Squadra di lumache autonome ricombinanti, soluzione ad un problema che non sapevamo di avere

Cinquant’anni prima, nessuno aveva pensato che le illustrazioni predittiva dell’intelligenza artificiale avrebbero potuto realizzarsi con tale impressionante precisione. Di sicuro, l’esaurimento delle riserve di carburanti fossili, dell’acqua potabile, l’aumento dei disastri naturali e le frequenti e inconcludenti guerre tra nazioni moderne dovevano aver accelerato le cose. E adesso Umano 3483 giaceva tra le macerie della Megalopoli Europea, in un quartiere dove l’autorità costituita non poteva in alcun modo fornire il suo supporto. Gli Shev coi loro monopattini a cuscino d’aria, armati di tubi ritorti, avevano distrutto il robotaxi prima che potesse uscire dal tunnel, e trascinarsi via non era più possibile. Come un ultimo, disperato tentativo di salvarsi, Umano premette l’icona rossa nell’angolo inferiore sinistro del proprio smartwatch in realtà aumentata, pronunciando le parole di rito: “Sciury, chiama subito la polizia” ben sapendo che sarebbero arrivati troppo tardi. A meno dell’intervento fortuito di un nuovo drone sperimentale? I minuti scorrevano come ore. Ben presto uno Shev comparve ai margini del suo campo visivo, con l’elmo ricoperto di lamette ed un lungo mantello ricavato da una vecchia bandiera, gli occhi scintillanti dal caratteristico color dell’antrace. Tra le sue mani, cullava quella che sembrava a tutti gli effetti una clava costruita con due dozzine di Nokia 3310 attaccati assieme. Chissà dove diamine li aveva trovati! Ora Umano sentì sollevarsi lievemente, mentre l’ombra dei palazzi ricoperti d’edera sembrava scorrere verso un punto di fuga inesistente. “Prego restare immobile, numero 3483!” esclamò una voce metallica attraverso il suo impianto cocleare di tracciamento e comunicazione. Cosa stava succedendo, esattamente? Ora la superstrada sfumava dalla sua posizione supina, con la velocità percepita progressivamente maggiore, mentre l’imprevisto tappeto magico si piegava obliquamente sull’inizio di una svolta a 72 gradi. Gabbiani e piccioni quadri-alati, sempre più numerosi dall’irradiamento dei parchi cittadini, sembravano inseguirsi tra le nubi iridate. Qualcosa sembrò allora spingere e tirare in piedi lo scombussolato passeggero, dandogli occasione di guardare verso il basso. 16, o 22, o 36 sferoidi si agitavano velocemente tutto attorno alle sue scarpe con pattini integrati, mentre almeno il doppio sembravano brulicare correntemente sulla sua schiena. In quel mentre, avvertì un risucchio ed un tentacolo si sinuoso giunse a palesarsi da oltre il guard rail. Esso sembrava, per quanto improbabile, costituito da singoli bitorzoli mentre formando un arco posizionava la sua estremità perpendicolarmente alla posizione della sua nuca. Allora Umano si sentì sollevare e ribaltare lungo l’asse della gravità, mentre scrutando dietro di se scorse l’intera famiglia di Shev che sollevavano le fionde, prendendo la mira. Ma in pochi attimi scomparvero, venendo sostituiti da finestre variopinte, pilastri di cemento ed auto situate a mezz’altezza nel corridoio secondario peri-urbano. Finché ad attenderlo, poco più sotto, non si sollevò dal nulla tenebroso una letterale marea metallica di lumache.
Cyberpunk non inizia neppure a descrivere la situazione, in effetti, qualora il termine che siamo qui ad immaginare diventi piuttosto Snailpunk, o persino Gastropunk; giacché lumache ed altri piccoli animali con il guscio, fin da quando si affollavano sfidando cavalieri presso i margini dei manoscritti medievali, hanno da sempre affascinato e conturbato il vasto e variegato consorzio delle persone. Soltanto nessuno credeva, prima ancora del finire del primo quarto del XXI secolo, che qualcuno ad Hong Kong potesse giungere a razionalizzare l’idea. E mettendo in campo macchine e strumenti per la prototipazione, costruire la più fantastica e potenzialmente utile versione della chiocciola Terminator…

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La foresta che galleggia: belyana, vascello vessillifero del fiume Volga

