’altezza di circa due metri e mezzo, dal parabrezza è possibile scorgere l’orribile verità: non una, bensì altre 99 di questi pericolosi DOSSI, vi aspettano a seguito di un delicato, già sufficientemente pericoloso atterraggio. È esattamente in quel momento che suona l’orologio del forno. Il pranzo è pronto. Con un sospiro, premete il tasto di pausa e spegnete il monitor. Ancora una volta, la marcia inesorabile del tempo ha avuto la meglio sulle esigenze della Simulazione.
E. Che. Simulazione! Stiamo parlando, per inciso, di un software ludico che ha cinque anni di storia, così efficientemente messo alla prova e sfruttato dal canale specializzato di YouTube DestructionNation, che ha imparato a suonarlo letteralmente come fosse un violino di Stradivari (per milioni, e milioni di vi$ualizzazioni). Il suo nome è BeamNG.drive e proviene, come spesso è già capitato nell’ultima decade, non dal mondo dei grandi produttori internazionali d’intrattenimento digitale, bensì dall’universo degli sviluppatori indie, piccoli gruppi d’appassionati tipicamente riuniti nel garage di casa, in grado di mettere in codice la loro personale visione per il futuro dell’informatica di consumo. Ma piuttosto che farlo negli ambiti sempre più redditizi dei social networks, delle app per cellulari, del marketing online, il programmatore tedesco noto come Pricorde & co. fecero una semplice osservazione sulla realtà: di tutte le situazioni rappresentate nei videogiochi ad alto budget, ce n’era una che presentava qualità estetiche decisamente deludenti: l’incidente automobilistico. Rimboccando quindi le maniche delle loro camice, iniziarono a chiedersi che cosa potessero fare per migliorare sensibilmente le cose…

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Una piramide modernista nella capitale del Venezuela

Incredibile, svettante, spropositata. Grandiosa è la tomba del faraone, poiché essa commemora le spoglie terrene del dio vivente, il cui spirito non svanisce come quello dei comuni esseri umani, ma si perpetra e rafforza, attraverso le generazioni. Eppure, che cosa è successo all’ultima di tali costruzioni, impossibile da completare prima che il regime finisse, e in assenza di un potere centrale, soprasseduta da più semplici priorità mondane? Ciò che è stato costruito, anche se soltanto a metà, non può essere de-costruito, ma soltanto demolito, un’operazione a sua volta complessa, costosa, talvolta sconveniente. Le vestigia restano mentre il futuro avanza, le corrobora e diventa l’oggi. Per poi dissolversi nel vento del passato. Monumenti di un ottimismo ormai perduto; luoghi come El Helicoide, l’Elica d’asfalto e cemento, il più riconoscibile edificio di Caracas in Venezuela, ciononostante tutt’oggi, per lo più sconosciuto dall’estero. Le ragioni sono molteplici, ma la prima resta quella più rilevante: brutti, bruttissimi ricordi. E un ancor più triste utilizzo nei nostri giorni. E dire che tutto era iniziato, nel 1956, con i propositi