Creazione, distruzione: nella stessa essenza del rapporto filosofico tra uomo e natura, esiste un equilibrio che agevola la realizzazione di concetti ed obiettivi realisticamente perseguibili, mediante la trasformazione delle condizioni inerenti. Così l’odierno amante di animali e ambienti tropicali può anche lamentarsi, vocalmente o per iscritto, delle attuali propensioni dell’ecozona che ospita la maggior parte dei paesi del primo mondo. Ove spazio e industria sono, ormai da plurime generazioni, dei sinonimi possibilmente intercambiabili, a discapito di ciò che era al tempo in cui foreste ricoprivano il terreno dell’attuale mondo urbano ad ampia densità abitativa. Ma è possibile odiare quel particolare sfruttamento, amando nel contempo i massimi traguardi dell’architettura e dell’artigianato pre-moderno? Giacché porre le basi di un qualcosa di attraente sottintende, in maniera imprescindibile, sfruttamento. “Perciò tanto vale” afferma l’ideale boscaiolo di un tempo “Lavorare con scaltrezza, piuttosto che duramente.”
La capitozzatura è dunque la creazione del perfetto mostro di Frankenstein vegetativo. Un albero in cui ogni centimetro serve essenzialmente ad uno scopo! Pur restando, in condizioni ideali (i.e, che ogni cosa sia stata fatta in modo corretto) vivido e persino longevo al di là della sua innata predisposizione. Allorché gli eredi professionali di tale antica prassi, armati di attrezzature adatte e abbondante olio di gomito, rimuovono ogni ramo al di sopra della prima biforcazione, lasciando solo il tronco sovrastato da quel capitello legnoso, che parrebbe suscitare per l’appunto la sagoma di una testa. Un affronto visuale per molti, soprattutto quando praticato senza uno specifico ed abile criterio, ripetuto molte volte fin dalla giovane età della pianta. Come avveniva, tradizionalmente, in plurime regioni dell’Europa medievale e non solo, al fine di disporre di legna di ardere e cibo per il bestiame qualora le fonti alternative non fossero risultate sufficienti. Ben sapendo di poterlo fare ancora e ancora, dopo il trascorrere di un tempo raramente superiore ai 6 anni. Questo perché vi sono specie ad alto fusto, particolarmente il salice (Salix) ma anche il gelso (Morus) il castagno (Aesculus) e il tiglio (Tilia) che una volta sottoposti all’eliminazione sistematica della loro fondamentale fabbrica di clorofilla, piuttosto che soccombere attivano un meccanismo di sopravvivenza particolarmente evoluto. Che li porta ad attivare gemme nascoste stimolando una crescita esponenziale ed un ritorno rapido alla situazione di partenza. Affinché il diffuso mammifero a due gambe, con le sue alte scale ed affilate seghe, possa reiterare l’incessante crimine della sua persistente esistenza. Con che guadagno? Dipende…
tronchi
La tecnica desueta per costruire un acquedotto dai tronchi di pino
Convivere implica efficienza e le indistinte collettività attraverso i secoli, anche quando l’inerente umidità poteva risultare abbastanza, non si sono mai davvero accontentate di una pioggia ogni tanto. Poiché un conto è l’acqua che ricade dalle nubi tempestose, un altro è quello stesso fluido incamerato e veicolato come linfa di un sistema di distribuzione, del tipo che i Minoici, prima di chiunque altro, seppero costruire nel mondo antico. Per un labirinto sopra il suolo ed un secondo, in terracotta, in grado d’irrigare i bagni dei palazzi e residenze dei più affermati rappresentanti del potere supremo. Laddove già gli antichi Romani, tra le loro opere d’ingegneria profondamente rinomate, donarono alla gente l’acquedotto e ad irradiarsi da quel valido sentiero sopraelevato, fin dalle acque sorgive delle montagne disabitate, implementarono un sistema di condotte dell’ultimo miglio, create da diversi materiali attentamente selezionati allo scopo. Uno di questi era notoriamente il piombo, secondo alcuni responsabile dell’avvelenamento e conseguente degrado cerebrale di svariati Imperatori. Ed un altro decisamente meno problematico, il semplice legno prelevato in modo molto pratico da dove ce n’era ancora in abbondanza: le dense foreste della macchia mediterranea. Trascorsero i secoli e molto cambiò dal punto di vista tecnologico. Ma non questo: così fino alla fine del Medioevo, ancora nel Rinascimento e persino agli albori dell’epoca Moderna, vaste realtà cittadine continuarono a servirsi delle tubature in legno. Con particolare rilevanza in tal senso per gli insediamenti coloniali del nord-est degli Stati Uniti, storicamente e geograficamente collocabili nel punto antecedente all’invenzione di