Lo splendore vichingo di una chiesa di legno

Secondo una leggenda, il sistema architettonico delle chiese a pali portanti sarebbe nato quando l’agricoltore Raud Rygi, assieme ad altri quattro coabitanti del suo villaggio nella municipalità di Notodden, decise che era il momento di dotare il paese di un nuovo tipo di luogo di culto. Alto, maestoso, creato per venerare il nuovo Dio proveniente dal meridione, accompagnato sin qui per la prima volta dai sacerdoti missionari del re di Norvegia Olav Haraldson (regno: 1015-1030) che con gran risonanza aveva deciso di abbandonare i vecchi metodi e la Via del Valhalla. Certo, cambiare i metodi di un intero popolo non è semplice. Ma lo diventa tanto maggiormente, quanto più gli si permette di mantenere una parvenza di continuità col passato, mantenendo stili, luoghi di culto e fattori esteriori sulle linee guida disposte dagli antenati. Occorreva, tuttavia, un nuovo filo conduttore architettonico. E il buon Raud l’avrebbe trovato, così si racconta, dall’incontro con un misterioso straniero incappucciato che incontrò alla locanda del suo paese. Individuo senza un’identità definita, che di sua spontanea iniziativa gli si avvicinò e disse: “Così, volete costruire una casa per nostro Signore. Io posso farlo per voi in un periodo complessivo di tre giorni, a patto che una qualsiasi delle seguenti condizioni sia realizzata: prima ipotesi, portami la Luna ed il Sole. Seconda, donami tutto il tuo sangue e terza, indovina il mio nome.” Come in innumerevoli racconti di patti stretti con esseri sovrannaturali, il contadino pensò che la terza missione non fosse troppo difficile da completare, e così diede l’Ok all’inizio dei lavori. Con suo supremo stupore e preoccupazione, tuttavia, l’intera quantità dei materiali necessari alla costruzione furono portati presso lo spiazzo dello hog pagano pre-esistente nel corso di una sola notte, la seconda erano stati erette le quattro mura e nel corso della notte successiva, la chiesa sarebbe stata completata. Raud allora, temendo per la sua vita, andò a passeggiare pensierosamente per le montagne. E fu allora che, come per l’effetto di un miracolo, udì una canzone di donna: “Fai silenzio figliolo / domani Finn ti porterà la Luna ed il Cielo / ti porterà il Sole ed un cuore cristiano / dei bei giocattoli perché il mio fanciullo possa giocare un ruolo.” Meditando sulla strana nenia, Raud comprese che lo straniero poteva soltanto essere un troll e che qualcuno, dal regno del Paradiso, doveva averlo aiutato. La mattina dopo la chiesa era finita, e Raud si recò a visitarla con il misterioso individuo. Mentre quello gli illustrava l’ampiezza della navata, quindi, il contadino corse ad abbracciare uno dei pilastri portanti ed esclamò: “Ehi Finn! Questo palo non è diritto.” Istantaneamente, l’altro rispose “Io potrei essere ancor più contorto!” E con un rapido movimento del suo mantello, fece una piroetta e se ne scappò via. Successivamente Finn Fagerlokk, abitante da tempo immemore della montagna di Svintru, si trasferì altrove. Pare che non potesse sopportare il suono delle campane. Nonostante questo, prima di scomparire definitivamente dal mondo, avrebbe giocato lo stesso ruolo nell’edificazione di altre tre chiese: le cattedrali di Nidaros, di Lund e la parrocchia di Avaldsnes.
Certo è che le chiese medievali della Norvegia, chiunque sia stato a costruirle, non hanno un aspetto direttamente paragonabile a quello del resto d’Europa. Con una forma e soluzioni architettoniche affini allo stile Romanico, quali l’arco, il pilastro, la colonna e la volta ma già la forma appuntita e la ridondanza degli absidi goticheggianti, in un’espressione strutturale che qui aveva uno scopo per lo più funzionale dovuto ai molti centimetri di neve che cadevano ogni anno. Spesso cupe come la pece che le ricopriva, e ricche di elementi decorativi intagliati direttamente mutuati dalla tradizione vichinga, quali figure di piante ed animali, esse erano soprattutto, completamente in legno, come un tempio buddhista o dedicato ai kami ancestrali del distante Giappone. Ma il materiale, in questo caso, proveniva da un tipo di abete molto resistente chiamato malmfuru, oggi ritenuto estinto ed affine a quelli del Pacific Northwest statunitense. Quindi si passò al pino silvestre, la betulla e il ginepro, a seconda delle necessità strutturali di ciascun componente. Affinché il legno durasse più a lungo, gli arbusti venivano trattati con una procedura che prevedeva la rimozione dell’intera corteccia mentre l’albero era ancora vivo, affinché morisse in maniera lenta e restasse intriso di linfa indurendosi in maniera estrema. Il legno veniva in seguito fatto stagionare e poi tagliato secondo le necessità. Nella versione più tradizionale delle chiese con pali portanti, chiamata stolpekirke, i quattro pilastri venivano piantati direttamente nel terreno, a partire dai quali un sistema di sostegni orizzontali simili a stipiti (veggtilene) veniva impiegato come sostegno per le pareti ed il tetto. Tale approccio, tuttavia, si rivelò fallimentare, poiché l’umidità del suolo penetrava negli elementi verticali, portandoli a marcire dopo appena un paio di generazioni. E di questo primo periodo, in effetti, non ci è giunto neppure un singolo esempio che sia lasciato integro dal passaggio del tempo. Quasi immediatamente, tuttavia, i costruttori norvegesi appresero l’artificio di collocare i pali su una piattaforma rialzata, o ancora meglio fare in modo che poggiassero su quattro pietre dalla superficie ampia e piatta. Questa fu l’epoca d’oro delle stavkirke, la nuova versione degli edifici, in cui veniva generalmente prevista una singola navata, con un semplice tetto sostenuto da travi a forbice. Ma ad un certo punto, i costruttori iniziarono a farsi maggiormente ambiziosi…

