Non crederete al numero di barbabietole raccolte in sei minuti

Sugarbeet

Un’altro giorno, un altro giro sui campi d’Olanda, con la finalità di cogliere quel frutto della terra che, da quando Napoleone mandò una commissione di scienziati a investigare nella fattoria di Franz Karl Achard nel 1801, costituisce un fondamento irrinunciabile della nostra dieta. Nonostante da esso provenga la singola sostanza più potenzialmente nociva, assuefacente e notoriamente problematica per il benessere dell’uomo. No, non è proprio una droga. Ma conduce alla felicità. Perché addolcisce le nostre giornate, corrobora il sapore del caffè; ah, lo zucchero! Persino la sua nascita, tra i campi d’Europa e successivamente degli Stati Uniti, sempre fu gravosa e tormentata, per chi doveva gestire la sua pianta-di-origine-non-tropicale, una particolare versione domestica della Beta vulgaris, chenopodiacea fittonante. Si dice a margine dell’opera del contadino, con vagheggiante compassione, che la terra sia “lontana” alludendo a quanto è “dura da raggiungere” chinandosi dall’alba al vespro con fatica. Ma persino questo non sarebbe stato nulla, di per se, rispetto alle condizioni a cui erano sottoposti i dipendenti di Silesia, in Polonia, che avevano attirato l’attenzione dell’Imperatore dei Francesi.
Il loro datore di lavoro aveva infatti a suo tempo appreso dal professore d’università, Andreas Sigismund Marggraf, come ibridare e coltivare il vegetale in questione, ottenendo un prodotto che si potrebbe definire facilmente l’incubo del contadino: si preparava attentamente il terreno, affinché fosse sufficientemente morbido da accogliere le preziose radici della pianta, fonte principale dell’amato saccarosio. Si piantavano le barbabietole vicine tra di loro, affinché fossero meno vulnerabili ai parassiti. Quindi si doveva procedere, durante la stagione della crescita, a sfoltire le fronde emergenti due o tre volte fino al sopraggiungere dell’autunno, tramite l’impiego di una zappa, affinché la pianta non crescesse in verticale a discapito della sua dolce componente sotterranea. Ma il peggio doveva ancora venire: al momento del raccolto, infatti, sui campi si faceva passare per prima cosa un dispositivo simile a un aratro, che sollevava parzialmente ciascun fittone (radice bulbosa) dal suolo, poi si parcheggiava il carro da una parte. A quel punto, arrivavano delle coppie di lavoratori, il primo dei quali prendeva la barbabietola per la parte esposta, la estraeva, la scuoteva per rimuovere la terra e poi la disponeva a terra. Mentre il secondo separava la parte utilizzabile da quella inutile, tramite l’impiego di un attrezzo definito “uncino da bietole” sostanzialmente una via di mezzo tra roncola e falcetto. È inutile sottolineare come una procedura tanto complessa potesse richiedere anche diversi giorni per un campo di misura media, mentre i costi operativi lievitavano di conseguenza. Ma mai, quanto quelli d’importazione del prodotto della canna da zucchero, che cresceva unicamente nei climi tropicali, e per questo all’epoca era un esclusivo appannaggio delle classi agiate. Finché non sopraggiunse, nel 1803, l’inizio di quei lunghi e sanguinosi conflitti definiti guerre napoleoniche, durante i quali l’Inghilterra fu per l’ennesima volta, nemica, e la sua flotta bloccò le importazioni marittime presso l’Europa continentale. Ciò senza contare la rivolta di Haiti conclusasi nel 1804, destinata a trasformare di lì a poco quella che era stata una colonia fondata sul lavoro (degli schiavi) in libera repubblica, un fatto storico che fu la banderuola di quei tempi e quello che sarebbe avvenuto di lì a poco. Così, nel giro di pochi anni, lo zucchero di canna sparì dagli scaffali di mezzo mondo, proprio mentre un chimico tedesco di origini ugonotte, la cui famiglia era scappata in Polonia durante le persecuzioni del secolo precedente, scopriva come estrarlo da una pianta in grado, meraviglia delle meraviglia, di crescere nel mezzo della temperata Europa.
Così, di saporita necessità, virtù. Come è noto, niente stimola l’ingegno umano quanto l’opportunità di guadagnare, e nel giro di poche generazioni, con l’avvento della tecnologia automatizzata, vennero impiegati numerosi metodi per semplificare e velocizzare la raccolta delle barbabietole. In altre parole: “Se devo farmelo da solo, voglio faticare il meno possibile”. Nel mondo moderno, è normale che il raccolto venga preparato tramite l’impiego di un root beater, la macchina che con delle lame a movimento circolare rimuove facilmente le foglie pressoché inutili della pianta, ricche di impurità. Quindi un beet harvester si occupa di sollevare la radice, rimuovendone al tempo stesso la terra in eccesso, operando su file multiple, ciascuna corrispondente a un solco del campo coltivato. Generalmente, fino a sei. Qualche rara volta, come quella qui mostrata, basta invece una singola macchina, per farne dodici alla volta!

