L’attività frenetica sul ponte della nave da ricerca AFB-14 ormai da qualche giorno immobile a largo di Kahuku Point, ufficialmente facente parte della Marina Militare Statunitense, tradiva la natura molto significativa di quei momenti. Mentre gli ufficiali sul ponte gridavano istruzioni agli addetti marinai, ciascuno addestrato a compiere una particolare serie di gesti, il capitano dalla plancia di comando sorvegliava i movimenti di quel meccanismo ben rodato, ormai prossimo alla partenza. Chiusi i bocchettoni, riposto l’equipaggiamento nella stiva, venne quindi il momento di sollevare l’ancora impiegata per frenare i movimenti durante le osservazioni scientifiche, senza la necessità di raggiungere il fondale vista la distanza di quest’ultimo situato a circa 4600 metri di profondità. Apparato ben rodato con la forma assai riconoscibile di un grande paracadute, trascinato in senso longitudinale dal battello al fine di riuscire a contrastare l’effetto delle correnti marine. Riconoscendo il punto di riferimento di colore rosso sul cavo d’acciaio, il marinaio sollevatore si mise quindi a contare: “1, 2, 3… 10, 11… Oh, che cosa?” Pochi attimi di esitazione, mentre si cercava di capire cosa fosse successo, quindi attimi di panico professionale, mentre il meccanismo veniva arrestato ed il nostromo si precipitava al parapetto, presto seguito dal capitano, per determinare la portata del problema. “Signore guardi là! C’è un pesce incastrato nel paracadute. Anzi no… Potrebbe trattarsi di un piccolo di cetaceo. Anche se è senz’altro il più strano che abbia mai visto…” Le telecamere furono messe in posizione, mentre alcuni sommozzatori, adeguatamente attrezzati, si precipitavano per aiutare la tragica presenza dal muso tondeggiante ma appiattito. Continuando a registrarne le caratteristiche davvero singolari: almeno 5 metri di lunghezza, di una colorazione grigio scuro nella parte superiore, tendente al bianco in quella inferiore. Una pelle ruvida e pinne molto grandi, tipiche di pesci estremamente rapidi ed attivi, benché l’atteggiamento fosse particolarmente letargico, persino in tali circostanze innaturali. E soprattutto, la più grande e impressionante bocca immaginabile per una creatura di tali dimensioni. Dopo una rapida consultazione dei biologi a bordo, si raggiunse quindi un qualche tipo di consenso preventivo: l’equipaggio si trovava al cospetto di uno squalo. Che nessuno, fino a quel fatidico anno 1976, aveva mai visto, o quanto meno documentato a beneficio della scienza contemporanea. Un mostro, nel suo mondo segreto!
Personaggi senza nome degli abissi, esseri perennemente pronti a divorare scafi, sommergibili o le accidentali intromissioni degli umani nei dintorni del palazzo del Dio Drago tra le dune inconoscibili ed oscure. Famelici, silenti, arbitrariamente privi del concetto soggettivo di pietà. Nella misura in cui l’evoluzione, demiurgo impersonale dell’ecologia, sembrerebbe averli creati.
pesci
L’astrusa singolarità nascosta nello stomaco del pesce dai denti di drago
Lo spiaggiamento di ogni essere marino viene accompagnato da un latente senso di perdita e malinconia, corrispondente all’inesorabile esaurimento sotto i nostri occhi di una vita che proviene dallo stesso nucleo primordiale della natura. Soltanto non succede spesso, come in questo caso, che il pesce sembri boccheggiare non tanto per la carenza di acqua ossigenata nelle branchie, ma piuttosto un chiaro desiderio di riuscire a mordere, e possibilmente fagocitare, la mano che dovesse prendere l’iniziativa di prenderlo e gettarlo nuovamente tra la spuma candida della risacca. Una mera sensazione, possibilmente, motivata dall’impressionante dentatura del qui presente Alepisaurus ferox, più comunemente detto longnose lancetfish o pesce sega a mano, con il possibile attributo descrittivo di “cannibale” che non può dirsi in alcun modo fuori luogo. Vista l’abitudine, acclarata dalla scienza, a nutrirsi con trasporto dei propri stessi simili, costituendo nei fatti uno dei più agguerriti predatori della sua stessa specie. Non che ci troviamo innanzi, sia chiaro, a un vero e proprio mostro privo di pietà: poiché questa è pur sempre una creatura che preferisce infatti banchettare con crostacei ed altri cugini il più possibile distanti, almeno finché la carenza di risorse non li porta a compiere l’infausta scelta gastronomica punibile nel IX cerchio dell’Inferno dantesco, nutrendosi dei suoi stessi