All’inizio del 1945, qualcosa di abnorme fu visto avvicinarsi ai moli fluviali della città devastata di Stalingrado, già Tsaritsyn, dopo la ricostruzione destinata a diventare nota come Volgograd. Una struttura costruita in apparenza sulle acque, simile a una catasta di legna da ardere, ma molto più imponente in direzione orizzontale, verticale, in termini di capienza. Poiché il vascello dei rifornimenti edilizi, di questo si trattava, era costituito da molteplici strutture sovrapposte, le più elevate delle quali erano un paio di legnose dimore: vere e proprie casupole, con tanto di tetti spioventi, tegole e aperture idonee alla futura installazione di un comignolo. Mentre il complesso sistema di scale e passerelle, ideato per supplire all’assenza di un vero e proprio ponte superiore, appariva ombreggiato a tratti dai fluenti canovacci della serie di bandiere, alcune simili ad emblemi militari, altre riportanti vecchi simboli impiegati al fine di identificare gli oblast della Russia settentrionale. “Da noi, il popolo. Ai difensori della madrepatria dalle armate dei Tedeschi invasori.” Sembrava essere il messaggio sottinteso dell’impresa collettiva. Come un carro armato T-34, come un fucile Mosin-Nagant, come un bombardiere Ilyushin Il-2; ma infusa dello spirito dei secoli passati e ormai facenti parte, da ogni punto di vista rilevante, della storia pregressa di questo paese: belyana, la nave bianca della speranza. Bianca in quanto priva di una copertura di catrame ed anche la corteccia dei tronchi costituenti, principalmente derivanti di tronchi di pino e d’abete. E generalmente immensa, in quanto misurante in celebri casi pregressi fino 120 metri di lunghezza, per 12.800 tonnellate di peso. Non che per quanto concerne questo caso prototipico, riportato da plurime testimonianze orali ma mai messo per iscritto dagli storici coevi, si disponga di effettivi dati approfonditi in merito alla provenienza e l’utilizzo del battello, benché paia del tutto plausibile la sua venuta. Di беля́ны (belyany: plurale) qui ne furono d’altronde viste molte a partire dal XVI secolo ed ancor più ad Astrakhan e Saratov, presso le coste propriamente dette del Mar Nero, ove gli ingombranti vascelli terminavano tradizionalmente la loro prima ed ultima corsa, prima di essere completamente smontate e trasformate, esse stesse, nella materia prima in grado di costituire la ragione stessa della loro esistenza. Queste immense navi, tra le più grandi mai costruite interamente in legno e con tecniche straordinariamente distintive, costituivano in effetti la versione ultra-perfezionata di un metodo efficiente al fine di spostare i tronchi lungo il corso dei maggiori fiumi dell’Eurasia, tra cui il Volga ed il Kama, effettivamente l’unico a disposizione prima della costruzione di ferrovie all’inizio dell’epoca Sovietica. E per qualche tempo a seguire dopo la distruzione sistematica di queste ultime, ad opera delle truppe straniere inviate al fronte dell’Operazione Barbarossa per le acute ambizioni di un totalitarismo di tutt’altra matrice. E nessuno avrebbe mai potuto dubitare, persino agli albori dell’epoca contemporanea, della loro implacabile efficienza…

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Zigzagando come il mondo avesse scelto l’utile percorso dell’auto snodata

