Una visione in grado di colpire certamente il visitatore occasionale di un tale ambiente: piccoli uomini vestiti in bianco e nero, piccoli uomini che camminano oscillando nella foresta, girati rigorosamente verso l’altra parte. Individui dalla folta parrucca spettinata, le braccia aperte a salutare il sole (o la luna) una sorta di piccola coda triangolare. O almeno tale descrizione rappresenta l’impressione temporanea che se ne può trarre, finché non ci si avvicina eccessivamente per indagare la creatura molto evidentemente aliena, trovandosi di fronte ad una bizzarra trasformazione. Mentre questa si sposta minacciosamente in posizione quadrupede, trasformando e rivelando l’effettiva entità morfologica della questione: la parte davanti e quella dietro momentaneamente confuse, poiché puntano entrambe nella stessa direzione, che poi sarebbe la stessa di colui che ha scelto di frugare abusivamente all’interno di un simile ambiente. Soltanto momentaneamente perplesso, giusto il tempo di comprendere la situazione di pericolo! Poiché quella che si trova molto evidentemente innanzi, a partire da quel momento tremulo e ringhiante, si rivela all’improvviso per ciò che è davvero: una delle più piccole, ma cionondimeno inferocite, puzzole del continente americano. E se è vero che nella botte piccola c’è il vino buono, è ancor più rilevante tale aspetto nel caso dell’intero genere Spilogale (dal latino “donnola a pois”) le cui celebri ghiandole perianali, direzionabili come fossero bocche da fuoco dell’epoca Rinascimentale, possono lasciare scaturire una miscela di tioli (o mercaptani) molto meno diluita rispetto a quella della più comune moffetta striata, riservando alla sua vittima un fetore del tutto sconosciuto alla flebile mente umana. Ma se davvero simili creature possono costituire un simile terrore per ogni essere dotato del senso dell’olfatto, perché camuffare temporaneamente il proprio aspetto? La risposta, come spesso capita, è nel funzionamento non sempre razionale dei processi istintivi messi in opera dalla natura.
Chiunque abbia avuto incontri ravvicinati di un comparabile tipo conosce, del resto, il tipico atteggiamento del Mephitidae soggetto a fonti di minaccia esterno, con le zampe davanti ben piantate a terra e la coda sollevata verso il cielo, come una sorta di stendardo da guerra all’indirizzo dell’arrogante rivale. Quello che perciò deve essere accaduto nei trascorsi di questo particolare gruppo di specie poco più imponenti di un grosso scoiattolo (35-45 cm) è che attraverso l’inarrestabile processo di selezione, proprio gli esemplari capaci di apparire più grandi riuscissero ad ottenere i risultati maggiormente validi a salvarsi la vita. Portando i piccoli carnivori ad alzarsi progressivamente più in alto, e in alto ancora. Smentita dunque l’iniziale ipotesi che tale posa potesse servire a proiettare il fluido per l’autodifesa contro i bersagli distanti, vista la maniera in cui la posizione con tutte e quattro le zampe a terra risulti comunque preferita durante l’attivazione del meccanismo, la personalità delle cosiddette puzzole a pois ha iniziato ad assumere confini più chiari, da quella di acrobati circensi soltanto successivamente passati allo stato brado, a ragionevoli esecutori di una metodologia comprovata. L’aposematismo, dopo tutto, non è un’opinione… Aprendo la via ad un altro possibile significativo margine d’errore. Nonostante stiamo nei fatti parlando di un genere suddiviso tradizionalmente in quattro specie distinte, l’ultima delle quali classificata nel 1902, un gruppo di scienziati appartenenti all’Università di Chicago, l’Istituto dello Smithsonian e vari centri di conservazione biologica hanno lanciato alla fine dello scorso luglio un’avventurosa ipotesi: che la suddivisione precedentemente data per buona non potesse aver tenuto conto degli approfonditi dati genetici da loro raccolti, dopo il lungo periodo trascorso a raccogliere ed analizzare esemplari provenienti da tutto il paese, fino alla pubblicazione del rilevante studio sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Tale da aumentare a ben sette, il numero complessivo delle specie individualmente distinte, motivando in maniera ancor più significativa l’adozione urgente di nuove misure di conservazione naturale. Questo perché, neanche a dirlo, la stragrande maggioranza di queste creature rientra a pieno titolo nei parametri del rischio d’estinzione incipiente…
