Pendolare stanco del tragitto si costruisce un aereo

frantisek-hadrava

La trasferta lavorativa è faticosa. Per certi versi, addirittura innaturale. Perché ti pone in un limbo intermedio, tra lo svago e la tua professione, durante il quale non rispondi ad alcuna delle tue necessità. La sveglia che suona troppo presto, un rapido caffè, una corsa in bagno per lavarsi i denti. La scelta dei vestiti e poi, col freddo del mattino che ti entra nelle ossa, la discesa fino al luogo in cui si trova l’auto, coi vetri che si appannano per il gradiente di temperatura. Un gran sospiro, il mezzo giro della chiave, ed il ricordo di quell’entusiasmo ormai perduto: “QUESTO è ciò che voglio fare. 30, 40 Km da casa? Dopo una settimana o due, mi sembreranno la metà. Quindi molto presto smetterò persino di pensarci!” È una cosa fantastica, la mente umana. Perché assume nuovi ritmi sulla base delle tue necessità. Ma dalla ripetizione può nascere la noia. Ed a quel punto è il corpo, a risentirne. Sono certo che in molti l’abbiano provata, quella sensazione di essere un navigatore dello spazio siderale. Che al principio di ogni giorno, nella sua cabina di comando, supera Marte, Giove, Saturno, verso la luna di Titania, alla ricerca dell’ufficio che orbita il pianeta Urano. Perché fuori dalla tua cabina non c’è nulla, meno che mai l’ossigeno, e ogni altro veicolo è un nemico alieno sul semaforo, che tenta di rallentarti in qualche modo. Certo, a tutto ci si abitua. Ma quel tutto, successivamente, non può che avere un prezzo. I cui interessi, da quel giorno fino alla pensione (se sei molto fortunato) bene o male pagherai. A meno che…
È la fondamentale verità che un giorno riuscirai a far emergere dalla foschia del tempo, se sarai davvero fortunato: mentre ti sposti da casa a lavoro, è la solitudine il tuo segno zodiacale. Più completamente ed assolutamente di quanto ti sia mai capitato nell’intera vita passata, presente e futura. E anche se dovrai guidare, per il resto, sarai LIBERO dagli altrui preconcetti, ASSOLTO dai problemi, leggero, leggiadro, aerodinamico. Con coda rigida e un bel paio di alettoni. Con la cloche meccanica e una generica strumentazione di base. Come Frantisek Hadrava, l’operaio di una fabbrica metallurgica della Repubblica Ceca, che lavorando presso il comune di Zdikov, ma vivendo in aperta campagna, doveva ogni giorno percorrere una strada lunga 16 Km, richiedente un tempo approssimativo di 14 minuti. Non proprio lunghissima, diciamo la verità. Ma si sa che la sofferenza interiore, come il dolore fisico, è del tutto soggettiva. Così non sarebbe meglio, forse, mettercene solo la metà? Fast-forward un paio di anni. L’uomo esce di casa, per la prima volta da parecchio tempo, col sorriso. Il Sole è alto in cielo, le nubi rade e l’aria limpida più di quanto sembri esserlo stato da generazioni. Hadrava apre la porta della sua rimessa e tira fuori Vampira. Questo il nome del velivolo in questione, in grado di raggiungere i 146 Km/h consumando 6 soli litri di carburante l’ora. Il tutto con un costo dichiarato di appena 3.700 euro.
Legno sopratutto. Qualche parte in alluminio. Il duro acciaio del motore radiale, commercializzato dalla Verner, azienda cecoslovacca fondata nel 1993. Mentre la carlinga dell’aereo pare, sotto tutti gli aspetti rilevanti, un prodotto dell’azienda statunitense Mini-Max, specializzata nella produzione di ultraleggeri a motore con controllo a tre assi (ovvero a tutti gli effetti, aerei da turismo in miniatura). Questo sembra ma in effetti non lo è: tutto ciò che vedete, qui, è stato prodotto in casa dal solo ed unico pilota. E se questa non è una vera garanzia di qualità… Ascolta: dopo tutto, è tanto folle come idea? Ci affidiamo ogni giorno, come autisti ma anche in qualità di passeggeri del trasporto pubblico, all’opera di grandi compagnie, che dalle loro catene di montaggio sfornano una quantità suprema di veicoli. Pur essendo composte, innegabilmente, da esseri umani. Perché mai uno soltanto di noi, con un tempo a lungo termine a disposizione, non dovrebbe riuscire a garantire lo stesso livello di qualità? Considerate pure, che non stiamo certo parlando di un assoluto principiante del settore, anzi…