migliori: costruire un nuovo tipo di centro commerciale. Qualcosa che il mondo non aveva mai visto e che ben presto, sarebbe stato l’invidia dell’intero continente americano. Un luogo di sogni e opulenza, con albergo, sala conferenze, auditorium, luogo d’esposizione ed oltre 340 negozi, sormontato da una cupola geodetica ispirata alle opere dell’inventore Buckminster Fuller, mentre l’estetica delle mura era infusa di un gusto riconducibile a Frank Lloyd Wright. Grazie all’opera dell’architetto venezuelano Jorge Romero Gutiérrez, che in questo modo pensava di scrivere una nuova pagina della storia del movimento Modernista. E ci arrivò, oh! Così vicino. Se non che, al momento di ultimare l’ultima colata di cemento e passare all’allaccio dei servizi di acqua e luce, nel 1958, il faraone venne cacciato via. E con esso, chiunque desiderasse portare a compimento le opere che lui stesso aveva sognato.
Il supremo vertice del potere costituito nelle mani di una singola persona, come la sommità di una struttura a gradoni svettante verso il cielo, percorsa da un numero di automobili che non avrebbe mai avuto fine. È davvero questa la natura della società umana? Il popolo che sostiene i funzionari, e sopra di essi la polizia segreta. Che a sua volta, sorregge Costui. Nella fattispecie del momento storico preso in esame, Marcos Pérez Jiménez, generale dell’Esercito del Venezuela e Ministro della Difesa, in grado di salire sul Trono di Spade al termine di un colpo di stato sul finire della seconda guerra mondiale. E da allora, governare con pugno affilato, scacciando gli oppositori, finché nel ’58, dallo stesso popolo disagiato dei barrios, assistito soltanto in parte dai militari, iniziò l’ennesima Rivoluzione. Il problema di El Helicoide non era tanto il fatto di trarre le sue risorse dal potere costituito: si trattava anzi, tranne che per minime sovvenzioni, di un’impresa privata, finanziata in anticipo con l’acquisto degli spazi espositivi da parte dei futuri negozianti ed espositori. Ma è indubbio che ci furono circostanze sconvenienti. In primo luogo, lo stile comunicativo vagamente patriottico del materiale di marketing prodotto a sostegno del progetto, che imitava, e per certi versi si appoggiava, alla propaganda di regime. Al punto che, nell’immaginario comune, l’oggetto spropositato che aveva sostituito la familiare vista della Roca Tarpeya, rupe pietrosa nel centro di Caracas, rimaneva indissolubilmente associato al despota ormai spedito in esilio in Brasile. Lo stesso architetto Gutiérrez, nel frattempo, avrebbe iniziato a chiamare il progetto come affetto da una maldición, forse dovuto al luogo stesso della sua costruzione, il cui nome riprendeva direttamente quello della rupe Tarpea di Roma, da cui al tempo della Repubblica venivano gettati i condannati a morte che si rifiutavano di prestare testimonianza. Ma forse è sbagliato parlare di edificio costruito SOPRA la rupe. Poiché essa faceva in effetti parte della rupe STESSA.