evoluzione
Ciak, geco, azione: schegge fluorescenti sulle scure sabbie del Namib
Poche cose, nello stile di vita del videogiocatore su PC moderno, mantengono un valore più importante dell’illuminazione a LED degli accessori e i componenti del suo sistema. Bagliori variopinti, concordati tra tastiera, mouse e scheda video, per non parlare delle ventole e della memoria RAM. Mentre nei casi più estremi, strisce adesive di propagano sui muri e sulla scrivania, circondano gli spazi dedicati ad una simile attività. Nella più totale noncuranza del dispendio energetico ulteriore, considerata l’assoluta inutilità di una simile scenografia cangiante. Il che potrebbe configurarsi come l’esatto opposto del principio di natura, dove ogni azione dovrebbe nascere da un effettivo bisogno, ciascuna soluzione corrispondere a un problema. Se non fosse per la recente serie di scoperte relative alla capacità di riflettere la luce ultravioletta da parte di specie animali vertebrate, tra cui l’ornitorinco ed il wombat, senza che gli etologi riescano a trovare alcuna corrispondenza comportamentale nei diretti interessati. Creature catarifrangenti, nell’opinione di alcuni, unicamente per l’acquisizione di particolari proteine o altre sostanze nutritive, come effetto della loro dieta per lo più vegetariana. Persone come il Dr Mark D. Scherz dell’Istituto Zoologico di Monaco, soprattutto successivamente alla sua recente scoperta dell’innato e tenue lucore emesso dalla cresta dei camaleonti Calumma del Madagascar, grazie alla trasparenza della pelle in un preciso punto situato sopra la loro fronte. Ma le ossa degli esseri viventi, per loro natura, possiedono un innata tendenza a quel fenomeno, in maniera completamente all’opposto del soggetto unico della sua ultima ricerca. Il cui titolo programmatico, da cui l’articolo pubblicato lo scorso gennaio sulla rivista Scientific Reports assieme ai colleghi David Prötzel, Martin Heß, Martina Schwager e Frank Glaw, permette d’identificare facilmente come il geco dai piedi palmati Pachydactylus rangeim originario di uno dei luoghi più climaticamente inospitali della Terra: le coste, presso l’Africa Meridionale, del vasto ed arido deserto del Namib. Poiché c’è fluorescenza e vera Fluorescenza, intesa come imitazione pallida della classica luce dell’astro solare, ma pur sempre visibile da lunghe distanze nelle notturne tenebre di questo mondo. E la piccola creatura non più lunga di 13 cm, appariscente lo è senz’altro, al punto da portare a chiedersi come nessuno potesse aver notato la faccenda fino a quel particolare momento della storia scientifica recente: con un suo cerchio verde attorno agli occhi sporgenti, e una linea della stessa tonalità lungo il fianco del suo sinuoso corpo. Mentre il ventre e zone limitrofe risplendono di un più lieve blu intenso (430 vs 516 nm) non altrettanto evidente ma senz’altro significativo. Questo perché l’evoluzione sembrerebbe essersi affidata, per questo animale, ad un notevole “trucco” della fisica fotonica, potenziando la resa quantica della luce sul dorso del geco grazie a un riflesso indiretto delle controparti. Al punto da costituire quello che potremmo definire, con un solo possibile rivale (la Boana punctata) il singolo vertebrato non acquatico maggiormente luminoso di questa Terra. Perciò può dirsi realmente possibile, di fronte ad una tale presa di coscienza, continuare a credere di trovarsi innanzi ad una mera coincidenza di fattori, piuttosto che un tratto genetico fissato da effettive necessità del nostro piccolo amico? In merito a questo, lo studio scientifico rimanda formalmente l’analisi a future ricerche più approfondite. Il che non ha impedito ai suoi autori, d’altra parte, di stilare alcune ipotesi probabili sulla base della mera e semplice inferenza…
Come il volo dei dinosauri sopravvive, nell’antica strategia di fuga del chukar
