Perdersi vagando dentro al manicomio abbandonato

Project Senium

Le alte mura del possibile non hanno limiti contestuali di alcun tipo: questo cancello arrugginito fu varcato, nel giro di un secolo più dieci anni, da Napoleone, Re Artù, Giulio Cesare, il feldmaresciallo Rommel, Buddha e  Mosè. Ma sapete qual’è la cosa più incredibile? Ciascuno di loro, come del resto ciascun singolo dei loro innumerevoli coabitanti, era sinceramente convinto, nel profondo del suo animo, di essere normale. Che poi nemmeno esiste un simile aggettivo, se non all’interno di determinati campi dello scibile. Tra cui certamente quello medico! Fra tutti gli altri sovrapposti. Perché la convenzione, in quel preciso caso della scienza, indica che tutto sta volgendo per il meglio: il cuore pompa, i polmoni filtrano, lo stomaco riesce a digerire. Come una macchina, questo complesso e strano corpo che in sostanza serve unicamente a sostenere…Il flusso e il corso del pensiero. Tu, sei perfetto. Sempre. Il tuo ego immisurabile, persino quando sottoposto a sollecitazioni inaspettate, altro non produce che espressioni di per se coerenti della tua individualità. Eppure? Da che la psicoanalisi ebbe a gettare luce su cosa fosse la personalità degli umani, aiutarci a comprendere in che modo separiamo l’Io dal resto della civilizzazione, si è entrati in un meccanismo intellettuale per cui la deviazione dal consueto non è necessariamente problematica, in se e per se. Ciò che viene criticato, semmai, sono i colpi dati con la testa contro il portone di casa verso le 2:30 di notte, mentre con un coltello si minacciano le prostitute di passaggio. La tolleranza è un velo, dietro il quale alberga l’intervento con finalità bonarie, eppure tanto spesso mal gestito.
Ne parlano brevemente gli esploratori, registi e fotografi del Project Senium, attraverso la voce narrante di questa sequenza registrata all’interno dei misteriosi edifici di un luogo che loro definiscono, semplicemente, l’ospedale. E non poteva essere diversamente, a ben pensarci, visto il modo in cui l’intenzione di realizzare quest’opera pseudo-documentaristica fosse già stata annunciata da parecchi mesi, attraverso un blog e classici canali di raccolta fondi digitali. Come, altrettanto naturalmente, non potevano passare più di quindici minuti, prima che qualcuno contribuisse dando un nome a tali e tanti poligoni da sempre sulle mappe di New York: si tratta del Kings Park Psychiatric Center di Long Island, un esteso gruppo d’edifici iniziato a costuire 1885 che ebbe a diventare molto dopo, verso gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, uno dei manicomi più grandi del mondo. Si parla di oltre 9.300 persone condannate a faticosa guarigione, o eterna prigionia, senza contare i numerosi medici, infermieri e lavoranti a margine di un simile complesso sterminato. Ai vecchi tempi, quando l’agglomerato grigio-cemento della metropoli ancora non raggiungeva i margini di questi 523 acri, prima di proprietà dell’ecclesiastico William Augustus Muhlenberg (1795-1877) e poi venduti allo stato, il manicomio poteva giovarsi di un intero braccio periferico della ferrovie locali, costruito appositamente per muovere l’enorme massa vivente dei suoi abitanti occasionali. Sarebbe a dire, tutti coloro che erano liberi di uscire dalla soglia, varcare il valico e tornare nella vera società civile.
E guarda adesso, cosa ne è rimasto! Non è del tutto chiara la ragione per cui nel 1996, d’un tratto, la giganteggiante istituzione venne chiusa, provvedendo al trasferimento di una parte dei suoi pazienti nel quasi confinante Pilgrim Psychiatric Center, fondato sugli stessi metodi ed approcci procedurali. Muhlenberg, che era un pastore protestante aderente al primo movimento dei Social Gospel e noto educatore, preferiva guarire con il metodo del guanto di velluto. Così, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, il grande ospedale fu sempre mantenuto all’interno di una zona verde, affinché i suoi ospiti potessero trovare la serenità nell’isolamento dalle pressioni esterne, coltivando la terra e praticando vari tipi di mestieri. Ma è difficile, per noi europei, comprendere a fondo la reale situazione di un’agglomerato in cui già vivevano diversi milioni di persone, tra le quali, come da prassi matematica, la quantità dei folli e derelitti era in costante crescita vertiginosa. Così, verso la fine degli anni ’30, venne costruito l’edificio 93, principale soggetto delle riprese iniziali dei project Senium, 13 piani in stile neoclassico (sembra quasi la casa degli Addams) progettati dall’architetto William E. Haugaard e finanziati dall’amministrazione statale, ove ospitare i pazienti più problematici. E da un certo punto in poi, sottoporli alle spietate terapie che al secolo venivano considerate maggiormente, orribilmente efficaci.

