Viaggiare lungo il grande anello stradale che circonda la nazione isolana più a settentrione d’Europa potrà richiedere un grande numero di ore, ma difficilmente può essere definito “noioso”. Soprattutto quando ci si appresta ad affrontare il tratto che fiancheggia, una dopo l’altra, meraviglie naturali come le cascate di Skógafoss, il vulcano Eyjafjallajökull ed il ghiacciaio Mýrdalsjökull. Ma è mentre si procede verso Est, nell’ideale progressione di quest’avventura al volante, che la prima vista effettivamente ardua da identificare inizia a palesarsi oltre le digradanti coste di quell’universo paesaggistico senza un eguale: per l’apparente fila di quattordici, quindici autocarri dalla cima frastagliata, che in rapida sequenza sembrano riemergere da un mondo sotterraneo, fiancheggiando stolidi il sottile nastro asfaltato che costituisce l’interfaccia tra il mondo sensibile e lo stato delle cose. Finché al variare della prospettiva, tali orpelli si presentano per ciò che veramente erano sempre stati: sculture di ghiaccio, alte, oblique, trasversali. Aspetti indipendenti di un tetto bianco che sovrasta, e in senso concettuale riesce a incombere, sopra ogni spazio abitabile di quel paese sospeso tra l’Atlantico e la terra leggendaria del Grande Inverno. Così che se una popolazione indigena, come gli Inuit canadesi o i Chukchi della Siberia, avesse vissuto in questo luogo prima della colonizzazione da parte dei Norreni avvenuta nel corso del Medioevo, tale luogo avrebbe avuto il nome e ruolo religioso di “divino” Vatnajökull, coi suoi 7.900 Km di materia compattata grazie alla pressione gravitazionale, per un volume complessivo di 3.000 Km quadrati, entrambi dati capaci di collocarlo in cima alla classifica dei più vasti ghiacciai europei. Ma chi dovesse credere, a un simile proposito, che tale monade suprema sia risultata immutabile attraverso i secoli, come le grandi montagne o laghi delle terre più distanti dal grande Cerchio, avrà di certo una sorpresa considerevole, comparandone l’aspetto attuale con quello registrato sulle mappe di appena una generazione o due a questa parte. Poiché il ghiaccio cambia e assieme ad esso la forma geometrica d’Islanda, come ben sappiamo dalle registrazioni risalenti alla piccola era glaciale (PEG) generalmente collocata tra il XIV e XIX secolo, ma realmente portata ad esaurirsi verso l’inizio degli anni ’30 del Novecento. Data in cui il grande ghiacciaio, dopo essersi propagato per circa 50 Km oltre le coste dell’isola, ha iniziato gradualmente a ritirarsi. Lasciando indietro gli iceberg che continuano, uno di seguito all’altro, a percorrere il nastro trasportatore posto in essere dalla natura in attesa.
Jökulsárlón è il suo nome, che significa letteralmente “fiume della laguna glaciale” benché non si tratti allo stato attuale di nessuna delle due cose, bensì un esempio particolarmente imponente di quello che prende il nome di lago proglaciale, essenzialmente intrappolato dalla duplice morena (slavina di detriti) causata per l’effetto del progressivo disgregarsi della montagna bianca. Una visione totalmente priva di alcun termine di paragone…
ghiaccio
La naturale casa della musica sorta sulle rive del fiume Songhua
Esiste una Cina situata oltre i confini dell’orizzonte, una Cina remota e inesplorata dalla maggior parte dei visitatori turistici internazionali. Là, dove la latitudine supera i confini ragionevoli e a poca distanza dal confine con l’estremità estremo orientale della gigantesca Russia. L’area da cui, secondo i calcoli meteorologi, proviene spesso il vento gelido capace di coprire con la neve i territori di Giappone e Corea del Nord, che qui placidamente soggiace, ricoprendo ogni struttura di una lieve patina di candore. Edifici come la Cattedrale di Santa Sofia, chiesa ortodossa costruita all’epoca della Trans-Siberiana, o la Grande Casa di Pietra in stile occidentale, sede delle ferrovie cinesi, distrutta e ricostruita due volte nel 1904 e il 1906, con totale indifferenza dei lavoratori al clima invernale capace di scendere frequentemente sotto i -20 gradi Celsius. Poiché non scherzano di certo, gli oltre 10 milioni di abitanti di questo luogo, nella loro interpretazione severa del Feng Shui, scienza geometrica non solo dei percorsi energetici attraverso e dentro i luoghi oggetto della nostra urbana esistenza, bensì fondamento stesso di un punto d’accordo comune tra cosa sia accettabile, bello, desiderabile e gli esatti opposti. Fu anche perciò decisamente arduo, per l’architetto fondatore dello studio MAD Ma Yansong, effettuare una proposta valida per il concorso del 2011 relativo all’Isola Culturale, una nuova rinnovata zona dedicata a tutte le arti da costruire nella parte nord della città, non troppo lontano dalla celebre attrazione zoologica del Siberia Tiger Park. Lui che, architetto giovane propenso a rompere le convenzioni, attraverso metodi che lo accomunano alla fondamentale mentore ed ispiratrice Zaha Hadid, mutando e incrementando, piuttosto che sovrascrivendo, gli attribuiti pre-esistenti del paesaggio. Verso la creazione di un processo in divenire, che potremmo definire l’interazione dei letterali milioni di sguardi a ridosso di nuovi ed imponenti elementi posti dinnanzi al cielo. Costruzioni come il Grand Theatre, nesso e punto focale del progetto, luogo concepito per la messa in opera di opere, drammi e concerti, all’interno di pareti tanto inusuali da sembrare, complessivamente, il prodotto del costante battere del vento e la pioggia. Verso la creazione di un elemento che al tempo stesso connota ed arricchisce lo spoglio ambiente di appartenenza: spazi vasti, desolati e ricoperti dalla neve in inverno, ove collocare secondo i requisiti del concilio d’amministrazione cittadino due diversi palcoscenici dall’acustica versatile, l’uno con la capienza di 1500 spettatori e l’altro “appena” 400, oltre a una piazza pubblica per l’organizzazione di riunioni ed eventi.