Superbe, gigantesche, ponderose creature, alte almeno quanto un pachiderma e non più agili di lui; questo continua ad essere, con l’aiuto d’innumerevoli illustrazioni e narrazioni popolari, l’interpretazione universalmente data per buona di quelle robuste presenze che un tempo dominavano la Terra. Il che potrà anche essere formalmente corretto, in una lunga serie di casi lungamente vissuti e svaniti attraverso un periodo di quasi 200 milioni di anni, ma non arriva neanche lontanamente a incorporare l’intera vasta portata della questione. Dove per ogni membro ed esponente della cosiddetta megafauna, ciascun incubo di denti, grossi muscoli e una coda irta d’aculei devastanti, uno svelto e scaltro corridore, dai sensi acuti ed affilati dal bisogno, percorreva le distese in cerca di un rifugio valido a poter sopravvivere un altro giorno. Tutti quegli erbivori e non solo, la cui dimensione oltre che l’aspetto poteva essere ricondotto vagamente agli odierni uccelli con la loro andatura dondolante, come gli oviraptosauridi e terizinosauri. Tacchini da guerra se vogliamo, ma del tutto privi di un aspetto che dovremmo definire assolutamente primario nella descrizione di quel pennuto: la presenza di un pur sempre pratico, sebbene poco utilizzabile paio d’ali. Così attraverso il trascorrere degli eoni, i loro discendenti come il deinoico, l’achillobator e ovviamente, il velociraptor, avrebbero iniziato a guadagnare un qualcosa di essenzialmente riconducibile ad un folto manto di piume. Ma nessuno aveva mai capito, essenzialmente, in quale maniera avessero imparato il segreto del volo, ovvero quale tipo di pressione evolutiva potesse indurre a sollevarsi da terra, dimenticando ogni potere residuo posseduto dal principio universale della gravità. Almeno finché al biologo Kenneth P. Dial dell’università del Montana non venne in mente d’osservare più da vicino, ed in maniera estremamente approfondita, l’essere più simile che ancora abbiamo a dimostrare chiara discendenza da una simile ed antica genìa: la graziosa e amata coturnice orientale, ovvero quella che viene chiamata su scala internazionale con il nome scientificamente onomatopeico di Alectoris chukar. Stiamo qui parlando di un fasianide originario della zona Paleartica con vasta diffusione in India e Pakistan, Iran, Turchia e parte dell’Est Europa, ma favorito dai cacciatori di mezzo mondo, per la sua facilità ad adattarsi ai climi non nativi ed un’innata fiducia nei confronti degli umani. Completamente all’opposto rispetto al comportamento schivo e riservato della nostrana Alectoris graeca, del resto esteriormente distinguibile soltanto per la presenza di un ulteriore piccolo trattino nero a concludere la linea che circonda gli occhi, il becco e il collo di entrambi. Eppure dotato fin dal momento della nascita, cionondimeno, di un potente meccanismo di sopravvivenza che potremmo ricondurre alla più chiara ed assoluta origine del volo. Identificato da un acronimo moderno che pare quasi derivare dal regno tecnologico dell’aeronautica umana: sto parlando del WAIR, o Wing-assisted incline running, locuzione che potremmo tradurre come “Corsa in salita con l’assistenza delle ali”. Questo erbivoro e spazzino opportunista di semi, frutta caduta ed altre fonti di cibo esclusivamente vegetali (sebbene non disdegni di andare in cerca di spazzatura negli ambienti urbani) appartiene in fatti a quel particolare gruppo di volatili che, pur essendo capaci di spiccare il volo mediante l’uso delle proprie corte e tondeggianti ali, preferisce mettersi in salvo da potenziali situazioni di pericolo semplicemente sfruttando le sue zampe rosse e potenti, correndo via veloce del sottobosco. E se possibile, lungo la superficie quasi verticale dei tronchi. Capite di cosa sto parlando? Qui siamo di fronte a una creatura il cui estinto, soprattutto quando recentemente fuoriuscita dall’uovo e il nido dei suoi genitori, generalmente costruito come un buco nel terreno nascosto tra felci o cespugli, possiede un istinto innato ad arrampicarsi, nonostante l’assenza di appositi artigli, arti prensili o altri ausili concessi dall’evoluzione. Ma un qualcosa, se vogliamo, di ancor più efficiente a tale scopo: la capacità di far muovere lo strumento aerodinamico delle sue ali. Prima ancora di annullare completamente la spinta verso il basso posseduta da qualsiasi entità materiale, ma riducendola abbastanza da poter correre in maniera quasi verticale. Un po’ come fatto da Neo di Matrix, in uno dei film più rappresentativi del passaggio di secolo tra gli anni ’90 e il 2000…
Jack lo squartatopo scopre come uccidere il rospo che sta intossicando l’Australia
