L’arma segreta del verme di velluto

Non capita spesso di uscire una notte nella foresta pluviale della Costa Rica, con l’idea di farsi un tour auditivo dei versi di mille o più animali, soltanto per trovarsi dinnanzi alla forma brillante di quello che potrebbe costituire, dal punto di vista tassonomico, un piccolo fossile vivente. Onychophora, il verme di velluto dalle zampette tozze e paffute, che benché condivida la definizione col tipico anellide di terra, non condivide con lui che una parte minima dei suoi tratti biologici ed evolutivi. Ovvero la sua pelle morbida, priva di esoscheletro, e il bisogno di ricercare habitat caratterizzati da una microclima sotterraneo umido, per evitare di seccarsi e morire. Mentre per il resto, esteriormente, assomiglia ad un incrocio tra una lumaca ed un millepiedi, essendo per di più caratterizzato da uno stile di vita marcatamente predatorio. Il che lo ha portato, attraverso il percorso dell’evoluzione, a sviluppare degli organi di senso piuttosto rari nella sua classe di animali: occhi rudimentali, in grado di distinguere non soltanto la presenza di luce, ma anche le forme in movimento. Uniti ad un sofisticato sistema di rilevamento delle vibrazioni dell’aria, che si presenta come una serie di minuscole papille posizionate sull’epidermide, ciascuna dotata di un pelo infinitesimale che gli  dona una qualità tattile direttamente paragonabile a quella della stoffa da cui prende il nome. E tutto questo per rilevare, e colpire, coleotteri o falene che individua al tramonto, tramite l’impiego di uno dei meccanismi d’attacco più originali dell’intero mondo animale.
Per usare un paragone noto, avete presente Spider-Man? Con la sua capacità d’intrappolare i nemici tramite un getto di quell’indistruttibile ragnatela, una capacità in effetti scoperta soltanto recentemente in alcuni aracnidi della famiglia degli Gnaphosidae o ragni di terra. Mentre lui, il verme di velluto, usa un simile approccio da almeno 490 milioni di anni (periodo Ordoviciano) come determinato da alcuni fossili ritrovati nell’argillite di Burgess, in pieno territorio canadese; laddove per inciso oggi, giammai potrebbe vivere una delle 200 specie attualmente note, vista la loro rinomata preferenza per climi e temperature marcatamente tropicali. Senza contare che lì troverebbe una quantità di prede decisamente minori. Ciò che la misteriosa creatura spara dalle due proboscidi direzionabili posizionate sotto gli occhi e le antenne, ad ogni modo, non è propriamente una semplice tela appiccicosa, bensì quello che viene definito dal punto di vista tecnico come uno slime: saliva densa, ed appiccicosa, in grado di intrappolare un artropode di dimensioni medie in maniera totale, nel giro di una frazione di secondo. Questo anche perché il verme, nel momento in cui fa fuoco comprimendo la complessa struttura muscolare delle papille orali, non mira direttamente al centro del bersaglio, bensì fa oscillare il tiro in tutte le direzioni, andando a costituire una sorta di rete gladiatoria, da cui liberarsi, sebbene non impossibile, risulta decisamente improbabile per la vittima designata. Tutto ciò che il feroce verme deve fare, a quel punto, è avanzare col suo passo leggero finché non è abbastanza vicino da perforarne la scorza con un dente speciale a forma di falce, dal quale procede quindi ad iniettare un secondo tipo di arma chimica, in grado di dissolvere l’organismo catturato a partire dai suoi organi interni. Per poi succhiarlo, assieme allo slime da recuperare, neanche si trattasse del più orrido dei frappé. Operazione completata la quale, il verme si affretterà nuovamente a tornare nella sua buca, sottraendosi il prima possibile dallo sguardo dei suoi molti potenziali nemici. Il che è la ragione per cui gli avvistamenti di Onychophora risultano essere così straordinariamente rari: si tratta di creature che escono allo scoperto soltanto per brevi periodi, principalmente durante o a seguito di una grande pioggia. Non esattamente un momento in cui gli esseri umani tendono a farsi un giro nella foresta pluviale. Il che è un vero peccato, visto come il verme di velluto che procede nel sottobosco costituisce uno degli spettacoli più incredibili della natura…