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La precaria città delle cabine volanti

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Nelle parole di Vakhushti, principe del regno di Kartli e rinomato studioso viaggiatore, nel XVIII secolo Chiatura non era altro che: “Una roccia che si erge nel crepaccio come un pilastro, notevolmente alta. Sopra di essa c’è una chiesa, ma nessuno è più in grado di salirci, né saprebbe come farlo.” E quanto fosse effettivamente antica una simile struttura umana, sopra quella geologica praticamente senza tempo, nessuno saprebbe esattamente dirlo. Esiste però una teoria, secondo cui la lingua, e con essa l’identità nazionale dell’intera Georgia, andrebbero fatte risalire proprio a questo luogo, tra le antiche incisioni in Mrgvlovani (l’alfabeto “tondo”) realizzate su una lastra in pietra calcarea dai pochi, silenziosi monaci che vissero isolati quassù, almeno fino all’epoca delle invasioni Ottomane. Ma era un simbolo legato ad un’importante tradizione, questo monolito alto 40 metri svettante sopra il fiume di Katskhura, uno degli affluenti del vorticoso Q’virila, legato al concetto della vita ultraterrena e della Vera Croce. Così, col trascorrere degli anni, alla sua base sorse una piccola comunità religiosa, che avrebbe attratto, nel 1879, anche il poeta Akaki Tsereteli. Il quale durante un’escursione, per puro caso avrebbe scoperto sopra le montagne circostanti, preziosi depositi di manganese, un elemento usato in molti campi della metallurgia. E fu così, nel giro di appena 16 anni, in questo luogo fu fatta giungere la ferrovia, ed a poca distanza dal pilastro venne costruita in primo luogo una miniera, quindi, tutto attorno, la città.
Ai tempi della Rivoluzione Russa del 1905, Chiatura era un importante centro minerario con almeno 3.700 addetti all’estrazione, che ogni giorno dovevano arrampicarsi sulle ripide pendici del dirupo, per raggiungere le alte aperture che conducevano nel sottosuolo. In quello stesso anno, un giovane idealista in fuga dalle autorità si presentò ai monaci che qui avevano costituito la loro residenza, in un appassionato discorso di 15 minuti che riuscì a convincerli e portarli alla sua causa, al punto da guadagnarsi la nomina ipso facto di sergente maggiore, e la costante protezione di una squadra di milizia popolare soprannominata “guardia rossa”. Il nome di quell’uomo era Joseph Stalin, e questo luogo, per i pochi anni che mancavano alla caduta degli zar, sarebbe diventata la sua prima roccaforte. Per tutta l’epoca del suo dominio, quindi, egli si sarebbe ricordato della piccola città georgiana, dando disposizioni occasionali affinché essa ricevesse molte significative opere pubbliche, il meglio dell’urbanistica moderna, e soprattutto, un particolare servizio di trasporti pubblici, che potremmo definire senza alcun problema unico al mondo: 22 distinte funivie, in grado di risolvere il problema della quotidiana scalata da parte dei minatori. Il progetto non si sarebbe realizzato, ad ogni modo, se non dopo l’epoca della sua morte, quando verso la metà degli anni ’50 venne ultimata l’ultima stazione del servizio, e gli urbanisti del partito, soddisfatti dell’opera svolta, non avrebbero di nuovo fatto rotta verso la distante capitale moscovita.
Così la ruota gira, ed il tempo passa per tutte le cose. Oggi, delle originali cabine volanti ne restano operative esattamente 17. Scrostate nella verniciatura e consumate dalla ruggine, oscillanti nel vento, residuato affine a quello di molti altri luoghi di un’epoca di più significativo ottimismo, battuta dal Sole entusiastico dell’avvenire. La popolazione locale le ha soprannominate “bare di metallo” eppure, questione indubbiamente sorprendente, continua quasi quotidianamente ad usarle, per il semplice fatto che non c’è un modo migliore, allo stato attuale dei fatti, per raggiungere le pendici soprastanti ed andare finalmente a lavorare. Nei caratteristici edifici religiosi circostante, una fervente comunità rinnova costantemente le proprie preghiere. Viene da chiedersi se non sia proprio questa, l’unica ragione per cui è ancora non si verifica l’irreparabile tragedia.

