L’arca robotica solare, un grande passo avanti nell’allevamento del pollame

Nei primi giorni in cui un nuovo nato veniva trasferito in questo Mondo, il suo primo sentimento fondamentale era quasi sempre lo straniamento. Aquila 3784 si guardò intorno ancora una volta, osservando attentamente la suddivisione dei sette Clan. Nell’angolo anteriore destro, una mezza dozzina di giovani Virgulti si contendevano il posto privilegiato, da cui guidare l’andamento delle moltitudini al momento del Cambio. Tacchino 3829 guidava, come nelle ultime due settimane, la congrega dei sapienti: esattamente ventisei Mediani, circondati dalla pace e dal silenzio, intenti a contemplare le finestre oltre cui pareva estendersi la verde fonte di sostentamento. Il “prato” come usavano chiamarla, coloro che avevano compreso l’intelletto e l’essenziale lingua dei padroni, sormontato dalla chioma delle “stelle”. Presso la regione retrostante del quadrangolo che avevano diritto di percorrere, Aquila tornò con il suo sguardo acuto a contare i condannati tra i Neofiti: Struzzo 3850, Gufo 3852 e Falco 3857. Pulcini troppo deboli, semplicemente, per sopravvivere alla prossima esecuzione del Cambio. Il che significava che entro le prossime 9 ore, vivi o morti, sarebbero stati surclassati dallo spostamento del Mondo. A tal punto risultava prevedibile, la danza cosmica delle pareti che guidavano e determinavano le occorrenze della loro vita, accompagnata da una morbida barriera che poteva divorare ogni cosa. Fatta eccezione per tutti coloro che, raggiunta l’età finale dei Virgulti, venivano direttamente prelevati dai padroni. Molte ipotesi venivano fatte circolare su quale fosse, a quel punto, il loro ultimo destino. Alcuni erano ottimisti, parlando di un Paradiso situato oltre la “siepe” circostante il grande “prato”. Ma una leggenda fatta circolare tra lo stormo, fin da tempo immemore nelle generazioni occorse, parlava di colli tirati, pentole fiammanti ed impacchettamento in cupe scatole, dove la mancanza di ossigeno avrebbe impedito il respiro. La verità era probabilmente… Nel mezzo? Aquila 3784 chiuse brevemente gli occhi, scacciò dalla mente i suoi pensieri. Recitò la parte. Come Mediano all’ottava settimana, sapeva che non gli restava molto in questo Mondo. Tutto quello che poteva fare era brucare il pavimento d’erba e spazzolarlo via dei vermi e appetitose larve, per scacciare via i presentimenti. E preparare le sue agili zampe, volente o nolente, al prossimo Cambio.
La vita del pollame, in un’epoca in cui esiste l’allevamento intensivo a scopo alimentare, non è mai particolarmente diversificata. Ma può avere differenti gradi di sopportabilità. Dall’inserimento in angusti cubicoli, all’interno di aree dove utilizzare i muscoli è oggettivamente raro, fino all’atrofia e conseguente deperimento fisico e mentale. Fino alla condizione dei cosiddetti ruspanti, mantenuti semi-liberi per qualche ora ogni giorno, possibilmente sotto lo sguardo protettivo di un attento Border Collie o cane pastore del Komondor. E poi c’è l’impopolare via di mezzo, quella dei polli fatti “pascolare” all’interno di una camera protetta. Il pollaio mobile o trattore aviario, un tipo di strumento concepito inizialmente negli anni ’60 in Virginia, che richiede olio di gomito, manutenzione, controlli continuativi nel tempo. A meno di utilizzare, come fatto dall’ingegnosa startup Pasturebird, i vantaggi dell’eccezionale tecnologia Moderna…

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Malkoha: il sommesso verso e la sgargiante maschera del cuculo gentile