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Anni ‘30: l’italiano che precorse il parkour

John Ciampa

Prima che inventassero le vertigini, quando i palazzi ancora non avevano antenne paraboliche, inferriate automatiche, videocamere di sorveglianza. Ma guarda: gli stessi muri che campeggiano ancor oggi, immobili e immutati, tranquillamente in attesa di colui che fosse tanto folle, o coraggioso, da scalarli fin sopra le nubi con l’unico scopo di poter gridare: “Sono io, sono il re.” Si, però di cosa? Della giungla? Di un mondo in bilico tra le due guerre, da princìpio e ancora prima di poter dirsi famoso, guadagnandosi nomignoli come “Il Tarzan di Brooklyn”, “La mosca umana” o “Il fantasma volante”. E ci sarebbero voluti ancora molti anni, occupati da una scintillante carriera tra i tendoni viaggianti e un carico di tigri ed elefanti, perché il circo di Larry Sunbrock potesse vantare sui suoi manifesti la presenza di un pezzo davvero da 90: “Ciampa, la scimmia che oscilla [a parecchi metri da terra]”. E non fu certo un caso, se fu proprio quello il nome scelto all’apice del suo successo. Per tutte le macchine che abbiamo costruito, sotto i tetti e sopra i ponti dei propositi e dei corsi delle circostanze, ciò che ci caratterizza resta soprattutto quello: due mani, due gambe e quattro estremità, variabilmente prensili, di cui almeno un paio funzionali all’apertura di una splendida banana. E quelle assieme alle altre, assieme valide ad arrampicarsi. Come l’italo-americano nato nel ’22 facente di nome John. L’uomo, il primate. Il profeta di quella disciplina che sarebbe stata codificata, soltanto nella Francia di molti anni dopo, con il termine de L’art du déplacement (l’arte dello spostamento).
Pensa. Un creativo di fama prende un limone e lo mette sopra un piedistallo ornato, affermando: “Questa è una metafora della complessa condizione umana.” E ciò genera, tra i circoli dei critici del suo settore, fiumi di parole ed ambiziose discussioni, corroborate da un supporto filosofico di alta accademia. La società degli individui di cultura, o almeno chi tra loro segua simili questioni, ne esce corroborata ed in un qualche modo più ricca, più consapevole del suo contesto dei momenti successivi. Di chi è davvero, il merito di un simile successo? I piedistalli esistono da secoli, così come gli agrumi. Dunque non è stato certo il primo caso di un simile incontro tra le parti gialla e verticale, tanto pregnamente giustapposte da costui. Così dovrebbe dirsi del parkour, il rutilante, sobbalzante insieme di movenze, tecniche ed approcci al pericolo, che oggi sorregge una valida serie di valori del mondo moderno, esemplificati attraverso letteratura, cinema, fumetti e videogiochi (non si può, non mi riesce d’ignorare l’ultima categoria) la cui nascita è soavemente difficile da collocare. Che fu inventato, forse, in ambito militare, dall’insegnante di educazione fisica Georges Hébert (1875-1957) che credeva nella preparazione dell’individuo ad essere utile in qualsiasi situazione d’emergenza, grazie all’impegno quotidiano lungo un susseguirsi degli ostacoli in sequenza, quelli che sarebbero poi diventati le tipiche palestre all’aria aperta dei moderni parchi cittadini. Oppure nacque, in netta contrapposizione, dalle gesta spontanee di Raymond Belle, figlio di un dottore francese ed una donna vietnamita, separato dalla sua famiglia a causa della prima guerra indocinese (1946) che per imparare a sopravvivere tra le strade di Da Lat s’introduceva abusivamente nelle basi militari, usando in gran segreto quei circuiti di pioli, pneumatici e filo spinato. Perché non c’è parkour, senza un certo grado di ribellione e spirito contrario alle comuni norme della società civile. Ma bando al romanticismo: in quel regimento dei sapeurs-pompiers dell’esercito di stanza in Vietnam, lui quindi s’arruolò, diventando celebre come campione di scalate nelle dimostrazioni pubbliche di abilità.
Il parkour come pura arte, ovvero fine a se stesso o all’elevazione filosofica dei suoi fruitori (osservatori, presunti emulatori) arrivò soltanto con il figlio di quest’ultimo, quel David Belle nato nel 1973 a Fécamp in Francia, il fondatore e mente del famoso gruppo Yamakasi (dalla dicitura congolese ya makási, la “forza dell’individuo”) Che creò la serie di regole e precetti comportamentali che oggi formano la prassi operativa della disciplina. Ma se il filo conduttore ufficiale è questo qui narrato, che dire di tutti quegli altri, coraggiosi, scriteriati, folli scalatori delle mura certamente pre-esistenti? Accidentali scopritori, semplici scavezzacollo…Beh, a giudicare delle imprese su pellicola di quel John Ciampa, direi proprio di no.