approcci moderni, in un luogo in cui l’abbondanza di alberi alti e forti superava di gran lunga le aspettative di qualsiasi altro territorio. Ecco allora come, ad oltre due secoli e mezzo distanza, le squadre addette alla manutenzione idrica si trovano a dissotterrare di tanto in tanto, in quel di Boston, New York ed altre città simili, interi tratti di acquedotto che sarebbero perfettamente a loro agio nell’alto capanno di una segheria. Qualche volta ancora in uso prima di essere scoperti e localizzati. Nei casi limite, ad un tal punto funzionali, che l’unica cosa da fare una volta effettuata la riparazione richiesta, è controllare i punti di raccordo e lasciarli dove sono, a svolgere quella mansione multi-secolare per cui erano stati originariamente posizionati. (Se non vengono tirati fuori e posti nelle sale di un pertinente e altrettanto spazioso museo).
Cosa potrebbe mai causare, d’altronde, il degrado sotterraneo di un tronco il cui interno è stato preventivamente svuotato? Nei profondi ambienti ctoni ove l’ossigeno non penetra, e gli insetti xilofagi non hanno l’opportunità di sopravvivere in alcuna immaginabile maniera. E l’acqua scorre, libera ed eterna, fino all’ideale fonte dei nostri candidi e magnifici lavandini…
Il tronco striato che solleva in mezzo ai monti l’orgoglio botanico colombiano
Nel novembre del 1901, all’apice dell’estate meridionale, il barone tedesco Alexander Humboldt si trovava in Sudamerica, intento ad espletare la sua ferma convinzione a spendere la corposa fortuna ricevuta in eredità dalla madre per migliorare ed ampliare la comprensione scientifica di questo mondo. Viaggiando con l’amico e collega naturalista Aimé Bonpland, ex chirurgo dell’esercito francese, era giunto nei possedimenti coloniali d’Oltremare attraverso le Canarie e poi da lì a Cumanà, in Venezuela, mancando di poco l’ingresso nella zona colpita da una grave epidemia di tifo. Avendo già rischiato, inoltre, un piccolo naufragio alla rottura dell’albero della fregata spagnola che li aveva trasportati in quel porto, i due decisero di affrontare ulteriori e significative peripezie, inoltrandosi via terra in direzione di Cartaghena, per attraversare le Ande armati dei numerosi dispositivi che avevano con se al fine di raccogliere campioni di piante, semi, rocce e misurare la posizione delle stelle in cielo. Fino all’arduo percorso in direzione del vulcano colombiano Puracé dove il barone intendeva dimostrare il predominio di specifiche famiglie vegetali oltre i 2.000 metri d’altitudine nel contesto sudamericano. Un percorso difficile, da affrontare con il solo accompagnamento di un treno di muli e le possenti guide native, in grado di sollevare a più riprese i viaggiatori e trasportarli letteralmente a braccio, tramite l’impiego di speciali selle adattate dall’uso equino. Fu proprio in tale contingenza dunque, che per la prima volta gli studiosi europei videro con i propri occhi quello che sarebbe immediatamente diventato, all’epoca, l’albero più alto del mondo conosciuto. All’inizio del XIX secolo in effetti non erano ancora stati descritti scientificamente i colossali eucalipti australiani o le sequoie della California, ponendo le svettanti monocotiledoni del genere Ceroxylon, anche dette più semplicemente palme da cera, all’assoluto apice dei rapporti di scala degli arbusti, con i propri 40-60 metri d’elevazione da terra. Distribuiti in modo alquanto caratteristico, vista la presenza nella fase della vita adulta di un tronco totalmente scarno e privo di alcun tipo di fronda, sormontato da un singolo pennacchio a forma d’asterisco, le cui foglie lunghe e strette possono arrivare a misurare i 5 metri di lunghezza. Struttura colonnare, per di più, caratterizzata da una superficie esterna inconfondibile ove le foglie precedenti si sono staccate, lasciando segni neri orizzontali che ricoprono letteralmente l’intera progressione lignea, difesa dall’attacco dei parassiti grazie al significativo strato resinoso, in realtà più simile a una cera, che caratterizza in modo specifico questa intera categoria di piante. Con un ruolo di preminenza spettante, per chiare ragioni, alla maggiore di tutte, la C. quindiuense, capace di prosperare attivamente tra i 2.000 e i 3.100 metri d’altitudine, dove la maggior parte degli arbusti evita semplicemente di mettere le proprie radici. Traendo fonte di sostentamento, in parallelo, dal suolo nutritivo e la limitata umidità dell’aria, catturata là, dove corre incessante il vento…
Irsuta come l’osso, fungina panacea contro il declino delle cellule cerebrali?
