Parrocchetto che incorpora le piume di un fratello mai nato

Chimera Parakeet

Non c’è niente di meglio, per aggiungere una nota di colore alla vita, che portare nella propria casa la squillante voce e quell’aspetto variopinto e delizioso, dell’uccello comunemente definito cocorita. Il cui nome scientifico è Melopsittacus undulatus, binomio da cui deriva l’espressione più immediatamente descrittiva di parrocchetto ondulato d’Australia. Si, ma che colore? Come tutti gli animali con una lunga storia di addomesticazione alle spalle, questa particolare specie di volatili è stata intenzionalmente condotta verso esiti genetici diametralmente opposti, con gli esemplari naturalmente verdi e gialli a strisce nere, tutt’ora i più diffusi, affiancati da versioni azzurre, grige, talvolta addirittura dotati di una piccola cresta. Immaginate per un attimo di vivere in un luogo dall’ossigeno estremamente limitato, come la stazione spaziale, oppure un sommergibile sul fondo dell’oceano. Dove persino una gabbia adatta a creature tanto piccole, idealmente, potrà contenere un singolo compagno cinguettante. Allora scegliere tra l’una e l’altra versione diventerà estremamente complicato, perché i gusti umani variano col soffio meridiano dei venti, e ciascuna opinione cromatica, in quanto tale, resta pur sempre valida e altrettanto degna di determinare le diverse scelte di giornata. Ecco, grosso modo, la concorrenza di fattori che deve aver sperimentato questo pappagallo, però ad uno stadio estremamente primitivo della sua vita genetica. Ovvero, quando ancora era poco più di un embrione, mentre le sue cellule iniziavano a duplicarsi dentro il rosso dell’uovo. Che ne ha avuto due, finché a un certo punto, un po’ tardivamente, non si sono uniti in uno solo! Risultato: il piccolo Twinzy, a seconda che lo si guardi da una parte oppure dall’altra, appare come due uccelli totalmente distinti tra di loro, con lo stacco tra una livrea e l’altra che si trova esattamente al centro del suo corpo. L’unica parte esattamente simmetrica del suo aspetto, in effetti, resta il becco.
Ed è davvero un’insolita creatura, questa, come si prodiga nel farci notare l’enfatico proprietario dalla voce vagamente simile a quella di Samuel Jackson, che all’epoca in cui era stato girato il video ci informava di averla messa in esposizione presso il suo negozio di animali, Woody’s Pet Life di Oklahoma City. Si calcola che questo tipo di rara condizione genetica, tanto esteriormente manifesta, sia presente e verificabile soltanto su un esemplare di uccello ogni 50 milioni. Si tratta di una mutazione avvenuta a livello cellulare nel momento immediatamente successivo alla prima mitosi (sdoppiamento). Tutti gli esseri viventi simmetrici, infatti, si sviluppano in maniera diametralmente concorrente. Il che significa che possiamo considerarci frutto di due metà POTENZIALMENTE identiche. In teoria ma non nei fatti, e questo perché, fin dall’alba dei tempi, in natura nulla è preciso al 100%, nemmeno la lunghezza delle dita o il colore degli occhi. Ora, portando tale dato alle sue estreme conseguenze, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un uccello formato da due codici genetici totalmente distinti, frutto di due coppie di gameti, ovvero zigoti distinti, che s’incontrano prima di riprodursi. E si scambiano l’un l’altro, a causa di uno strano caso del destino, per la copia esatta di se stessi. Procedendo a riprodursi, da quel presupposto inesatto. Il risultato è che tutte cellule figlie della prima (chiamiamola, della metà destra) conterranno nel DNA una serie di determinate istruzioni, incluse quelle sulla colorazione delle piume; mentre quelle derivanti dalla sua compagna (della metà sinistra) ne avranno di radicalmente differenti. Che poi ciò risulti dalla commistione tra due creature potenzialmente distinte, come in un’insolita inversione del processo che porta alla nascita dei gemelli omozigoti, oppure dalla mutazione spontanea e difficilmente spiegabile di una delle metà coinvolte, poco importa. Dal punto di vista concettuale, siamo di fronte a un’impossibile realtà: due uccelli, in uno. Ovvero quella che viene definita, in un gergo non specifico ma stranamente appropriato a seguito di determinati trascorsi mitologici, l’impossibile chimera.