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Punta di freccia degli antichi automi giapponesi

Karakuri

Se dico Toshiba, oggi, si tende a pensare subito ad alcune popolari serie di computer portatili e ultrabook, oltre che ad alcuni tablet e televisori, forse meno popolari delle alternative maggiormente pubblicizzate in Occidente, ma comunque certamente validi allo scopo. C’è questa moderna tendenza, molto diffusa, a dare ciò che è tecnologico del tutto per scontato. La nostra vita è circondata dalle meraviglie: piccoli rettangoli di vetro e plastica che lanciano la nostra voce oltre le orbite del cielo, macchine da scrivere integrate con strumenti per la virtualizzazione di scenari per la crescita intellettuale. Ci sono cose splendide e assolute, come i principi filosofici dell’arte, che mutano e si adattano all’incedere dei secoli. Mentre altre maggiormente specifiche, col tempo, resteranno perse in mezzo alle radici: di un tempo, una canzone, l’opera di colui che poteva dare una vita ulteriore alle marionette, vedi: il celebrato Karakuri Giemon, al secolo Tanaka Hisashige, inventore quasi leonardesco vissuto sulle soglie del 1800, che per una questione meramente cronologica viene piuttosto paragonato a Thomas Edison, collega americano. Tra la nascita del giapponese e quella dell’americano, in effetti, intercorsero esattamente 48 anni, e i due furono operativi in tempi coévi, benché il primo ormai da veterano aiutante di un Giappone appena entrato nell’epoca moderna, mentre il secondo ancora presentava il suo primo brevetto in concessione, per un dispositivo elettrico di voto. Ma cosa, potrebbe venirci dunque da chiederci, ci ha lasciato la figura di quest’uomo nato a Kuruma, nell’attuale prefettura di Fukuoka? Ad una prima analisi, già si palesano diverse cose: la prima è quella citata in apertura, la multinazionale formatasi a partire dalla fabbrica Tanaka del quartiere Ginza, nell’allora già rinominata vecchia Edo. Dove stando a quanto dicono, nascosto al secondo piano di un tempio buddhista, l’uomo già sapeva rispondere alle richieste di un pubblico mai conosciuto prima: la nuova e più civile borghesia. Lui, che per un lungo periodo aveva costruito balocchi per i pargoli degli ultimi daimyō incatenati, ovvero l’aristocrazia guerriera costretta, attraverso la vecchia legge del sankin-kōtai, a vivere per molti mesi l’anno presso Kyoto, sotto l’occhio scrutatore dello shogun Tokugawa. E non è certo un caso se un simile provvedimento, in atto ormai da più di due secoli, ricordasse tanto da vicino quell’altra prassi di Louis XIV, il Re Sole con la sua Versailles. Attraverso le culture di ogni epoca e paese, l’unico modo per imporre uno stato di quiete negli ambienti di chi ha sempre guerreggiato, è sostituir la spada, con qualcosa d’altro. Di meno diretto, appuntito, eppure stranamente conturbante. Così fu il Barocco, all’altro lato del più vasto continente, come l’arte raffinata del confucianesimo e del buddhismo Chan (Zen) riscoperto, gradualmente, dai pittori e dai poeti samurai. Ed…Altre cose.