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L’uomo che da 53 anni costruisce la sua cattedrale

Justo Gallego

“Un edificio così, posso tirartelo su in… 144 ore, esattamente sei giorni. Ed il settimo ci riposiamo” Ah, si. La modernità! Che consente ad un’impresa, del tipo maggiormente rappresentativo di questa realtà dell’edilizia, di costruire un qualche cosa a pezzi, nelle incandescenti acciaierie e gli stabilimenti di lavorazione cementizi. Quindi caricarlo su dozzine di camion, raggiungere la posizione pre-determinata e con un gran dispiegamento di uomini, di mezzi e attrezzature, rendere reale il fabbricato, così. Ci sono aziende prevalentemente cinesi che, negli ultimi anni, si sono ferocemente combattute al fine di creare il palazzo più alto nel più breve tempo possibile (40 piani in 4 giorni, 120 piani in 10 giorni!) dimostrandosi potenze rilevanti nella progressiva inurbazione delle masse popolari un tempo disagiate. Il mondo cresce, l’ha sempre fatto e non potrà mai smettere di farlo. Tanto che sarebbe possibile, allo stato dei fatti attuali, replicare da una luna piena all’altra un qualunque tra le più grandi opere architettoniche del passato. Eppure, in quale modo queste sarebbero la stessa cosa? Nell’aspetto? Possibile. Nella limitatezza di funzioni e convenienza? Forse, ma non credo. Nello spirito? Impossibile! Non tutto quello che lo rende meritevole di essere abitato, merita di essere privato del suo originario quantum di complessità.
Don Justo Gallego Martínez è l’ex cistercense di matrice trappista, con 8 anni trascorsi presso il monastero di Santa María de Huerta nella provincia di Soria, che da quando ne aveva 36 ha fatto ritorno nella sua nativa Mejorada del Campo, una cittadina sul confine di Madrid. Con una finalità davvero particolare: mettere a frutto in modo pratico quanto da lui appreso come costruttore autodidatta, attraverso la lettura di alcuni vecchi tomi sull’architettura dei latini e del Rinascimento, al fine di costruire un edificio di 20×50 metri, con superficie di 8000 metri quadri. Dedicato, molto chiaramente, a Dio. Ma andiamo…Con ordine. Dalla ricca selezione di testimonianze reperibili online, è possibile ricostruire almeno in parte la vita e le esperienze di quest’uomo totalmente fuori dalla convenzione: Gallego Martinez nasce nel 1925, in una famiglia molto cattolica di agricoltori e proprietari terrieri. Ciò gli fornisce, fin da subito, ottime prospettive di una vita agiata, condizione che tuttavia non sembra soddisfarlo. Così egli decide, attorno al 1953, di intraprendere il sentiero della vita monastica, per meglio perseguire la profonda spiritualità del suo sentire. I suoi colleghi del monastero, tuttavia, non sembrano approvare il suo modo di essere, che lo portava ad essere schivo, poco loquace, per quanto possibile persino solitario. Don Justo dedica le sue giornate al solo studio e alla preghiera, rivolgendo appena la parola ai conviventi, finché non capita una fatale evento che accelera il momento di rottura: nel 1961, poco prima di pronunciare i voti definitivi, egli si ammala di tubercolosi, e deve temporaneamente lasciare il monastero di Santa María. Portato d’urgenza all’ospedale di Madrid, inizia un periodo di dura degenza, durante il quale, tra i patémi della malattia, giura: “Se Dio vorrà guarirmi, cambierò il sentiero della mia vita. E la dedicherò completamente a Lui!” Nel frattempo la madre, fervente religiosa, non ha dubbi di sorta: la malattia non è che un contrattempo, i monaci hanno in realtà rifiutato suo figlio e non vorranno più riaverlo indietro. Intuizione che si rivela di lì a poco un’assoluta verità, quando Don Justo, finalmente guarito, sceglie o in altri termini è costretto a trasferirsi col cognato e la sorella, che gli sarebbero rimasti vicini per il resto della vita. Lungi dal perdersi d’animo, quindi, inizia il periodo più profondo di auto-documentazione della sua vita, durante il quale impara da autodidatta i mestieri del muratore, dell’architetto e dell’ingegneria. O per meglio dire, si costruisce nella sua mente una serie di equivalenze, indubbiamente semplificate, di ciascuna secolare disciplina, per poter disporre finalmente di strumenti validi alla realizzazione del suo sogno. Ad un certo punto duro e inevitabile, quindi, gli succede di ereditare le proprietà dei genitori, inclusive di numerosi terrieri agricoli attorno alla città di Madrid. La maggior parte li vende, alcuni li dà in affitto, soltanto uno sceglie di tenerlo per se, nell’area sempre meno rurale dei sobborghi di Mejorada. Nei mesi successivi, con sommo stupore dei vicini di casa, sopra quel suolo iniziano ad accumularsi mucchi e mucchi di mattoni.

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