L’approccio progettuale della bionica è l’impegno esplicito a imitare in qualche modo, che risulti ragionevolmente produttivo, l’effettiva configurazione dettata dai crismi dell’evoluzione, ovverosia l’aspetto ed il funzionamento degli esseri viventi. Vi sono tuttavia degli ambiti, come il trasporto veicolare su ruote, dove semplicemente nessun cavallo può effettivamente essere condotto ad una forma utile allo scopo, per il mero fatto che un quadrupede non ha cabina, parabrezza, sedili o fari per illuminare il sentiero… Né la caratteristica forma quadrangolare, più o meno stondata, che da sempre tende a caratterizzare l’automobile nella stragrande maggioranza delle sue modalità d’impiego. Già, ma perché? Forse in nessun altro ambito della tecnologia contemporanea, l’essere umano è apparso guidato da una sorta di principio tecnologico impossibile da alterare, come un dogma ereditato da generazioni di effettivi precursori delle proprie stesse idee. Anche se a pensarci, voltandosi di lato avrebbe avuto l’opportunità di prendere in esame approcci alternativi ed altrettanto, addirittura maggiormente validi alla pratica implementazione del pretesto basilare occorso. Ritorniamo dunque alla figura, tanto a spesso venerata, dello scattante, capelluto equino. Che la natura ha dotato, con particolare osservanza alle concause di effettiva sopravvivenza, di un punto di snodo affine a quello di ogni altro essere vertebrato: il collo. Molto più che una semplice piattaforma per organi sensoriali, soprattutto quando può succedere che al punto e nel momento di un impatto accidentale o caduta, questi ultimi e il cervello siano messi in salvo, grazie ad un rapido quanto immediato scarto laterale del suo possessore. Ed ecco forse l’effettiva ispirazione, a ben vedere, di Walter C. Jerome, inventore con preparazione formale presso l’Università di Boston e aspirante imprenditore di Worcester, Massachusetts, il quale prendendo coscienza della ponderosa inerzia dell’industria principale di Detroit nell’immediato dopoguerra, fu tra i primi ad esclamare: “Basta, è ora di cambiare le cose.” Ove le circostanze tristemente accettate prevedevano, ormai da troppo tempo, la pressoché totale assenza di attenzioni riservate alla sicurezza di guidatore e passeggeri in caso d’incidenti, con oltre un milione di vittime stimate dall’invenzione del carro a motore fino al palesarsi del fatale attimo vigente. Molte delle quali perite per una contingenza oggi facilmente evitabile, mediante l’installazione di barriere oblique sotto l’abitacolo che guidino il motore lontano dai passeggeri nel momento stesso in cui l’inerzia dell’impatto porti il mezzo ad accartocciarsi. E tale massa ad insinuarsi, come il diabolico macigno di una catapulta, tra i sedili occupati dal corpo dolorosamente vulnerabile delle persone. “A meno che…” riecheggiano gli slogan del suo tentativo di promuovere una soluzione “…Lo scompartimento umano si presenti come un pezzo totalmente separato, unito tramite a uno snodo con la componente incline a generare l’energia motrice. Affinché il suddetto impianto, nel momento dell’impatto, scivoli di lato? Colpo di genio o mero sogno della pipa, come nella celebre metafora statunitense? Qualunque fosse l’effettiva probabilità dei fatti, questa era l’idea dietro Sir Vival, un prototipo automobilistico il cui nome di battaglia potrebbe essere reso in Italiano con il bizzarro gioco di parole: “Sir Super-Vivenza”. Ah, magnifico e terribile, poteva essere il marketing degli anni ’50…

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600 metri quadri in 140 ore: i parametri di un data center nato dalla stampa tridimensionale

Recita un famoso detto americano, utilizzato anche in ambito militare dai Navy Seals “Lento è fluido e fluido, è veloce.” Così come in edilizia, risparmiare sui materiali può significare spendere di più alla fine, per risolvere i problemi in corso d’opera, tamponare i barcollamenti, effettuare l’opportuna manutenzione. Non si tratta di sillogismi bensì conseguenze molto pratiche del cosiddetto triangolo della gestione del progetto: “Veloce, economico, efficace: scegline due” giacché vi sono compiti per cui non è possibile trovare scorciatoie; a meno di riscrivere, sostanzialmente, le palesi regole immanenti della situazione. Eliminando alla radice ostacoli, ancor prima di tentare d’aggirarli. Molti meno potranno essere gli imprevisti, ad esempio, in un lavoro d’importante caratura se le persone coinvolte dovessero essere di meno. Il che suscita l’imprescindibile domanda: chi sarà, a quel punto, ad occuparsi delle mansioni? Automatizzazione, la risposta. Robotizzazione il punto fermo. “Tridimensionale” l’aggettivo attribuito in modo per lo più arbitrario alla necessità di fare bene le cose. Che è poi quel tipo di effettivo termine ad ombrello, come virtuale, artificiale e innumerevoli altri utilizzati in modo comprensivo nei confronti di un’industria. Destinata, come non sempre capita, a lasciar diffondersi cerchi concentrici nell’increspata superficie del commercio contemporaneo. Strutture costruite, neanche a dirlo, con una sorta d’efficace “miscela” cementizia. Gentilmente offerta nel presente caso dalla Heidelberg Materials, compagnia del centro urbano omonimo, situato nello stato del Baden-Württemberg, ove alcun bisogno può sussistere ancor più di questo: l’anelito moderno, a più livelli, per edifici privi di finestre ma efficientemente refrigerati. Ovvero Data Center, l’imprescindibile forziere dei computer, punto di partenza delle informazioni o l’energia di calcolo impiegata per la grande maggioranza di quel mondo parallelo ed online. Ma costruito in modo differente, caso vuole, da qualsiasi altro che sia stato inaugurato nel presente ambito globale. Proprio perché in termini di mero utilizzo, l’unica forma economicamente sensata per simili strutture di un singolo piano è il rettangolo. A meno che per realizzarle ci si trovi a utilizzare lo strumento che costituisce al tempo stesso capocantiere, bassa manovalanza ed architetto intento a supervisionare. Da ogni punto di vista rilevante, un ugello sopra dei binari perforati. La puntina del giradischi, ove un simile strumento sia piuttosto figlio del bisogno di portare a compimento la materialistica sinfonia. Di un palazzo nato dal bisogno di risolvere l’idea…

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