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L’unico modo per vincere una gara di struzzi

Ostrich gone wild

Per ogni nuovo sport, un’origine remota. A costituire la radice di una qualsiasi avanzamento tecnico, il coraggio, o l’incoscienza, delle genti che vennero prima. “Quello stupido uccello…Mi sta sfidando, te lo dico io.” La pagliuzza ben stretta tra i denti, lo stetson di traverso sulla testa. Lenny lo svelto, il miglior cowboy dell’Arizona nonostante i soli vendidue anni d’età, non avrebbe mai accettato di fuggire di fronte a una gallina sovradimensionata, tanto meno sotto lo sguardo della figlia del sindaco, la bella Kathleen. “Mah! Secondo me, sarà nervoso…” L’inizio di una nuova epoca. La svolta del secolo: una nuova bestia da soma proveniente dalle savane d’Africa, importata con finalità di allevamento grazie ad una convenzione commerciale con i sindacati del commercio atlantico di Jacksonville, nella parte settentrionale della Florida, all’altro capo dello stretto e lungo continente. E poi un lungo viaggio sulle vie ferrate, lungo strade dismesse, sui rudimentali camion dell’incipiente modernità. “Scusa, non lo saresti anche te, dopo quello che ha passato? Oltretutto, gli manca una compagna!” A quel punto, Lenny sputò, prima di voltarsi di scatto con sguardo ammirato. La sua bocca perennemente atteggiata in una smorfia beffarda si contorse in un’accenno di sorriso. “Ragazza, tu sai di cosa parli. L’ho sempre detto a tuo padre, che mandarti a scuola è stata una bella mossa. Ah, ah, ah, tsk – cough, cough!” (Il tabacco masticato di prima mattina non fa particolarmente bene alla respirazione) “Ma tu devi capire, che l’istinto di noi uomini duri è dominare le BELVE. E questa…Questa…Cosa, non ha l’indole mansueta di un cavallo. Te l’hanno raccontato, vero?” Per accentuare l’affermazione, fece sbattere gli speroni tra di loro. “Ecco…” Certo che si. La storia dell’aiutante del ranch Randall aveva fatto il giro del paese: recatosi di buona lena per portare il fieno nel nuovo recinto, che presto avrebbe ospitato non due, non quattro, ma ben sedici uccelli giganti, il ragazzo era passato incautamente a pochi metri da quel becco inquisitivo. E malaguratamente, soprattutto per lui, aveva scelto proprio quel momento per tossire. A quanto aveva sentito Kat, in quell’attimo qualcosa era scattato nella mente dello struzzo, che piuttosto che allontanarsi disgustato, come faceva di solito al contatto con gli umani, è scattato in avanti, colpendo con la sua possente e artigliata zampa destra. Risultato: quindici punti in prossimità dello sterno, lieve commozione cerebrale per l’impatto con il suolo. Se questa grossa novità dell’allevamento di volatili doveva prender piede, occorrevano nuovi criteri di comportamento. Regole ben scritte e definite. “Lenny, ti rendi esattamente conto di CHE COSA stai dicendo?” Ah, la fluente chioma bionda di Kathleen, come si agita nell’aere quando parla enfatica di qualche cosa! “Questo animale, fino al mese scorso, era SELVATICO. Non puoi sapere come reagirà. Starai mica parlando di…Di…” Troppo tardi, signora mia. Un grido improvviso distoglie lo sguardo della giovane, momentaneamente concentrato verso gli occhi acquosi del non-volantile da 130 Kg. “YEE-HAW!” Lenny aveva scavalcato la staccionata, frusta turbinante nella mano destra, e ballonzolando nella tipica corsa sghemba di chi vive a cavalcioni di un quadrupede, pareva impegnato nell’ultima carica per la Vittoria, oppure Morte. In quel momento, diversi sentimenti attraversarono la mente di Kat: rabbia istintiva, dispiacere, entusiasmo suo malgrado per l’ottusità dell’animale Uomo, infine: quieta soddisfazione. Lei, laureanda in etologia fuori sede presso l’università di Phoenix, temporaneamente di ritorno presso la natìa città di Chandler, aveva visto le fotografie. Dei cavalieri più apprezzati d’Africa, da qualche anno intenti, secondo quanto narrato in prima persona dal suo insigne docente viaggiatore, a mettersi alla prova tenendosi aggrappati alle folte piume dell’uccello più grande del mondo. Forza di carattere. Muscoli scattanti. Saggezza tramandata di padre in figlio, attraverso generazioni di addestramento tattico e spietato. “That friggin idiot!” Nei momenti di rabbia, nonostante l’educazione ricevuta, tendeva a ritornare all’idioma campagnolo della gioventù. Le nocche delle mani già sbiancavano, mentre appoggiava tutto il peso sulla recinzione antistante “Damn. This, this gun b gud!” E caspita (ritornavano alla mente le poche lezioni frequentate del corso d’economia) davvero, potenzialmente redditizio…