Camminare dall’albergo fino a quel particolare tratto di foresta, giorno dopo giorno, con la pioggia o con il sole, con il chiasso o col silenzio. La natura può essere stancante: soprattutto quando si possiede l’obiettivo di riuscire a catturare quel particolare scatto fotografico. Di creature più elusive di un fantasma o di una ninfa dei boschi! Dalla Malesia al Borneo, dal Sulawesi allo Sri Lanka, e fino alle Filippine, una cosa soprattutto accomuna i variegati generi del gruppo informale dei malkoha, cuculiformi che quasi ricordano, per colori e fogge del piumaggio, l’estetica magnifica dei pappagalli. E tale cosa è la difficoltà che condiziona i loro avvistamenti; di uccelli schivi, agili, relativamente silenziosi quando non capaci d’imitare il verso di altri pennuti. E che tanto spesso, visti dal basso, non rivelano lo sprazzo di colori che caratterizza le loro sembianze. Ma una volta che si riesce a individuarli, diventano dei portatori di buone notizie. In quanto indicatori di uno stato di salubrità biologica del proprio ambiente, al pari dei più grandi e delicati mammiferi delle aree tropicali del mondo. A partire dalla varietà più conosciuta, benché poco studiata scientificamente, del Phaenicophaeus pyrrhocephalus lungo 45 cm che fornisce il nome comune anche ai propri cugini, il cui significato in lingua cingalese risulta essere “cuculo-fiore”. Dall’aspetto altamente caratteristico del piumaggio della testa, dotata di una maschera rosso vermiglio attorno agli occhi ed un collare di penne puntinate, bianche e nere alla maniera del contrasto dominante tra il petto e le sue ali. Con ben pochi propositi di mimetizzazione, quasi la natura avesse reputato secondario il tentativo di difenderlo dai predatori. Che possono includere rapaci, serpenti e l’occasionale dhole, cane o gatto nel caso delle specie che foraggiano a terra. In qualità di creature onnivore, primariamente in grado di nutrirsi di bacche, semi e germogli ma anche insetti e qualche lucertola, catturate tramite l’impiego degli affilati artigli. Utilizzati anche, in almeno un paio di casi attestati, al fine di difendere il territorio da possibili rivali. Il che risulta ad ogni modo piuttosto raro, trovandoci di fronte a una tipologia di uccelli piuttosto pacifici, e soprattutto inclini a costruirsi da soli il nido. Proprio così: nonostante la qualifica, i principali cuculi dell’Asia meridionale non praticano il parassitismo dei nidi. Non depongono le proprie uova accanto a quelle di madri inconsapevoli. E non si aspettano che i propri piccoli gettino fuori altre piccole vite dal nido, potendo fare affidamento sull’ingenuità dell’innato istinto materno degli animali…

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Dall’Oceania giunge un colibrì gigante, che sugge nettare ma canta come un pappagallo

È il tipo di abbeveratoio in plastica rossa e trasparente appeso tanto spesso nelle Americhe, dai possessori di giardini amanti degli uccelli. O più semplicemente, dell’imprescindibile bellezza della natura: non è facile riuscire a immaginare, in effetti, qualcosa di più splendido di schiere di Trochilidi, gli uccelli cosiddetti Apodeiformi, che fluttuano leggiadri grazie al battito ultra-rapido delle proprie ali cangianti. Lo stesso oggetto che possiamo ritrovare, fuori e dentro la campagna, con la massima concentrazione tra Wellington ed Auckland (Isola del Nord) essendo come un faro nella notte per coloro che perennemente cercano una fonte di nutrimento. A ben vedere tuttavia, tale orpello appare in questo continente di una dimensione almeno raddoppiata, volendo essere il punto d’approdo per un differente tipo di pennuto, il cui punto di contatto principale è la dieta. Benché a ben guardare, con la luce in posizione obliqua, esso appaia non del tutto privo di una qualità cangiante, tendente al verde, marrone ed azzurro, frutto di strutture nelle piume invece che dei semplici pigmenti, affine agli agguerriti volatori del Nuovo Mondo. Fatta eccezione per il curioso ornamento bianco e tondeggiante formato da due piume sotto il collo. Eppur non fluttua in posizione librandosi il tūī (nome nativo) o Prosthemadera novaeseelandiae (nome latino) anche e soprattutto per il peso di 65-150 grammi, conseguenza della sua lunghezza pari a un massimo di 32 cm che risulta sufficiente a farne un passeriforme dalle dimensioni medio-grandi. Preferendo piuttosto posarsi ed aggrapparsi ai rami, spesso anche in posizione capovolta, mentre immerge il proprio becco curvo nella dolce coppa floreale o i frutti appesi all’albero bersaglio. Quando non esprime tutta la sua arte, nell’emettere una straordinaria serie di vocalizzazioni, più complesse e realistiche anche di quelli prodotti da una myna, quel leggendario cantore aviario proveniente dal subcontinente indiano. Per non parlare dei “comuni” pappagalli, la cui potenza in termini di decibel potrà anche risultare superiore. Ma senz’altro non potrebbero, in maniera veramente convincente, inseguire la gamma udibile dell’eloquio umano. Laddove uccelli come questo riproducono in maniera convincente: canzoni, poemi, spiegazioni, discorsi. E addirittura il colpo di tosse occasionalmente prodotto dai loro connazionali umani, ancorché tale suono sembri essere per puro caso (?) una parte innata del repertorio comunicativo tra i propri simili in natura. Oltre che il sistema per marcare ed identificare il territorio di foraggiamento e costruzione del nido, che tendono a difendere con straordinaria aggressività, giungendo ad attaccare le agguerrite gazze e addirittura grossi psittacidi dal becco ricurvo, considerevolmente più grossi ed imponenti di loro. Un altro potenziale terrore, insomma, per i motociclisti locali. Abituati a scansare o sopravvivere alle reiterate picchiate di alcuni tra i più graziosi, eppure persistenti persecutori piumati…