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La marcia che separa i gamberi dai veri camionisti

C’è quel momento, la particolare sfida, l’ostacolo che sembra delinearsi innanzi a un ipotetico passaggio di carriera: quel momento in cui “Tutto sembrava andare bene” (tempo imperfetto). E invece? Per chi guida il camion sembrerebbe sopraggiungere, con pesantezza evidente, non appena si raggiunge per le prime volte la destinazione prefissata. Quando tutto quello che si è appreso alla scuola di guida si trasforma in una fine nebbiolina, mentre restano reali, e assai tangibili, soltanto le tue ruote, il rimorchio, il volante, lo spazio designato. Puro terrore. Eppure chi ha mai visto un cliente, alla ricezione della propria merce, che se la prende con colui che effettua le consegne, se non riesce a parcheggiare nell’angusto dock entro un paio di minuti… Pensate pure che ci sono guidatori di ogni livello di esperienza e abilità, tanto che costui, probabilmente, ne avrà già viste di tutti i colori. No, non tanto lì. Se desiderate conoscere il vero senso di disperazione contestuale, pensate invece allo scenario prototipico dell’area di sosta/rifocillamento autostradale, dotata di uno spazio designato per la sosta dei veicoli pesanti. L’autogrill nostrano, o il truck stop, come dicono gli americani. Ora, le giornate lavorative tendono ad avere una durata equivalente nei settori più diversi. E strano a dirsi, questo vale pure per i camion, professionisti solitari per eccellenza. Ciò in quanto, affinché la rapida motrice possa trasformarsi nella casa via da casa, occorrerà recarsi in uno di quei luoghi, che non sono così tanti da riuscire a segmentare totalmente l’effetto “ora di punta” nei loro vastissimi parcheggi. Ma il tutto sovradimensionato ad oltre 13 metri di lunghezza unitaria, e 9-15 tonnellate di peso! Mentre dozzine di colleghi impazienti tentano di fare lo stesso, o ancora peggio, sono già riusciti nell’impresa, andando ad occupare del prezioso spazio di manovra. Non è poi così frequente che il camionista abbia bisogno di bloccare il traffico durante le sue variegate peripezie stradali. Ma nel truck stop, in caso di abilità parzialmente inadeguata, potrebbe succedere ogni singola volta.
Come fare, dunque, per raggiungere la meta? Si dice che il metodo più certo per apprendere qualcosa di nuovo sia osservare un maestro all’opera, ma ciò funziona solamente in parte, quando la più alta percentuale del livello di sfida, nonché il principale ostacolo da superare, consiste proprio nell’imparare a visualizzare quello che si trova fuori dall’angolo dei propri grandi finestrini. L’americano Bo Shifter (to shift=cambiare marcia; che dite, sarà uno pseudonimo?) consiglia dunque un approccio tecnologico piuttosto innovativo. Lanciare in aria un drone ad alte prestazioni e stabilità, per riprendere l’azione dalla posizione di vantaggio più intrigante: il cielo. Ciò che ci si ritrova quindi ad osservare è la precisione geometrica degna di un compasso e goniometro, del parcheggiatore consumato alle prese con la propria dinamica impresa pressoché quotidiana. È sinceramente intrigante, come scena, nonostante a un camionista possa forse apparire mondana, per l’apparente nonchalance con cui il lungo rimorchio viene controllato, al fine di congiungersi con uno spazio di parcheggio largo forse appena mezzo metro più di lui. E questo senza la necessità di effettuare, neppure una singola volta, la manovra chiamata in gergo G.O.A.L. (Get out and look) consistente nell’aprire lo sportello, scendere e prendere le misure esatte dello spazio disponibile per portare a termine l’impresa. Un qualcosa che t’insegnano a scuola di guida con l’esplicita finalità d’inculcarti la presenza di spirito necessaria a fermarsi prima di causare l’irreparabile, e se necessario, lasciare stare quel parcheggio e cercarne altrove. Un qualcosa che può pur sempre succedere, per almeno i primi 50-100 exploit nel nuovo ambito operativo, prima che si acquisisca un corpus di esperienze valido a stemperare gli istintivi eccessi. Un 70-80% di competenza una volta acquisito il quale, resterà un ultimo miglio da percorrere, il quale potrebbe anche richiedere il corso della propria intera vita. Nessuno parcheggia perfettamente, in tutte le situazoni, e questo è altrettanto vero nel caso dei camionisti, che ogni giorno devono combattere con l’enormità dei propri mezzi trasportatori.
Nel caso dello scenario qui mostrato, che coinvolge quella configurazione onnipresente dell’autoarticolato a 10 ruote (tre coppie alla motrice, due riposizionabili sotto il rimorchio) il tutto gira, in più di un senso, attorno al meccanismo di snodo della ralla, talvolta detto sistema della quinta ruota, il punto in cui i due elementi che costituiscono il veicolo s’incontrano, senza mai scegliere di diventare un tutt’uno (nel qual caso, si sarebbe parlato invece di un autocarro). Il che significa, tradotto in termini di uso comune, che ogni qual volta si necessita di fare marcia indietro, non soltanto si dovrà tenere conto del moto non-intuitivo del proprio cabinato principale, ma anche a quello letteralmente “inverso dell’inverso” che coinvolgerà ben presto il carico, costringendo letteralmente ad inserire una forma quadrata in un buco triangolare. Ci avete mai provato? Quando spingi e spingi, ma la sfida per calcolo il Q.I. infantile non riesce a raggiungere il suo culmine, e mentre il nervosismo aumenta si finisce per urtare con le proprie manovre un mezzo parcheggiato, un lampione, magari addirittura il povero collega di passaggio a piedi. “Povero” se non aveva già fatto la sua scelta di unirsi alla folla che protesta contro la lentezza delle reclute, mentre voi sudate copiosamente alla ricerca di un aiuto che non sempre, è chiaro, vi riuscirà di avere a disposizione.

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