figli. Un comportamento di cui conosciamo molto bene le specifiche, considerato l’altro tratto maggiormente distintivo di questo minaccioso essere, riassumibile in parole povere come un’insolita lentezza nella digestione. Per un tratto evolutivo tanto raro quanto poco chiaro alla scienza, che ha permesso ai biologi di accedere ai molti esemplari catturati accidentalmente nelle reti dei pescatori, da un lato all’altro del globo terracqueo, estraendone bocconi tanto integri da sembrare prelevati direttamente dal banco di una pescheria. E poiché l’alepisauro si trova caratterizzato per l’appunto da una distribuzione cosmopolita, oltre a preferenze nutrizionali che lo portano a fagocitare un po’ di tutto a vari livelli di profondità oceanica, tutto ciò è servito a caratterizzarlo come una sorta di capsula temporale o uovo a sorpresa, in grado di preservare per tempi mediamente lunghi ogni possibile malcapitata preda della sua grande fame. Assieme ai vari “tesori” generosamente offerti dalle pessime abitudini degli esseri umani, tra cui pezzi di plastica, frammenti di reti da pesca e qualche volta addirittura il vil denaro, inteso come monetine in quantità paragonabile a un effettivo ittico distributore di perdute verità sommerse. La presenza di grandi quantità d’alghe ragionevolmente integre, di suo conto, parrebbe invece derivare dall’inseguimento di possibili vittime all’interno delle ombrose foreste sommerse. Pratico, nevvero? Senz’altro spaventoso, quando lo si osserva in questo modo sul bagnasciuga (eventualità che tende molto spesso a suscitare l’attenzione della stampa sensazionalistica sul Web) senza scaglie e con una lunghezza complessiva in grado di superare i due metri, la lunga vela dorsale e la coda biforcuta al termine del corpo affusolato. Costruito per rapidi scatti all’indirizzo di una preda impreparata grazie alla prevalenza di fibre muscolari bianche, piuttosto che lunghe peregrinazioni marittime mirate e controllare un territorio definito. Il che tende a renderlo, se possibile, ancor più imprevedibile e pericoloso…
Incontro alle Hawaii con l’adorabile voracità del pesce porcospino gigante
Ed in fondo, perché no? Perché non dovrei andare a dare da mangiare alle anatre? Previa presa di coscienza della maniera in cui nel resort di Ko Olina, presso l’isola hawaiana di O’ahu, le anatre presentano un aspetto assai particolare. Basso e largo, chiaramente rettangolare. Gli occhi sporgenti simili a obiettivi di una videocamera, le ali basse mantenute perpendicolari alla superficie della laguna. Una stravagante livrea a puntini che ricorda chiaramente quella di altri uccelli, ben più lontani dal novero di quelli a noi più familiari. E il becco… duro ed affilato, adatto alla consumazione di pietanze particolarmente coriacee. Così come le due spesse labbra, pallide come copertoni di uno spazzaneve utilizzato per tenere libere le strade norvegesi. Questo perché, occorre a un certo punto sottolinearlo, le anatre di Ko Olina non sono affatto degli uccelli, ma particolari appartenenti all’ordine ittico dei tetraodontiformi, famiglia Diodontidae, dalla classica combinazione di termini greci e latini capace di alludere al significato di “[pesce] dai due denti”; una strana priorità d’altronde non ripresa nella logica del nome comune rilevante, assai più descrittivo nel suo complesso: porcupinefish, l’anima del porcospino (o istrice) letteralmente trasferita in un contesto acquatico. Fino all’ottenimento di un pesce piuttosto comune nei mari di mezzo mondo, ma che tuttavia non può evitare di stupirci per l’aspetto stravagante rispetto alle normali cognizioni di cosa dovrebbe essere una creatura che si aggira in mezzo ai flutti, costituendo al tempo stesso sia preda che predatore. Ed il cui processo evolutivo precedente, proprio al fine di resistere alle implicazioni problematiche della seconda condizione, è giunto a dotarla di un’eccezionale dote di sopravvivenza; quella utile non soltanto a sembrare “più grande” ma riuscire in senso letterale a diventarlo, mentre il suo corpo si ricopre di aculei estremamente acuminati e potenzialmente imbevuti di uno dei veleni più terribili di questo mondo. Benché la maggior parte di quest’ultimo risieda dentro gli organi e in particolare nel fegato dell’animale, rendendolo pericoloso in modo particolare nella sua accezione gastronomica di fugu, la pietanza nipponica famosa come straordinaria prelibatezza nipponica, nonché prova