Apparirà chiaro dunque a questo punto che stiamo parlando di un titano da 79.000 metri quadrati, che tuttavia non sembra occuparne, grazie alla forma organica e leggiadra, più di una ridotto benché significativo frazionamento…
L’immortale monumento all’aviazione affondato tra i ghiacci del Polo Nord
L’epoca è un momento di qualche anno successivo al 1983. Il luogo: Atlantico settentrionale, ad una latitudine al di sotto della linea oltre cui ha inizio il Circolo Polare Artico. Impossibile essere più precisi di così data l’assenza di alcun contributo umano da oltre un paio decenni, benché il soggetto della foto, per quanto ci è dato di capire, dovesse aver mantenuto il suo aspetto pressoché invariato. Uno sfolgorante bimotore militare Douglas C-47 “Skytrain” danneggiato durante l’atterraggio sopra l’iceberg, che sin dal 1952 era rimasto in solenne attesa di una squadra di riparazione destinata, per ragioni collegate al mero pragmatismo e la necessità, ad abbandonarlo solennemente a questo incrocio fatale della Rosa dei Venti. Un ipotetico gabbiano interessato alle tribolazioni umane, che fosse passato di lì in quel momento, avrebbe tuttavia notato qualcosa di strano e in qualche modo memorabile. Ovvero la maniera in cui il blocco di ghiaccio, ormai quasi totalmente liquefatto dal calore dell’astro solare, fosse ormai coperto dalla cima delle onde, mentre la lucida carlinga ancora cavalcava su di esse sostenuta da un alto e nevoso piedistallo. Lo stesso pilastro, comparabile ad un plinto classico in candido marmo, sopra cui esso riposava da un periodo di oltre tre decenni.
Tentando di spiegare dunque l’origine dell’arcano, prelevandone il significato direttamente dal racconto di prima mano dei testimoni coévi, occorre risalire alla storia precisa di questo aereo, codice di volo 15665 (MSN 20131) che prima di essere un rottame destinato all’affondamento fu un eroe dell’esplorazione terrestre, quindi un valido cavallo trasportatore comparabile all’Ippogrifo. Per poi fare la stessa, inevitabile fine di ogni altro sogno elaborato dagli umani. Tutto ebbe inizio, secondo le cronache militari statunitensi, nella primavera del 1952, quando l’ufficiale in capo delle operazioni aeronautiche USAF in Alaska, il maggiore William D. Old, creò una squadra speciale per portare finalmente a termine il suo progetto preferito: la prima visita da parte di umani dell’esatto Polo Nord magnetico terrestre, mediante l’impiego di un aereo. Dovete considerare come in quegli anni avesse appena avuto inizio la guerra fredda e sebbene fossero in pochi, allora, ad averne preso in considerazione le più terribili implicazioni potenziali, appariva chiaro come il tragitto più breve verso il territorio sovietico per un ipotetico bombardiere fossero le rotte del “grande cerchio” fatte transitare attraverso le regioni gelide del più assoluto Settentrione. Essenziale era conoscerne le caratteristiche, dunque, ed ancor più importante, se possibile, dimostrarne al mondo l’assoluto predominio da parte dell’aviazione americana. Pur ricevendo ogni possibile garanzia di riuscita da parte del suo incaricato principale, l’ufficiale per i progetti speciali tenente colonnello William Pershing Benedict, il maggiore scelse un nome in codice segreto per la sua idea, denominata Operation Oil Drum (barile di petrolio) affinché nessuno potesse, in caso d’insuccesso, attribuirne l’effettiva responsabilità. Il che trovava riscontro, d’altra parte, nell’obiettivo informale di trasportare a bordo del velivolo designato il suddetto contenitore di liquidi, per lasciarlo a estemporanea testimonianza della visita assieme all’imprescindibile bandiera nazionale. Venne data a William, quindi, assoluta libertà nella scelta del mezzo e i suoi compagni d’avventura, per i quali egli selezionò rispettivamente una versione modificata dell’affidabile bimotore dalla pregressa storia sia civile che militare Douglas C-47 (versione migliorata del DC-3) e un’eterogenea squadra di 9 tra cui scienziati, un fotografo, operatore radio, navigatore, ingegnere, addetto alle registrazioni e relativi assistenti. Personalità tra cui spiccava, per importanza, il suo co-pilota e amico il tenente colonnello dell’USAF Joseph O. Fletcher, già scopritore e responsabile di quella che sarebbe stata, nel momento della verità, la loro base di partenza: l’iceberg titanico denominato “Isola di ghiaccio” o in maniera più formale, base meteorologica T-3. Naturalmente, a quei tempi, la sua posizione risultava essere ben diversa…