Leggi tutto

La strana trasformazione delle formiche del miele

Nella tenebra notturna degli stati americani secchi e meridionali, California, Arizona, New Mexico, qualcosa si aggira alla ricerca di cibo. Sono le abitanti di un formicaio di Myrmecocystus mexicanus, assolutamente indisturbate dai controlli di frontiera. Imparentate con le formiche carpentiere, al punto di condividere con loro l’inquietante propensione a intrappolare gli insetti vivi, con lo scopo di succhiarne i fluidi vitali nel corso dei periodi di magra, esse portano in realtà questa pratica alle sue più estreme conseguenze: trasformando loro stesse, o per meglio dire una significativa parte della propria comunità di operaie, in vere e proprie dispense viventi, esseri non più in grado di muoversi ed attaccati al soffitto del sottosuolo, con l’addome rigonfio di una quantità impressionante di nettare prezioso.
Per loro si tratta di una imprescindibile necessità, poiché non possiedono il segreto architettonico di taluni altri imenotteri, che mantenendo l’uso delle loro ali a seguito della migrazione, si spostano in alto e costruiscono arnie suddivise in cellette, nelle quali mantenere al sicuro il frutto della loro attività di ricerca del cibo. Eppure tra le due categorie di specie, sono le formiche del miele ad poter vantare un successo biologico maggiore, principalmente per la loro immunità agli attacchi dello spietato parassita Varoa Destructor, in grado di annientare un’intera comunità insettile nel giro di un paio di generazioni. Dev’essersi trattato, in origine, di nient’altro che un processo automatico: dopo tutto, è nota la propensione delle formiche a trasferirsi vicendevolmente sostanze nutritive e saluti con feromoni di riconoscimento facendo incontrare le loro mascelle durante una sosta nel corso delle loro lunghe marce. E più di un’atroce guerra è iniziata a causa della mancata conformità di un’intrusa, iniziando la dura competizione tra formicai distinti per una quantità di risorse limitate; finché ad un certo punto, la coscienza collettiva delle comunità sotterranee non ha compreso un aspetto fondamentale della questione. Ovvero che, piuttosto che andare costantemente alla ricerca di fiori del deserto e della melata degli afidi, al fine di costituire l’essenziale carburante della sopravvivenza (con un processo per nulla dissimile da quello delle api) era possibile trasportarlo in una camera speciale, e darlo in pasto ad alcune delle proprie sorelle. Affinché quest’ultime, lungi dal trangugiarlo, lo custodissero nella parte del proprio apparato digerente nota con il termine di gozzo, benché si trovi, stavolta, nella parte posteriore dell’animale. Il resto, per così dire, è venuto da se: poiché una formica tanto gonfia, naturalmente, non può pensare di spostarsi e contribuire all’operato comune. Se non donando, ogni qual volta se ne presenta la necessità, parte del proprio ambrato tesoro ai membri più produttivi della comunità. È importante notare, ad ogni modo, che le formiche-barattolo non rappresentano una casta distinta e particolare, come quella dei soldati, bensì semplice operaie (maggiori o minori) la cui mansione assegnata è risultata essere non più assolvere direttamente alla risoluzione di un problema, ma restare immobili, per salvare l’intera comunità. E non è forse questa, vera nobiltà d’animo, assoluto senso di abnegazione? Laddove una classe di creature non può disporre di strumenti fondamentali per prosperare, trovarne l’equivalente attraverso il sacrificio dei propri simili, disposti a svolgere il ruolo designato anteponendo i bisogni della comunità all’espletamento delle proprie propensioni biologiche innate. Ma forse non è neanche corretto ragionare in questi termini: poiché l’evoluzione ha dotato l’intera specie di adattamenti speciali, quali l’esoscheletro dell’addome non più composto da un singolo involucro, bensì una serie di scleriti, piastre sovrapposte come tegole, che alla crescita di dimensioni della formica, si separano, non proteggendo più alcuna parte della formica. Poiché si presume che lei, a quel punto, sia custodita nel luogo più invalicabile del mondo, la camera segreta del clan. Che nessuno potrà raggiungere, tranne il nemico più terribile di tutti: gli umani…