di coraggio per la sempre valida opportunità che un taglio inesatto, o inappropriata preparazione, possa condurre ad uno shock respiratorio dalle conseguenze non meno che letali. Il che non rende d’altra parte il pesce meno grazioso quando, senza ricorrere alle proprie notevoli armi d’autodifesa, si avvicina con fare pacifico alla mano che lo nutre, finendo per ricordare vagamente la naturale indole amichevole della carpa koi, benché le sue preferenze in materia d’alimentazione rendano opportuno dargli, come fatto nel presente video, pezzi di carne o pesce sfilettato piuttosto che semplici molliche di pane. In quantità sufficiente per una creatura dalle dimensioni niente affatto trascurabili di fino a 60 cm, ovvero abbastanza da farne il più grande tra i pesci palla del pianeta Terra. Così che una volta assunta la sua forma battagliera, il termine di paragone maggiormente proporzionato risulta essere individuabile nel pallone per giocare a basket. Di un tipo che nessuno, in alcun caso, dovrebbe mai stringere direttamente con le proprie stesse mani…
Il Polyodon americano e la funzione subacquea di un enorme naso predatorio
Oh, ce ne sono molti! Aggressivo: se avessi per rostro un monolite io me l’abbatterei sulla pubblica piazza. Amichevole: deve sguazzarvi nella tazza, munitevi di giara quando voleste bere. Descrittivo: è una rocca, è uno scoglio… Ma questo mio naso, messere, è molto più che una semplice appendice. Quando vado a caccia, mi precede di 15 minuti. E agisce per il mio interesse, a discapito delle piccole creature dentro il fiume. Un pesce. Ma cos’è, così d’un tratto? Se non l’abitante dei pensieri maggiormente nebbiosi. E il mangiatore d’ogni cosa nutritiva e fluttuante. Lo chiamarono nel 1838, dal Greco, Polyodon che vuole dire molti-denti, ma la scelta è chiaramente utile a focalizzare l’attenzione sull’aspetto scientificamente più inaspettato. Poiché a poco servono, siffatti premolari e zanne, quando il pasto principale della bestia è il plankton e soltanto quello… Come una balena. O per esser maggiormente precisi, come uno squalo-balena, vista la relativa somiglianza della famiglia (specie sopravvissuta: non più di una) con simili condroitti del tutto privi d’ossa calcificate. Laddove il pesce spatola, nelle sue declinazioni attuali e quelle ormai scomparse, mostra anch’esso in prevalenza una composizione cartilaginea dello scheletro, fatta eccezione per alcune parti della sua preistorica e immutata anatomia. Vedi un naso, per l’appunto, tale da essere l’invidia dello stesso cavaliere di Bergerac. Siam qui di fronte, d’altra parte, a una creatura che potrebbe essere rimasta sostanzialmente immutata fin dall’Alto Cretaceo (120-125 mya) e che fin da tale epoca parrebbe aver saputo ricavarsi una particolare nicchia evolutiva ed ecologica, tale da riuscire a prosperare indisturbata dai molteplici cambiamenti del clima, dell’ambiente e delle condizioni in essere dettate dalla biologia terrestre. Così come possiamo ancora vederlo nel vasto sistema fluviale interconnesso che si estende, come i rami di una grande quercia, dal tronco centrale del fiume Mississippi, mentre si muove tra le acque turbinanti con la bocca aperta simile ad una caverna, le branchie spalancate non soltanto al fine di massimizzare l’acquisizione dell’ossigeno ma per meglio lasciar fluire l’acqua avendo cura di filtrare il contenuto nutritivo all’interno. Ed è nel momento in cui tentiamo di rispondere alla fondamentale domanda, di come esattamente questo pesce riesca a rintracciare le sue minuscole prede, che il colpo di genio che costituisce il fondamento stesso della sua esistenza inizia ad assumere un ruolo centrale nel discorso. Perché come la spada del collega marino, come il dente affusolato del narvalo, come la sega del non meno preistorico Pristidae, occorrerà ad un certo punto far mente locale sul proverbiale rinoceronte nel bel mezzo della sala da pranzo, ovvero quel che originariamente il naturalista Jules Laurent Bonaparte, fratello minore di Bonaparte I, evitò di sottolineare quando giunse ad indicare il nome collettivo dell’intera famiglia. Un rostro, come quelli sin qui citati, senz’altro, benché tale appellativo non sembri rendere pienamente giustizia alla forma piatta e larga della “spatola” che d’altra parte, il tedesco Johann Julius Walbaum aveva utilizzato al fine di crear l’appellativo P. spathula, specifico per la versione americana di una simile creatura…