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La leggenda del carro armato senza testa

Swedish S Tank

Nascosto tra gli alberi di conifere, semi-sepolto nella terra di brughiera, un solo ed unico cannone avrebbe atteso l’avanzata del nemico. Basso, coperto da un telo mimetico, praticamente invisibile da una distanza superiore ai 200 metri. Dentro la casamatta corazzata, tre addetti ben addestrati, di cui due rivolti in avanti e l’altro in direzione totalmente opposta, ciascuno dotato dei più moderni visori termici e altri strumenti di rilevamento. Artigliere, servente/addetto radio, capitano: niente di così diverso dall’equipaggio di un comune bunker anti-carro, edificato sui confini di un paese che, per sua sfortuna, confinava con i suoi avversari storici più temuti. Con una significativa differenza dalla tradizione: l’occhio attento di una spia, assai probabilmente, l’avrebbe notato pressoché immediatamente: la bocca di fuoco da 105 mm di cui è dotato l’implemento misterioso, un cannone della BOFORS allo stato dell’arte, risulta incastrato saldamente tra le piastre d’armatura frontale, inclinata e spessa fino a 337 mm. Non soltanto, dunque, esso non può ruotare, ma neppure modificare l’alzo per sparare in alto oppure in basso. Esso è, per tutti gli aspetti e sotto ogni punto di vista, totalmente fisso in quella direzione. Finché un dispaccio radio, il trasalire di un momento, fumo e polvere al di là dell’orizzonte, non risvegliano il pronto equipaggio dal torpore: “Una colonna che avanza, tutti pronti al mio segnale!” Fa il più alto di grado, mentre una strana vibrazione percorre l’ambiente claustrofobico che ospita l’intera scena. È stato infatti acceso… Il motore.
Per comprendere cosa abbia portato, nel 1956, l’ingegnere della KAFT svedese Sven Berge a proporre uno dei veicoli da combattimento più avveniristici e bizzarri della storia, ed il suo governo ad iniziarne realmente la produzione in serie poco più di 10 anni dopo, occorre descrivere brevemente la posizione politica dei paesi scandinavi in quell’epoca, la particolare conformazione del loro territorio ed il ruolo che si sarebbero trovati ad avere, nel caso di un ipotetico surriscaldarsi del confronto silenzioso tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Cominciando con il sottolineare come, nonostante la politica nazionale di occasionale collaborazione con l’Occidente, la Svezia ci tenesse a qualificarsi come entità neutrale, ed in caso di guerra termonucleare globale avrebbe costituito un bersaglio di secondaria importanza, anche e soprattutto per l’abbandono, dovuto a mancanza di fondi, di un programma per l’acquisizione di armi atomiche di distruzione su larga scala. Ciò aveva radici profonde nella politica di quel paese, che dopo la drammatica riduzione della sua popolazione dovuta ai tragici eventi delle guerre napoleoniche, aveva saputo guadagnarsi una classe politica che non sentiva più il bisogno di affermarsi in campo internazionale con l’uso delle armi, tanto che a partire dalla guerra in Crimea del 1856, il governo di Stoccolma iniziò a rifiutarsi di assistere sul campo di battaglia il suo alleato storico, la Russia. Durante la prima guerra mondiale, questo paese più compatto che mai diede la stessa risposta alla Germania, suo fondamentale partner commerciale e addirittura nel 1914, quando i russi occuparono abusivamente le isole Åland per collocarvi una base di sommergibili, non venne attuato alcun tipo di rappresaglia o controbattuta, fatta esclusione per una protesta formale al termine del conflitto, rivolta alla neonata Società delle Nazioni. Una scelta che si rivelò vincente a lungo termine, quando durante l’intero secondo conflitto mondiale, il paese riuscì a rimanere relativamente inviolato dalle forze nemiche, in mezzo al vortice dell’Operazione Weserübung, che portò all’occupazione tedesca di Danimarca e Norvegia. Ma terminata quell’era di rabbia dei popoli, giunti alla pace apparentemente di vetro tra le nascenti super-potenze del secolo rinnovato, diventò estremamente chiaro un aspetto: che se pure la Svezia fosse riuscita a scampare alla furia di un primo assalto nucleare da parte dei sovietici o di chicchessia, la vicinanza meramente geografica al più grande paese del mondo l’avrebbe resa un territorio ideale in cui dispiegare gli armamenti, per disseminarli oltre e nasconderli, per quanto possibile, dagli occhi scrutatori provenienti da Oltreoceano. E questo, loro non l’avrebbero mai accettato.