Leggi tutto

Il veleno che ferma lo scorrimento del sangue umano

Nel celebre racconto di Edgar Allan Poe “Il pozzo e il pendolo”, un prigioniero dal crimine misterioso viene sottoposto a una particolare forma di tortura dall’Inquisizione Spagnola: chiuso in una stanza completamente buia, legato ad un tavolo di legno, si ritrova a percepire il movimento di una lama oscillante, affilata come un rasoio, che ad ogni passaggio si avvicina al suo corpo, finché ad un certo punto, giungerà per ucciderlo molto, molto lentamente. Quando per una casistica inaspettata, alcuni ratti non rosicchiano le corde che lo tenevano intrappolato, permettendogli di cercare rifugio verso i margini della sua cella. Ma è allora che le pareti diventano incandescenti, ed iniziano a stringersi, costringendolo verso un buco profondissimo nel pavimento che all’interno della sua mente, finirà per corrispondere al più profondo abisso dell’animo umano. L’evoluzione di determinati animali velenosi, in un certo senso, è come la cella orribile immaginata dallo scrittore americano: gradualmente, la selezione naturale dona al serpente uno strumento d’offesa che gli permetta di cacciare, pur essendo un animale relativamente piccolo e privo di zampe, che dispone di un singolo attacco per catturare la sua preda. È questo il momento in cui il pendolo tagliente raggiunge l’estremità di Levante, caricandosi per effettuare la sua prima oscillazione. Dopo che un numero sufficiente di esemplari/preda viene quindi avvelenato e fagocitato, attraverso le generazioni viene tra loro selezionato un gene che permette alle vittime, gradualmente, di sviluppare l’immunità. In questo momento il pendolo si trova a Ponente. Ma è allora che, senza falla, di nuovo i serpenti trovano un modo per rendere il loro veleno ancor più letale, dando inizio ad un ulteriore, e più basso passaggio della lama torturatrice. E così via… Il pozzo all’interno del quale cadere, nel frattempo, rappresenta l’occasione in cui un essere umano dovesse venire morso, per autodifesa o una semplice sfortunata coincidenza. Possibile che a quel punto, un angelo giunga a salvarlo?
Per la legge infinita della Natura, è letteralmente impossibile che un qualcosa resti uguale. Così anche i serpenti, secolo dopo millennio, possono soltanto adeguarsi al moto del pendolo, diventando sempre più letali. O sempre meno. Ma nel primo caso, la questione è più complicata che la mera elaborazione di “un veleno peggiore”. Poiché una sostanza creata per uccidere qualsivoglia forma di vita, è inerentemente affine all’attacco di un hacker: per quanto esso aumenti il grado di sofisticazione del suo cavallo di Troia, esso non potrà passare per sempre dalla stessa backdoor. Così avviene la diversificazione, essenzialmente attraverso tre vie distinte. Nel primo caso (citotossine) il serpente attacca le membrane delle cellule stesse, sostanzialmente i mattoni costitutivi della vita stessa, iniziando un qualcosa di affine al processo di digestione ancor prima di fagocitare la preda. Si tratta della forma di veleno più primitiva, creata a partire dalla saliva e generalmente associata a zanne corte ed arretrate nella bocca dell’animale. Più pericolosa è la seconda alternativa (neurotossine) che attacca i nervi causando una paralisi immediata, generalmente seguìta dalla morte per soffocamento del soggetto colpito. Alcuni dei serpenti più pericolosi del mondo sono dotati di questo strumento d’offesa. Oggi siamo qui a parlare, tuttavia, di un’alternativa più rara, e per certi versi ancora più terrificante: l’emotossina, ovvero il veleno che attacca direttamente il sangue. Periodicamente, su Internet, compaiono questi video in cui una figura di esperto preleva una certa quantità del suo stesso sangue, lo versa all’interno di un recipiente e vi aggiunge una singola goccia di veleno, immancabilmente appartenente ad un qualche spietato essere strisciante. E ed è allora, nel giro di meno che un minuto, che la sostanza rossa perde quasi completamente la sua forma liquida, trasformandosi in un ammasso gelatinoso: il sangue, in parole povere, si è coagulato. Ve lo immaginate l’effetto di un simile evento all’interno dell’organismo… Quasi istantaneamente, si formerà un trombo, bloccando il regolare funzionamento della circolazione nell’estremità colpita. Quel che è peggio, tuttavia, è il suo potenziale trasformarsi in embolo, per viaggiare lungo le autostrade venose fino ad un organo importante, come il cuore, il cervello o i polmoni. Ed a quel punto, quanto credete che possa restarvi da vivere, anche ricevendo assistenza medica pressoché immediata?
Ma quel che è peggio è che tra l’altro, un singolo serpente non ha bisogno di scegliere soltanto una delle tossine possibili, a discapito delle altre. È anzi piuttosto diffuso il caso di specie che dispongono di due, o tutti e tre i tipi allo stesso tempo, causando uno shock su più fronti che nel giro di letterali minuti, non lasciano alcuna via di scampo all’organismo colpito…