Vederlo oggi, significa in un certo senso respirare almeno in parte quell’aria di soave meraviglia, il senso dei minuti che sembravano fermarsi e germogliare: lo yumi-hiki doji, o giovane arciere, muove con sicurezza la sua mano destra, verso la faretra da terra tipica del tiro con la corda giapponese. Nel frattempo, con l’arco saldamente stretto nella sua sinistra, accenna un curioso movimento, simile a una sghemba riverenza. Sarà alto, grosso modo, una trentina di centimetri, più l’alta base cubica su cui graziosamente siede. L’espressione improbabile del suo volto, truccato secondo la prassi ormai desueta dell’antica nobiltà imperiale, accentua le qualità surreali della sua sequenza operativa. A quel punto, delicatamente, il piccolo pupazzo incocca il dardo fortunatamente innocuo, piega un po’ la testa per far sembrare che stia prendendo la mira. E dunque, scocca e poi colpisce… Nel kit originario, gelosamente custodito presso il museo Edo-Tokyo di Ryogoku,Tokyo, è incluso un elaborato bersaglio con un gong metallico, il cui risuonare, indubbiamente, faceva seguito alla gioia e alle risate degli spettatori, divertiti e indubbiamente lasciati un po’ increduli dallo spettacolo dell’incredibile ingegno degli umani. Il termine dalla grafia variabile karakuri (che può essere scritto in alfabeto sillabico katakana, oppure usando l’abbinamento di kanji: 絡繰り, 絡繰, 機巧, 機関, o addirittura 唐繰) si riferisce ad una ricca serie di bambole o pupazzi meccanici della tradizione giapponese di epoca Edo (1603-1868) il lungo periodo di pace seguito alla catartica battaglia di Sekigahara, quando essenzialmente il metodo di vivere dei vecchi samurai venne istantaneamente sublimato, in un’unica giornata di combattimenti tra i più forti e grandi nobili del tempo. Da cui emerse il nuovo ordine di un paese chiuso ad influenze esterne, in cui le spade, piuttosto che diventare aratri, vennero poste sopra gli alti piedistalli delle case, venerate come simbolo di un modus vivendi altrettanto crudele ed affilato. Ma il tempo passa e stempera persino il tamahagane, l’acciaio più prezioso. Così, nel giro di appena un paio di generazioni a partire dal 1600, ebbe a trasformarsi ciascun vecchio condottiero: in un sincero mecenate delle arti. Statico fino al successivo varco di un profondo cambiamento. Destinato a verificarsi, guarda caso, proprio all’epoca di Karakuri Giemon.