Il villaggio intrappolato dal potente soffio dell’Inverno
Mentre il ciclo delle stagioni procede nel suo incedere nella più assoluta indifferenza alle tribolazioni umane, invisibili titani si risvegliano dal sonno millenario, seguendo e anticipando i lenti movimenti delle nostre aspettative. Sono i fronti d’aria calda e fredda, che s’intersecano sopra zone d’interesse, al confine tra i diversi insediamenti e nelle zone d’interesse, per procedere nell’assoluta marcia delle loro conquiste terrene. Ultima vittima: la spiaggia di Hoover presso il piccolo paese di Hamburg, sulle coste del lago Erie nello stato americano di New York. Ai confini di un sistema d’acqua dolce tra i più vasti della Terra, che in funzione di una simile caratteristica, presenta innata propensione a trasformarsi in ghiaccio, non appena le temperature scendono al di sotto dello zero. E questo, a quanto sembra, è normalmente un bene, come hanno scoperto i pochi abitanti invernali dell’insediamento, normalmente usato come luogo di villeggiatura, nel momento del risveglio avuto giusto al termine di questo febbraio 2020, accompagnato dalla strana consapevolezza che l’astro solare, per qualche ragione, dava l’impressione di non essere salito al di sopra dell’orizzonte. Se non che recandosi alla finestra più vicina, essi ebbero la consapevolezza che un qualcosa, come un velo impenetrabile, ne aveva incapsulato l’abitazione, così come l’essenziale porta, tirando e spingendo, non sembrava muoversi di un singolo millimetro. Così molti tentativi, ed enfasi possente, diventarono la prova necessaria per uscire a rivedere il cielo, dall’interno di quel che si era trasformato nella più perfetta manifestazione architettonica della valle del Cocito, quinto ed ultimo dei fiumi infernali.
Gelo, freddo, glaciazione. Nessun tipo di espressione d’uso comune può arrivare a descrivere semplicemente quello che le telecamere delle principali Tv locali si sono affrettate per andare a riprendere, consistente essenzialmente nella copertura integrale di ogni superficie, incluse quelle verticali, da uno strato candido d’impenetrabile acqua congelata, ricoperta di strani bitorzoli e pendule stalattiti. Per l’effetto, contrariamente a quanto titolato dai maggiori quotidiani, non tanto dalla “Magia compiuta dall’inverno simile a quella del film Frozen” quanto a un effettivo fenomeno atmosferico dalle conseguenze spesso gravi, definito in gergo tecnico la glaciazione da effetto lago. Il cui principio, se approcciato con la razionalità opportuna, apparirà tutt’altro che inaudito, bensì frutto della conseguenza totalmente logica degli eventi: 1 – Fronti d’aria fredda si spostano, per l’effetto dei venti, sopra una grande massa d’acqua; 2 – Il calore e l’umidità dell’ambiente sottostante causano la condensazione, e successivo incorporamento, di grandi quantità di liquido all’interno delle nubi; 3 – Quest’ultime, sospinte ulteriormente innanzi, raggiungono il clima continentale dell’entroterra, scaricando spesso copiose quantità di neve; ma ora immaginate la stessa cosa velocizzata di svariate centinaia di volte, causa l’insorgere di una tempesta sufficientemente forte da spingere quantità ingenti d’acqua direttamente a congelarsi sulle case stesse. Con l’effetto di creare la versione più terribile, e inerentemente minacciosa, dell’ideale concetto di una Winter Wonderland…