Leggi tutto

Liquefazione catartica della montagna tibetana

Nella percezione umana della circostanze geologiche, nulla genera un senso maggiore d’inquietudine dell’espressione: “la furia della montagna”. Un sentimento immaginario, di cose enormi che non possono neppure concepire la loro stessa esistenza, il quale conduce generalmente ad un determinato tipo di eventi, riassumibili con l’espressione Vulcanismo. Niente di peggio, nulla di persino più terrificante. Del magma sotterraneo che riemerge, per colare inesorabile verso la vita degli insediamenti umani. Le Hawaii conoscono fin troppo questa sensazione, vista l’occorrenza più o meno annuale, di intere isole che devono spostare i propri insediamenti, mentre molti dei più preziosi tesori umani (la casa, i campi, i ricordi) vengono inghiottiti dalla pietra fusa che avanza. Sapete dove invece, parlando in senso generale, non ne sanno proprio alcunché? In Himalaya ovviamente, sul tetto del mondo, dove gli unici vulcani più o meno attivi si trovano nel gruppo occidentale di Kunlun, dove l’episodio massimo è un’emissione di timido fumo ogni tanto. Il che non significa del resto, che il paese dalla più antica e celebrata espressione del Buddhismo Mahayana sia del tutto immune dalla “furia della montagna”. Che tende ad esprimersi attraverso un metodo di certo meno incandescente… Ma non per questo, privo di un potenziale distruttivo senza limiti potenziali. Si tratta di una scoperta nuova, nel senso che a giudicare dal successo avuto dal qui presente video su Weibo e gli altri social network cinesi proiettati verso la diffusione internazionale, non molti avevano visto qualcosa di simile prima d’ora. E del resto, l’aspetto estetico dell’episodio assomiglia a qualcosa di fuoriuscito dalla serie cinematografica de La Storia Infinita, la mano metaforica di un pianeta che si ribella a ciò che i suoi occupanti hanno avuto il coraggio di fare. Così in senso figurativo, come nella realtà dei fatti: poiché ciò a cui stiamo assistendo, è stato valutato dagli scienziati interpellati sull’argomento, costituisce probabilmente una diretta risultanza del mutamento climatico causato dall’effetto serra: siamo dinnanzi al freezer terrestre che decide di sbrinare se stesso.
Ovvero non si tratta di una comune frana o slavina di fango, né di un qualche tipo di flash flood, causata a monte del grande plateau. Bensì di un qualche cosa di ben più preoccupante in senso sistemico, poiché potrebbe verificarsi di nuovo in qualsivoglia momento. Per chi non avesse familiarità con il termine permafrost, spieghiamone brevemente il significato: stiamo parlando di un tratto di suolo che si ritrova ghiacciato per l’effetto delle basse temperature, riuscendo a restare tale per un periodo di almeno due anni. Dopo di che, il più delle volte, non si squaglia mai più. In tale espressione topografica, che ricopre il 24% dell’emisfero settentrionale, non sono sempre, né frequentemente presenti grosse masse d’acqua congelate, come in un ghiacciaio, bensì delle venature rigide d’umidità nascosta, all’interno dell’ammasso stesso del suolo, che donano al paesaggio un particolare aspetto definito come termocarsismo. Affinché queste possano liquefarsi, dunque, è necessario un aumento sostanziale delle temperature. Così come è stato registrato negli ultimi anni nell’intera regione dell’Himalaya, fatta eccezione per i picchi più alti, in congiunzione con un progressivo processo di desertificazione dell’altopiano centrale. Incapace di mantenere una quantità considerevole d”acqua, quindi, la terra viene spostata lungo le pendici dall’effetto dei venti. E una volta raggiunta la pendice congelata, inizia a gravare con il suo peso, finché non si raggiunge la massa critica e si genera il disastro. Una visione apocalittica, per piccole comunità come queste, o nello specifico la famigliola che sembra aver prodotto il qui presente video, a cui il verificarsi improvviso dell’episodio è costato la piccola struttura mobile che usavano come ranch e per buona misura, anche l’unica automobile in loro possesso. L’esatto luogo in cui si svolge la scena non è stato pienamente determinato, anche se gli utenti dei social media e una scienziata corrispondente del National Geographic, Mika McKinnon, sembrano aver riconosciuto una valle in prossimità del villaggio di Dimye, nella contea di Yushu, prefettura di Qinghai. Ovvero nel Tibet storico, ormai facente parte del territorio cinese.

Leggi tutto