Non con un grande botto, ma l’impercettibile, crepitante suono della crescita vegetativa. L’insistente estendersi dell’ormogonio, nell’intruglio semi-denso dei processi entropici del grande brodo del nostro futuro. Ovvero il tempo in cui l’uomo e gli animali non saranno altro che una nota a margine, rispetto al reiterato ed omni-pervasivo impero dei procarioti. E dire che le cose andavano così bene. Dal momento in cui furono inventati i fertilizzanti moderni, lasciando addietro i lunghi anni di fame e carestia vissuti dal travagliato popolo verde… Almeno finché simili sostanze, assieme ad altre anche peggiori, non giunsero a contaminare il più esteso lago di tutte quante le isole inglesi, oggi corrispondente proprio a quel confine lungamente discusso che divide il Vecchio Regno, dall’Irlanda del Nord. Tanto grande che secondo la leggenda fu l’opera del gigante Fionn mac Cumhaill, che aveva lanciato una zolla di terra all’indirizzo di un rivale scozzese. Quella stessa zolla, oggi, ha nome di isola di Man. E c’è da dire che 392 Km quadrati sono tanti per qualsiasi specchio d’acqua, ma ancor più rilevanti quando esso è l’effettiva fonte di circa il 90% dell’acqua potabile di un’intera popolazione nazionale. Fattore tanto maggiormente preoccupante, quando si prende nota delle attuali condizioni vigenti nei periferici recessi di questo immenso ambiente lacustre. Giusto l’altro giorno sulle rive, non lontano da uno stabilimento balneare recentemente abbandonato, un gruppo di attivisti ha messo in scena il funerale del Lough Neagh, con tanto di bara di colore nero e musica nostalgica tradizionale, al cospetto di una vasta distesa smeraldina da fare l’invida di un campo da polo. Ma non era di sicuro erba, quella cosa, bensì la superficie stessa dell’oggetto di cotale commemorazione, l’acqua stessa ricoperta da uno strato spesso simile a uno slurry, frullato o fluido tutt’altro che newtoniano. Nel senso che immergendo l’estremità di un lungo bastone sull’intonsa brodaglia, esso sarebbe emerso con la punta ricoperta di uno spesso strato di… Qualcosa. O qualcuno. Il cui nome è Cyanobacteriota o Cyanophyta, ma la più prosaica descrizione della gente, in giro per il vasto mondo, è giunta a definire con l’appellativo di alga verde. La ragione non particolarmente ardua da comprendere, poiché essa vegeta con irruenza, trasformando ed alterando gli equilibri stessi della natura. Finché l’unica forma di vita ammessa, idealmente, sia essa stessa e nessun altro, grazie alla ricca componente di sostanze tossiche, capaci di uccidere o comunque far sentire male praticamente ogni appartenente al ben differenziato regno della vita animale.
Incluso, non abbiate dubbi in materia, l’uomo stesso con i suoi domestici beniamini (diversi cani sono morti negli ultimi tempi) come testimoniato dall’ampia quantità di cartelli pericolo che sono stati dislocati nel corso degli ultimi anni, anche in prossimità di spiagge che un tempo venivano considerate particolarmente amene. Prima di essere contaminate, nel giro di una singola ragione, dal germe dell’inferno senza possibilità di appello. Con la tonalità di un’indigesta minestra di piselli radioattivi che nessuno, accada quel che accada, dovrebbe mai trovarsi a fagocitare…
futuro
L’approdo sìculo della formica di fuoco: cosa implica l’avvistamento della Solenopsis in Europa
Dal motto di un Impero alla definizione scientifica d’un gruppo d’imenotteri, invictus è quel termine latino che assicura, nella sussistenza di qualsiasi fattore contestuale, che una cosa o un gruppo non possono essere sconfitti, neppure dal passaggio di quel vento entropico che siamo soliti chiamare “passaggio del tempo”. Così l’essenza del Senato e Popolo Romano, anche dopo la sua divisione ed il collasso che ne avrebbe avuto origine, non fu mai davvero superato, resistendo ai secoli come concetto sovranazionale, reso tangibile dalla monumentale quantità di resti materiali, eredità linguistiche, ancestrali discipline. Eppure non dovremmo tralasciare come, tra coloro che crearono tale aggettivo e il popolo d’insetti che lo ha ereditato, furono i secondi a oltrepassare indenni le generazioni. Comparendo ancora oggi presso il novero degli atlanti dell’ecologia vigente, più potenti e prolifiche che mai. La RIFA: Red Imported Fire Ant o Solenopsis invicta può dunque presentarsi come una delle specie del regno animale di maggior successo al mondo. Se tale traguardo è veramente degno di esser misurato dalla quantità di luoghi dominati dalla sua incrollabile ed irriducibile presenza. Resistente, adattabile, indefessa. Capace di raggiungere gli estremi recessi dei continenti trasportata dagli uomini del tutto inconsapevoli, dal vento, persino dalle correnti. Grazie alla sua capacità di unirsi collettivamente nella formazione di zattere del tutto inaffondabili, destinate a resistere per giorni se non settimane intere. Come la grande arca del profetico Noé, che tanti millenni fa giunse presso le pendici del monte al-Ǧūdī, ad est del Tigri. Mentre queste distanti e zampettanti eredi, guidate dall’istinto ed il bisogno di acquisire nuovi territori, avrebbero un giorno percepito di aver messo piede nella terra promessa di un diverso tipo di appartenenza. E da quel giorno avremmo avuto anche noi, le formiche di fuoco.