Taglia, recidi, rimuovi. Apri, squarta, preleva. Un piccolo morso alla volta, adesso con cautela. Tra le acque tenebrose di un rigagnolo, l’incaricato disseziona la sua vittima di un altro giorno di onesto lavoro predatorio. Con supremo senso d’ordine, infila le sue zanne oltre i confini della cosa morta. Tirandone fuori due bocconi particolarmente ricercati: il fegato ed il cuore. Nulla di diverso, o più di questo. “Nell’ora del più tragico bisogno, quando il futuro apparirà incerto, dalle acque di palude sorgerà un eroe.” Questa l’iscrizione nella lingua degli aborigeni, sulle scoscese pendici di Uluru, la formazione paesaggistica che gli europei avevano iniziato a chiamare Ayer’s Rock. “Dalle alte e rigide orecchie, le orgogliose vibrisse, il folto manto grigio ed una coda lunga e pronta ad arricciarsi, coronata dalla punta candida come la neve sopra Melbourne caduta lo scorso inverno, rakali, rakali, il topo d’acqua fuoriuscito dal suo elemento.” Il salvatore che ci meritiamo e non esattamente quello che vorremmo, forse, sebbene a differenza del crociato col cappuccio di pipistrello, qui si stia parlando di qualcuno che non ha problemi a uccidere, secondo il modus operandi che gli è stato dato in concessione dalla natura. O per meglio dire molti “qualcuno” caratterizzati dallo stesso senso di abnegazione e sprezzo del pericolo, assolutamente necessari ad affrontare senza nessun tipo di timore la prova più terribile di fronte alle alterne vie del fato: una realistica possibilità, senz’alcuna strada di salvezza alternativa, per andare incontro all’avvelenamento. Morte della bestia e tutto ciò che questa rappresenta. Ed allora chi più sorgerà, dalle nebbie sovrapposte delle epoche, a salvaguardare il penultimo dei continenti che sia ancora in grado di mantenere un qualche tipo di contatto con la Preistoria? Ma non c’è topo nell’Antartico, non c’è alcun tipo di rospo, e soprattutto mancano i fondamentali presupposti perché una specie “non-nativa” possa sopravvivere e far danni. Moltiplicarsi e divorare fino all’ultima risorsa di cibo, mentre essa stessa viene fagocitata a sua volta, in un ciclo dal feedback negativo simile al destino dei dannati nelle profondità ctonie dell’Inferno dantesco. Poiché nessuno può riuscire ad assaggiare il gusto del Rhinella marina della Colombia, l’odiato-odiato rospo delle canne, senza subirne immediatamente le conseguenze: schiuma dalla bocca, tremori, convulsioni, dispnea e morte. Fatta eccezione per tutti coloro che hanno appreso, tramite una serie d’episodi pregressi, lo specifico segreto per riuscire a farlo.
Quanto visto nel video in allegato che potrebbe anche aver offeso la vostra sensibilità (ed allora perché mai cliccarlo? C’è un rattone che sventra un batrace!) rappresenta in effetti la chiave di volta di una nuova possibile strategia capace di sradicare ed annientare gli orribili peccati dei predecessori. Commessi accidentalmente quando attorno alla terza decade del secolo scorso, speranzosi agricoltori credettero di aver trovato il modo di annientare una volta per tutto l’odiato curculionide Dermolepida albohirtum, divoratore di canna da zucchero come se non ci fosse stato un domani. Finendo per scoprire, in maniera drammatica e irrecuperabile, quanto sciocco fosse pensare d’intromettersi nel naturale funzionamento dell’ecosistema terrestre, almeno senza rinunciare ad alcuna pretesa di controllo sul conseguente dipanarsi degli eventi. Il che avrebbe rappresentato, dopo tutto, un’ottima cosa. Per il rospo. Ed una cosa terribile per tutti gli altri, visto l’effetto di una tale specie dalle straordinarie difese biologiche, e l’ancor più terrificante capacità di proliferazione, non soltanto sulle pur sempre limitate risorse di cibo di un bioma ma sulla sopravvivenza dei carnivori stessi, tra cui quoll, varani, serpenti e coccodrilli locali; purtroppo incapaci d’associare il pericolo ad un letterale panino gracidante con le zampe, totalmente incapace di sfuggire alla loro fame. Tutti ad eccezione di alcuni gruppi di corvi e i variopinti pappagalli noti come lorichetti di Swainson (anch’essi tutt’altro che nativi) che furono osservati praticare una particolare metodologia per poter trasformare la pericolosa preda in un gradito pasto privo di alcun tipo di conseguenza. Dagli occhi spalancati degli umani stessi, e quelli stranamente attenti, per non dire colmi d’ammirazione, della cosa più simile che esista al concetto universale di una nutria, che sia però nata e cresciuta in Australia…