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I tre problemi dell’oca canadese

Canada goose

Punto primo: IL VIAGGIO. Il suono di piedi palmati sulla pavimentazione, un delicato starnazzare. L’ombra che compare ai lati del campo visivo. Chi disturba il pomeriggio del guerriero? Essa è giunta, sia l’essa o in pentola, pregunta. Perché viviamo in un mondo dove, nonostante le apparenze e i presupposti d’industrializzazione, ancora ci può capitar l’incontro con creature fuori dal controllo degli umani. Gli animali, selvatici persino. Certamente sarà capitato di recente a voi lettori, guardando casualmente fuori la finestra, di trovarvi quello spazio all’improvviso non più vuoto, ma occupato da…Qualcosa. Qualcuno/a, il passero, piccione, addirittura un grosso corvide con l’occhio nero. Per non parlare poi dei ragni, le zanzare, i curculionidi nel tuo giardino. Ma tutto questo non è nulla, neanche un picco d’encefalogramma, al confronto del colloquio capitato al ranger Andre Bachman, mentre guidava il suo pickup lungo una strada di campagna nell’Alberta, tra Edmonton e il lago Shining Bank: quasi cinque chili di volatile col collo lungo, la livrea graziosamente bicolore, il becco che si apre per mostrare un dentro rosa e carico d’aspettativa. Forse voleva da mangiare. Forse. Oppure, molto più semplicemente, si era persa l’oca canadese.
La Branta canadensis è una creatura dal notevole successo ecologico, che nella maggior parte dei casi non ha certo alcun bisogno dell’aiuto di noialtri. Normalmente vista, tra settembre e novembre, mentre disegna grandi V nei cieli, assieme a un certo numero di sue compagne, divorando miglia e miglia verso l’obiettivo della migrazione e poi di nuovo in primavera, di ritorno verso il nido della nascita distante. Non c’è quasi limite, ai percorsi che può compiere quest’oca, in grado di spaziare fino al Nord Europa, transitando per le terre artiche che uniscono i remoti continenti. E questo senza nemmeno prendere in considerazione come proprio noi, colpiti dall’ottimo potenziale in qualità di bestia d’allevamento o bersaglio per la caccia ai pennuti, abbiamo fatto in modo d’introdurla in Bretagna, Sud America e addirittura la remota Nuova Zelanda, tutti luoghi in cui l’animale si è moltiplicato a dismisura. Riunite in uno stormo, all’altezza media di 1 Km (ma possono raggiungere occasionalmente la cifra spropositata di 9.000 metri) le oche volano, dandosi il cambio per non faticare troppo, visto come l’apripista della formazione, il “vertice” per così dire, sia il soggetto dello sforzo maggiormente significativo. Nel frattempo, un particolare processo biologico causa l’ingrossamento della loro tiroide, con un conseguente aumento degli ormoni che le aiutano a superare la fatica, velocizzano il metabolismo e riscaldano quello che è sotto il variegato manto delle loro piume. Non puoi davvero fermare, un’oca in volo. Ma il problema è che quando si ferma, per un motivo qualsiasi, restando sfortunatamente indietro, difficilmente sarà in grado di raggiungere le sue compagne.
Così questo esemplare, dalle dimensioni probabilmente una femmina, giaceva a lato della strada, spaesato e solitario, in dubbio sul suo passo successivo. Per gli animali che scelgono la vita del gregario, perdere la leadership, e con essa la bussola del richiamo, può rivelarsi estremamente grave. Ed è qui, che può entrare in gioco la preziosa compassione. Fermare il veicolo, scendere dall’auto, scambiarci due parole. Forse fargli una carezza. Magari dargli da mangiare (no, non è il nostro caso). E soprattutto, offrire al volatile una nuova forma da seguire, ma stavolta con quattro pneumatici, la targa e il parabrezza. Che scena! Mr. Bachman che prosegue lungo il suo percorso, eppure questa volta, non più solo. L’oca, prima incespicando sull’asfalto, poi alzandosi letteralmente in volo, si piazza bene al centro dello specchietto retrovisore, inscenando la perfetta equivalenza a bassa quota del suo naturale volo in formazione. Così per l’uomo non è affatto difficile, né sgradito, comprendere il passo successivo dell’operazione. Con piglio certo e mano salda sul volante, si dirige verso il più vicino specchio d’acqua, dove la sua nuova amica possa soggiornare e riposarsi, prima di decidere che fare.