Lo studio pubblicato pochi giorni fa sulla rivista Current Biology, uno sforzo cooperativo dell’Istituto di Biologia Evoluzionistica di Barcellona e le Università di Parma e di Catania, è di quelli che tendono a venire interpretati dalla stampa e gli altri media con terminologia allarmante. Poiché non sottolinea un’incipiente progressione o lieve trend peggiorativo, bensì uno stato dei fatti che si è già concretizzato ormai da diversi anni, tra l’indifferenza o l’incapacità di farne chiara l’evidenza prima di questo illuminato momento. 88 nidi dalle dimensioni significative contati nel corso dell’inverno tra il 2022 e il 2023 sono effettivamente troppi, di gran lunga, perché sia possibile tornare indietro. Il che ci lascia due possibili sentieri a partire dal momento attuale: una dura e intransigente repressione, con pesticidi spesso in grado di arrecare danni significativi all’ambiente. Oppure venire a patti con l’ulteriore, problematica realtà dei giorni a venire…
La forma dell’idrogeno nei serbatoi del primo aereo che tenterà di usarlo razionalmente
Quando si considera il futuro di una società fondata almeno in parte sull’utilizzo di una risorsa prossima all’esaurimento, come sappiamo ormai da decadi essere i carburanti fossili, non è in modo particolare questo stesso aspetto a decretare il suo possibile collasso inerente. Molto prima che si renda necessario gestire le derive maggiormente problematiche di un mondo allo sbando, tuttavia, potremmo ritrovarci e fare i conti con la privazione di alcuni dei vantaggi tecnologici che siamo inclini a dare per scontato. Primo tra tutti: la capacità di decollare e avventurarci nel regno dei Cieli, destinato a ritornare esclusivo appannaggio di uccelli, insetti e ragni che cavalcano il vento. Poiché se l’aeroplano è il mezzo di trasporto più di ogni altro responsabile del tipo di emissioni che appesantiscono la troposfera terrestre, è anche vero che esso stesso ha la necessità di divorare la maggiore quantità di quelle sostanze, che derivano dai resti materiali della vegetazione del Cretaceo e del Pleistocene. Fino ad ora? Fate una domanda in merito alla dirigenza della compagnia aeronautica slovena fondata nel 2004 Pipistrel, o quella del suo partner tedesco nel progetto più importante della sua storia ventennale, il Deutsches Zentrum für Luft alias DLR e avrete l’occasione di vederli sghignazzare con sensibile soddisfazione, persino un certo grado di furbizia latente. Questo per la graduale concretizzazione nel corso degli ultimi 6 anni, e l’importante traguardo oltrepassato all’inizio di questa stessa settimana, di uno dei letterali santi Graal del volo pilotato umano. Sto parlando di un vero, funzionante velivolo alimentato principalmente (ma non esclusivamente) dall’energia dell’elemento più comune dell’Universo, quello stesso idrogeno che sarebbe l’assoluta soluzione di ogni nostro problema, se non fosse anche tragicamente dispendioso da accumulare, mettere da parte e trasportare a bordo in qualsivoglia mezzo di trasporto. Questo per le alte pressioni necessarie a intrappolarlo in forma gassosa, o la temperatura inferiore ai -235 gradi affinché la sua versione liquida non vada in ebollizione. Il che aveva fino ad oggi fatto preferire la prima delle due alternative per chiunque avesse l’intenzione di farlo staccare da terra, in forza del potenziale di rovina già elevato posseduto da ogni tipo di mezzo volante, laddove è giunta a palesarsi, qui ed ora, l’opportunità di dare luogo all’espressione dell’approccio contrapposto. Guadagnando, nel contempo, la capacità d’incrementare in teoria la portata massima dell’apparecchio da soli 750 a 1500 Km, superiori di oltre un terzo a quelli di un piccolo aereo da turismo come il Cessna 172. Un vantaggio alquanto notevole per il prototipo H2FLY, un adattamento ad-hoc del popolare aliante auto-alimentato Taurus della Pipistrel, nell’accezione con doppia fusoliera e quattro posti del G4, a sua volta costruita per la prima volta nel 2011 per partecipare alla Green Flight Challenge della Nasa e mettere alla prova nel contempo i sistemi di guida dell’allora futuribile aliante Panthera. Fino alla creazione di quello che potremmo definire, in più di un senso, come un vero e proprio Frankenplane….