La ricerca terrena dell’immortalità fu da sempre un punto cardine di molte discipline filosofiche orientali, agevolando potenzialmente l’integrazione culturale di particolari utili, per quanto rari ingredienti. Volendo approfondire per esempio la vicenda del fungo Hericium erinaceus, alias barba di porcospino, criniera di leone o testa di scimmia, potrà risultare sorprendente scoprirne la distribuzione nativa capace di estendersi lungo l’intero emisfero settentrionale, sia nel Vecchio che nel Nuovo mondo. Poiché come mai, allora, esso risulta largamente trascurato come pietanza o base medicinale in buona parte di essa? Fatta eccezione per l’Asia Orientale, dove risulta noto in Giappone come yamabushitake grazie all’uso tradizionalmente documentato nel caso dell’eponima setta di monaci montanari, devoti alla loro religione sincretistica che coniuga il buddhismo e lo shintoismo isolano. E soprattutto praticanti di speciali discipline o regimi finalizzati a mantenersi in salute per un tempo più lungo possibile, nei quali la raccolta e l’utilizzo del distintivo corpo fruttifero di questa forma vegetativa non può fare a meno di costituire uno dei pilastri fondamentali. Alti e massicci come gli alberi viventi, abeti, pini ed aceri, sulle cui cortecce cresce abbarbicato nella forma di un pom pom color nevoso, curioso ed invitante nella sua surreale condizione esteriore. Trattandosi, nei fatti, di un tipo di micelio epifita ovvero in grado di sfruttare le sostanze nutritive delle piante più grandi, che tende ad attaccare al profilarsi di una ferita o altro tipo di apertura nella scorza protettiva delle loro ruvide cortecce. Non che ciò mancasse, già in epoca storica, di avvenire anche nel Nord America dove tuttavia l’Hericium in questione, come molti altre specie fungine appartenenti allo stesso genere, era tenuto ben lontano dalla dieta dei nativi, con gli eschimesi Inupiat dell’Alaska in modo particolare inclini ad attribuirgli l’appellativo largamente immotivato di “cosa che (ti) fa cadere le mani”. Per quale ragione non è del tutto chiaro, anche vista l’assenza di specie velenose esteriormente simili alla testa di scimmia dall’aspetto largamente inconfondibile nonché facile da individuare nel sottobosco. Una casistica probabilmente dovuta a pregresse esperienze negative particolarmente sfortunate, laddove le sostanze chimiche contenute nell’ingrediente in questione difficilmente potrebbero causare reazioni negative nell’organismo umano: diterpenoidi, polichetidi ed oltre 70 diversi metaboliti scoperti fino ad ora, dotati anzi di significativi effetti antiossidanti e cosa ancor più rara, alcune doti provate scientificamente di neuroprotezione ed agevolazione del NOR: il fattore di rigenerazione delle cellule cerebrali. Potendo in altri termini estremamente contestualizzati e condizioni molto particolari, allontanare l’invecchiamento…