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Jonathan, l’antica tartaruga dell’isola di Sant’Elena

Jonathan la tartaruga

Centottantanni e non sentirli, masticando l’insalata che ti portano gli umani, gli svelti, effimeri esseri bipedi che si susseguono nella spaziosa Plantation House. Residenza estiva del governatore in quest’isola dedicata alla santa di Costantinopoli, mutevole inquilino fin da quando venne posta la prima pietra angolare della casa, nel 1791, ad opera degli ufficiali della Compagnia delle Indie Orientali. La villa venne poi ampliata in modo significativo, a seguito della nomina di una tale remota terra emersa al prestigioso, eppur meno che invidiabile, status di Colonia della Corona Britannica. Supervisionata in modo diretto dall’imperitura Alexandrina, lady a tutti nota come Queen Victoria, colei sopra il cui corpus non era mai completamente giorno, né poteva tramontare il sole. Esattamente come i precedenti territori dell’Impero Ottomano, da cui l’onomastica latente, erano stati il sangue e il fluido del sultano di turno, a partire dai potenti porti sopra il Corno d’Oro. Eppure nessun impero della storia, per quanto esteso e duraturo, potrà mai rivaleggiare la presenza stolida di appena quattro, cinque tartarughe giganti e i loro discendenti, dinosauri virtualmente immutati attraverso i secoli di orribili tribolazioni… Se non altro per il semplice fatto che cent’anni, per loro, altro non sono che una semplice generazione. Oppure neanche quella, vedi l’esempio di questo singolo animale, ormai sdentato. Che forse non è saggio, né potrebbe scrivere la propria biografia, ma i cui occhi hanno già visto molte, addirittura troppe cose. E chissà quanti ricordi, sotto il guscio a cupola di quel gigante… Dal giorno del suo fato rovesciato, collocato attorno al 1882, quando, secondo le cronache, lui venne caricato su una nave in visita presso l’arcipelago delle Seychelles. All’altro lato del vasto continente africano, nell’Oceano portatore di un diverso nome ed un profumo ricco di misteri. Laddove la grande India, col suo pantheon mitologico e le antiche leggende, talvolta nominava Kurma, tartaruga eterna che sostiene il mondo e forse non soltanto si basava sul semplice sogno di un profeta, ma su casi e cose già verificate all’esperienza degli avventurosi naviganti.
C’era stata infatti un’epoca, o così si dice, in cui simili esseri venivano onorati dal destino. Il rettile senza tempo, simbolo di ciò che sopravvive al regno dei ricordi, libero di deporre le proprie proprie poche uova cuoiose senza nessun tipo di disturbo, più e più volte attraverso il corso della propria vita duratura, privo di un qualsivoglia predatore naturale. Quindi venne il portatore di una fiamma sfortunata, preannunciato dalle bianche vele o dal vapore: era terribile, spietato. Del resto era l’uomo, costui. Si sa per certo che tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo, nessuna carne fosse maggiormente gradita al palato dei bucanieri e gli altri naviganti del Pacifico del Sud, che quella delle silenziose camminatrici erbivore dalle corazze bitorzolute, mansuete ed incapaci di difendersi, poiché mai prima d’allora, ne avevano avuto la necessità. E soprattutto pratiche da gestire, in quanto l’evoluzione le aveva fornite della capacità di giacere immobili dentro una stiva, per settimane o mesi, senza bere né mangiare. Chiuse nel buio di casse silenziose, senza più conoscere il colore ed il sapore della loro erba primordiale. In attesa del crudele, forse ormai benvenuto, colpo della mannaia del cuoco di bordo. Era questa una pratica particolarmente diffusa, sia in questi luoghi circostanti l’Africa che nelle distanti Galpagos, dove risiedeva l’unica altra specie comparabile di tartarughe sul pianeta. Si stima che una singola baleniera inglese, di passaggio presso quell’altro arcipelago, potesse nei fatti rapire anche 500-600 esemplari nel corso della sua carriera, destinati a far le veci di un moderno, enorme frigorifero di carne. E fu forse simile, nelle prime battute, l’esperienza più terribile della sua vita: Jonathan, con allora almeno un mezzo secolo d’età (era insomma, già cresciuto alla sua stazza attuale) che viene condotto via dal territorio dei suoi avi, pungolato forse dolcemente, o magari con un certo grado d’impazienza fino al molo, quindi oltre le murate in legno del vascello incatramato. Chissà che avrà pensato, in quell’epoca precedente addirittura alla nostra rivoluzione industriale, camminando sopra gli assi che dovevano aver conosciuto tanti suoi predecessori. Se si rendeva conto della gravità del suo futuro.

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