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L’invenzione del garage grande come un armadio

Vinod Kumar Garage

“No, no. Non può riuscirci. Cara, prendi la telecamera! C’è un uomo che sta per impegnarsi nel più arduo ed improbabile dei parcheggi. La vedi la Suzuki Maruti Zen rossa? Vuole metterla là dentro. LÀ DENTRO, ahah, ci crederesti?” Aspetta, ed ora cosa sta facendo? Tira fuori…Una specie di carrello su rotaie. Hmmm, la fa salire sopra. Ridicolo, cosa vuole…E adesso, non vedo bene ma…La sta SPINGENDO dentro? A mano?! E come, come se…Ooooh, grandioso. “Moglie mia, il nostro vicino è un genio. Lascia perdere l’attrezzatura di registrazione. Portami un quintale di profilati metallici, il frullino e il saldatore!
Perché a quanto pare in India, soprattutto laggiù presso lo stato meridionale del Karnataka e non troppo distante dalla metropoli di Bangalore, occorre farsi scaltri e concepire soluzioni utili ai problemi quotidiani. O per meglio dire, percepirli nell’aria tersa di un mattino di meditazione. Con gli occhi rivolti avanti ma i neuroni, tutti ordinatamente in fila, che formano un ponte con l’accumulo della sapienza collettiva. Europa, Asia, quale vuoi che sia la differenza? Nell’antichità, la figura dello stalliere era pressoché onnipresente e tutti, in determinate circostanze, venivano a contatto prima o poi con lui. I viaggiatori presso le locande, gli artigiani quando effettuavano consegne ed ovviamente i gran signori, ogni qual volta tornavano nelle magioni a seguito di grandi cacce o di escursioni. Ed erano poi costoro, gli uomini-cavallo per definizione, che sapevano ogni cosa di quell’animale, la maniera più adeguata per nutrirlo, accudirlo e quando necessario addirrittura prestargli cure elementari. Si tratta, sostanzialmente, di specialisti del non utilizzo, in grado di mantenere il più prezioso mezzo di trasporto, nonché amico ed animale, in condizioni di alta freschezza e subitaneità. Poi venne l’automobile e un diverso modo di veder gli spostamenti. Con un veicolo d’acciaio, gomma e vetro, al cui interno batte non più il cuore, ma un’incrocio di sistemi ed ingranaggi, fluidi artificiali e meccanismi. Senza sentimenti, senza testa, senza denti. Nessuno deve dare da mangiare ad una cosa con le ruote: è un semplice assioma di questo universo. Ne del resto, curarsi troppo delle sue necessità? E chi l’ha detto? Certo, un simile mezzo di trasporto può restare facilmente “fuori” tra la pioggia e sotto il vento, senza che la sua salute ne risenta in alcun modo. Per lo meno, entro i limiti di ragionevolezza. Ma resta il problema che il Male è in agguato ad ogni refolo e recesso delle semplici nottate. Si presenta sotto molte forme: furto d’autoradio, vandalismo, ubriaco che transita al volante ed urta le auto parcheggiate… Non c’è ragione, dopo tutto, di dormir sogni tranquilli.
Il che ci porta a un altro tipo di problema: che dire se hai la voglia e l’intenzione, ma ti manca la risorsa dello spazio? Per poter riuscire, intendo, nella fondamentale impresa di rimuovere il destriero dalla strada. Se l’unico modo di trovargli posto comporterebbe, essenzialmente, rimuovere un’intera stanza della casa, ed installarvi una serranda al posto di parete e fulgida porta-finestra a vetri… Nell’evidente opinione di Vinod Kumar, protagonista del video soprastante, c’è una semplice risposta a quel quesito: usa invece, ci puoi credere? Il tuo angusto ripostiglio. Naturalmente, non che sia FACILE. Qui siamo di fronte al sentire di un uomo che ha fatto dell’ingegno la sua massima bandiera. Costruendo, in ultima analisi, quel tipo di risolutivo marchingegno che la società moderna ci ha insegnato a definire gadget, con slittamento di significato di quella parola da “cosa inutile ma bella” a “strumento tecnologico che cambia la tua vita.” Accendiamo dunque anche il nostro motore, ed assistiamo ad una tale subitanea meraviglia…

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Il gotha del drifting si scatena sulla pista del Gunsai