Non è un fungo né un fagiolo scintillante, ma il museo dell’arte a Liyang
Le forme sono illogiche ma in alcun modo prive di un latente fascino, concreto e funzionale ad un progetto fin troppo chiaro: porre in alto sullo spiazzo un edificio che non sia una mera parte dell’impetuoso fiume dell’architettura. Ma una sua deriva periferica, perfettamente calibrato per il suo contesto dall’alto grado di assoluta particolarità. Dove? Nello spazio formale ed ordinato dello Yan Lake Park, aggiunta recente alla città presso il confine orientale di Liyang, nella colorata provincia del Jiangsu. In quel punto, estremamente significativo, in cui gli alti grattacieli del quartiere finanziario lasciano il posto e si fondono con l’arcaica struttura degli hutong ancora disposti in base ai piani del Mondo Antico. Un tempo ed organizzazione a cui gli stessi architetti taiwanesi dietro l’opera, C.R. Lin e Bentao Li di Taipei (studio CROX) si rifanno dichiaratamente con la citazione di un ispiratore d’eccellenza, niente meno che il saggio, funzionario, pittore, musicista e poeta Cai Yong, vissuto tra il 132 e il 192 d.C. assistendo tra le altre cose al declino della grande dinastia degli Han. Pur potendo coltivare le sue arti grazie a mente fredda e un superiore grado di concentrazione come quando, mandato in esilio per aver offeso il potere sproporzionato degli eunuchi a corte, udì per caso il suono di un pezzo di legno di paulonwia che ardeva nella stanza accanto. Per precipitarsi subito e tirarlo fuori ancora circondato dalle fiamme del camino, ma avendo già capito che poteva realizzarne qualcosa d’assolutamente inusitato. Ecco dunque, in linea di principio, l’effettiva metafora nascosta nella forma del nuovo museo di Liyang, inaugurato alla presenza del Partito nell’aprile del 2018, aprendo metaforicamente il passaggio ad una nuova epoca della partecipazione dei cittadini e visitatori esterni al filo d’Arianna dell’arte più simbolica ed elevata: esso rappresenterebbe, in modo non del tutto trasparente, lo strumento musicale del jiao wei qin (焦尾琴) ovvero letteralmente “pianoforte dalla coda bruciacchiata”, un tipo di cetra da tavolo di forma rettangolare a sette corde, il cui suono si diceva potesse rivaleggiare quello dei più esperti e rinomati musici del palazzo imperiale. Il che offre un singolare spunto di riflessione perché in effetti, l’edificio post-moderno in questione non assomiglia per niente a tale oggetto, richiamandosi se proprio deve allo strumento a fiato ancor più antico dello Sheng, organo a bocca dall’impostazione talvolta ellittica e stondata. Nonché la propensione, ancora una volta dichiarata nella press release pubblicitaria che accompagna le sue molte immagini, a “lasciar soffiare il vento” creando “fluttuanti melodie”. Già perché l’invitante ed arcano palazzo, creato facendo ricorso alle teorie matematiche di Colin Rowe e la sua propensione alla molteplicità dei punti d’ingresso, presenta una pluralità di spazi negativi tra cui l’oculus centrale sovrastante un cortile parzialmente riparato, incuneato tra le quattro collinette artificiali che nascondono all’interno ben 12.000 metri quadri abitabili della sua struttura. Dove sarà possibile entrare mediante un luminoso atrio a vetri, oppure direttamente dal secondo piano, percorrendo l’agile passerella inclinata che allude ai punti di passaggio nei tradizionali giardini della Cina…