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Come danzano gli uccelli per mangiare

Tiptap Gull

Ho conosciuto Fred presso la coste sabbiose del Ceredigion, nella tiepida New Quay. Dove persino le correnti fredde provenienti dall’Oceano Atlantico, con il carico consueto d’astio ed animosità, altro non possono che infrangersi contro gli scogli dell’ospitalità gallese, il convivio celtico e la voglia di far festa ad ogni ora.  Lui era un tipo bianco e grigio, piccolino, con i piedi grossi e vistosamente palmati. All’epoca, la sua unica espressione artistica era un canto penetrante e alquanto primitivo, squillante all’alba per segnare il territorio: GAAWK, SQUAAKW, faceva lui. Talvolta, i suoi vicini e parenti si univano alla compagnia. Generando una specie di concerto, allegro se non propriamente variegato, in grado di allietarci un cacofonico risveglio. Ma Fred, ah! Lui non era come gli altri, questo ebbi a capirlo quasi subito. La prima volta, pioveva leggermente, così già stavo mettendo il cane in macchina, quando un fruscìo tra gli alberi portò il mio sguardo verso l’entroterra. Lui era lì, da solo, il becco giallo aperto eppure senza suono a disturbare un simile momento. Voltò la sua testolina prima a destra, poi a sinistra, gli occhi gialli e ostili per definizione, eppure non rapaci, né crudeli. Mi scrutava per capire cosa fossi. “Uu-mano, duee-mani, noo-pani” immaginai che mi dicesse, poi chiusi lo sportello ed inventai quel nome, riecheggiante dello spirito umido di una distante terra senza nome. Fred, l’ambasciatore pennuto in Gran Bretagna. Fred, il ballerino che proviene da lontano. Non che fosse, già a quei tempi, in grado di dare un senso a quello che facesse. Come i suoi cugini della costa, nonché gli antenati comuni da generazioni immèmori, lui batteva i piedi sulla sabbia di riflesso, senza ritmo né ricerca musicale. Lo scoprii due giorni dopo, verso la metà di un’escursione mattutina, di questa vacanza destinata a rimanere nella storia. Oliver il Labrador, come al solito bagnato, masticava il suo bastone quietamente. Temporaneamente stanco per il triathlon canino (corsa, nuoto, riporto) dapprima non udì quel suono sussurrante (tapatapatap) poi sempre più forte (TAP-TAP-TAP) né vide il risultato di un tale spettacolo, l’uccello dietro la duna. Che sia alzava in volo, lo spettacolo finito, con il verme che pendeva dal suo becco, a mò di mortadella delle polverose circostanze.
Quella sera, non riuscii a pensare ad altro. Giù al pub con i ragazzi, dopo la quarta birra, il cugino della locandiera se ne stava un po’ in disparte: “Jon, ho una t-omanta pel pte?!” Il mio accento australiano si sentiva appena: “Ma porqua, i gabbiani batpono le zannpte per cac-ciare?” Dopo uno sguardo all’interlocutore, mi pentii subito di aver posto la domanda. Il pescatore di mezza età, la barba incolta, l’abito sgualcito, era evidentemente ubriaco fradicio e pensava già al domani. Ebbi modo di contare per uno, due, tre secondi, mentre la sua espressione virava dal sorpreso al concentrato, poi si fece all’improvviso del tutto neutrale. “Vedi amico, normalmente non lo fanno.” Il tono era didascalico, la struttura della locuzione semplice e oxfordiana: “Il Larus hyperboreus è un uccello fortemente opportunista, che di preferenza si mostra abituato a cacciare molluschi, artropodi e i piccoli pesci dei fondali sabbiosi. Talvolta è solito battere le conchiglie contro il duro degli scogli, per poterne suggere l’amaro contenuto. Soltanto in un caso è solito battere a terra per riuscire a procacciarsi il cibo…” [Un breve rutto interruppe la disquisizione] “Quando è innamorato. O come dicono i miei esìmi colleghi — Quello scassaboline del dannato cielo (Ar, ar, ar!) –Ha un debole per te.” Gulp! “Fattene una ragione.” Quindi l’ubriaco, all’improvviso, cadde addormentato.

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