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Pareti millenarie della grotta che ospita la prima raffigurazione di un porciglione mannaro

Una delle credenze alla base dell’antico sistema religioso dei San, l’etnia sudafricana oggi identificata con il termine ad ombrello di boscimani, era che gli sciamani, uomini della pioggia o guaritori potessero cambiare le proprie sembianze, ogni qualvolta lo desideravano, in creature animali di varia tipologia o natura. Un potere non distinto dall’ordine primordiale delle cose, bensì strettamente intessuto ad esso, tanto da poter costituire una via d’accesso al regno superno degli spiriti e degli antenati: canti, danze o un preciso copione d’invocazioni portavano lo stato di meditazione fino alle più estreme conseguenze. Quindi, al sollevarsi della Luna, anche l’anima lasciava il corpo del praticante. Reincarnandosi temporaneamente in quella di tutt’altra creatura. È per questo che nel corso dell’esplorazione archeologica delle principali catene montuose dell’area delle Drakensberg e di Lesotho, è stato possibile quantificare in diversi anfratti l’effettiva conoscenza ecologica di queste persone, attraverso le figure tracciate sulla pietra, con pigmenti di origine animale o vegetale, di agenti presso il regno sovrannaturale, per metà persone e per metà… Dipende. Non è semplice facile capirlo: nelle membra che si fondono a diventare ali, code, pinna e corna non è infrequente che sussistano caratteristiche riconducibili a specifiche famiglie, persino generi di creature. Ma era del tutto inaudito, fino all’ultimo studio scientifico pubblicato sull’argomento, che risultasse possibile comprendere l’esatta specie di un determinato soggetto animale.
Eppure questo fanno, nell’articolo di fine agosto (vedi) pubblicato sulla rivista Rock Art Research, Charles W. Helm, Andrew Paterson e Renée Rust dell’Università Nelson Mandela, nel catalogare le figure individuate in una nuova caverna nella regione Langeberg/Outeniqua, situata ad est del fiume Gouritz. Per le evidenti caratteristiche di quello che si presenta come un uccello con prevedibili tratti antropomorfi, ma anche una forma, proporzioni e soprattutto una livrea delle sue piume chiaramente riconducibili ad un particolare tipo di rallide o porciglione, piccolo uccello gruiforme dalla forma particolarmente sfinata, la cui conoscenza sarebbe stata formalizzata in Occidente non prima del 1773, attraverso un dipinto ad acquerello del naturalista Georg Foster, in viaggio verso l’Australia assieme al grande esploratore James Cook. Ecco dunque il Rallus caerulescens, traformato nell’evidente prova di una conoscenza indigena della natura in merito a questioni osservabili con oggettività, cronologicamente antecedente forse di secoli, se non millenni rispetto a quella dei più colti tra i coloni europei delle terre d’Africa meridionale. L’indiscutibile affinità con coloro che vennero prima, i pervasivi e onnipresenti esseri creati da Kaggen, il demiurgo supremo…

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