Gunsai Attack

Fine giugno. Nel caldo umido della grande isola dello Honshu, principale terra emersa giapponese, una chiamata viene fatta pervenire ai clan guerrieri di un particolare mondo dei motori, che da un secolo ruggiscono furiosi. Di certo non sarà difficile da immaginare: i cellulari che squillano, in forza d’e-mail, messaggi e qualche volta addirittura una chiamata (ancora adesso!) con il fine di trasmettere il messaggio: “Accorrete, accorrete! Yosuke Suga della SC Films, che già conoscerete come autore della serie di video per Internet denominata KAMIKAZE DIVE, sta posizionando le sue telecamere per il prossimo episodio. Chi non c’è, non ci sarà. Di sicuro, se ne pentirà.” Già, ma dove? Dove, se non presso una delle piste da drifting più famose dell’Estremo Oriente, che corre attorno all’improbabile luna park a tema ciclistico del Gunma Cycle Sports Center, canonicamente abbreviato con il termine Gun-sai (per capire come siamo arrivati ad una tale contrazione, pensate alla lettura in inglese del termine “cycle”). Un tratto di strada lungo 9 Km, originariamente pensato per fare da pista per la vasta selezione di veicoli a pedali della stravagante istituzione per bambini di ogni età, ma che il mondo ormai conosce, principalmente, in forza dello show televisivo a tema automobilistico intitolato Best Motoring, che tra il plebiscito popolare la fece ribattezzare Gunsai Touge, ovvero: il “passo di montagna” del Gunsai. Il che costituisce, molto chiaramente, una metafora; nessun massiccio del territorio viene attraversato da questo tratto di strada chiuso al traffico, che anzi si richiude su se stesso dopo una variegata e complessa serie di curve in entrambe le direzioni. Eppure l’atmosfera, il fitto bosco che lo circonda, la strettezza del circuito ed il suo significativo dislivello, proprio a questo fanno pensare. Non ci sono spalti per osservare la gara, mancano riflettori, linea del traguardo, box di qualsivoglia tipo. Ma ciò che cementa più di ogni altra cosa la netta impressione di trovarsi ben lontano dal mondo delle competizioni convenzionali, è il tipo di evento che viene tenuto presso questo punto di riferimento. Creato appositamente sulla base delle vecchie, pericolose ed illegali gare notturne, che iniziarono ad essere organizzate verso la metà degli anni ’70, in risposta alla percepita necessità degli imprudenti di emulare le imprese di Kunimitsu Takahashi, colui che viene considerato il padre, volente o nolente, di un’intera disciplina motoristica fondata sull’odore della gomma bruciata. E i maestri delle sgommate, da quel giorno, non hanno più rinunciato a un’opportunità. Di FARE!
Il video specifico, senz’altro dedicato al singolo raduno più importante di quest’anno fino ad ora, mostra una vasta selezione d’automobili impegnate nel confronto col tracciato del Gunsai Touge, ciascuna recante al volante i migliori rappresentanti di categoria. C’era Naoki Nakamura, campione nazionale con la sua sgargiante Nissan Silvia S13, assieme agli altri rappresentanti color fuchsia del team Burst. C’erano Hideaki Ishii e gli altri Freee, oltre ad innumerevoli altri nomi largamente poco conosciuti fuori dall’ambiente di categoria. Ma soprattutto, c’erano le auto: una vasta selezione di mezzi giapponesi vecchi e moderni, preferibilmente leggeri e potenti, nella maggior parte dei casi a trazione posteriore, tra cui la Nissan Skyline R32 degli A-BO-MOON, una riconoscibile Toyota Corolla AE72 ispirata ai colori del pilota di rally Ken Block e soprattutto, una vasta selezione di Hachi-Roku, come vengono chiamate in gergo, ovvero le Toyota Sprinter Trueno AE86 del 1983, letterale auto-simbolo del drifting giapponese. Un veicolo non particolarmente potente, né meccanicamente straordinario, che ha tuttavia offerto da sempre la realtà di un auto sportiva ad un prezzo notevolmente accessibile, assieme ad una relativa facilità nel procurarsi i pezzi di ricambio. Ciò senza contare il suo ruolo da vera protagonista nel manga, e nei successivi, innumerevoli, film e serie tv del franchise Initial-D, dedicato alle imprese di guida di Takumi Fujiwara, personaggio destinato a diventare il più famoso guidatore in una versione di fantasia di questa stessa, montagnosa prefettura di Gunma. Non a caso, una delle Sprinter presenti al tracciato del Gunsai reca persino la scritta “Negozio del Tofu di Fujiwara” alludendo al periodo in cui il protagonista della storia, ancora studente di liceo, faceva le consegne per il padre, con la stessa auto che quest’ultimo aveva impiegato nella sua precedente vita di corridore notturno. Un’attività che, ovviamente, il figlio non tarderà ad emulare.

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