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Nuovi metodi per cuocere la carne: lavico e fluviale

Lava Barbecue

Il terrore semi-liquido che avanza, rosseggiante fuoco della distruzione fin sopra le spiagge delle Hawaii. Nessun turista assisterà ad un simile spettacolo, tranne i più convinti vulcanologi con lo stipendio assicurato; tutti gli altri, dal primo all’ultimo, fuggiranno via per tempo. Elicotteri, barche, aerei con il pieno di benzina. E automobili che corrono fino alla riva dell’Oceano, per lo meno, al fine di osservare da lontano i fumi fetidi della montagna. Lentamente, inesorabilmente si consuma la foresta. Tanti tronchi e foglie rigogliose, mentre gli uccelli gridano alla fine delle loro uova. È una totale evacuazione, senza il minimo risvolto positivo per la collettività. Ma in mezzo a questo panico, ci sarà un uomo. L’eroe degli affamati, un differente tipo di messia: colui che ricevuta l’illuminazione, piuttosto che fuggire. Ritrovandosi sul promontorio, coraggiosamente irto contro l’ansia ed il pericolo, una grande griglia stretta fra le mani. Ed una borsa sulle spalle tutta piena, piena fino all’orlo di bistecche. Vermiglie, già quasi sfrigolanti nell’aspettativa di… Ah, se soltanto la TV internazionale potesse essere lì, per assistere ad un tale gesto! Se i satelliti di Google, lasciata l’orbita geostazionaria, trovassero il modo di puntare l’obiettivo sul suo volto, per un attimo e in obliquo, al fine di conoscerne l’identità. Quel giorno, finalmente, saremmo a conoscenza del Segreto. Senza più doverci accontentare delle inefficienti imitazioni del nirvana del filetto, l’apogeo della cibaria, vedi questo strano e malriuscito esperimento della Syracuse University, proprio nel centro rumoroso di New York. Dove, nonostante le molte trovate dell’apoteosi cinematografica, mai ebbe a palesarsi questo spettro del vulcano, l’orribile bocca infuocata che rigetta verso il cielo. Fino ad ora, fino ad oggi, finché a Bob Wysocki (assistente professore d’arte) e Jeff Karson (cattedratico di scienze della terra) non è venuta l’idea di mettersi a produrre scienza tanto per gradire, e così tanto facilmente, grazie all’uso della lava “fatta in casa” ovvero roccia pura e fusa, alla bisogna, dentro un grande calderone posto (molto) in alto. Con lo scivolo di fronte e poi…Dopo dipende. Sul canale Vimeo del primo dei due, traboccante d’inesorabili devastazioni, è possibile assistere allo spettacolo non-del-tutto-naturale dell’effusione lavica che s’incontra con la sabbia, col cemento, con più vasche piene d’acqua, che non costa e questo è un bene. A tal punto era insaziabile la sete di nuove bizzarre sperimentazioni di ciascuna delle altre eminenze coinvolte in ciò che sarebbe stato definito a posteriori il Lava Project, che ciascuno gridava a gran voce la sua idea, in un caustico bailamme di presunte dilapidazioni. Un po’ come un ragazzo troppo cresciuto con un fuoco d’artificio, che non sa se metterlo dentro un mucchio di foglie, un recipiente di sabbia, un secchio della spazzatura…Oppure: “Proviamo con il ghiaccio, heh, heh, heh.” Si, dai, mettiamoci la LAVA e così… È stato. Una scena orribilmente affascinante, andata in onda nel corso di una puntata della terza stagione del programma Outrageous Acts of Science durante la quale il flusso squagliato è stato fatto scendere sopra un lastrone congelato, al motto e la domanda di “Cosa mai succederà?” Un’esplosione (probabilmente ci speravano) o magari l’immediato squagliarsi della superficie, troppo liscia e delicata per fermar l’effetto gravitazionale sulla pietra fusa (e vabbé) oppure, oppure…La realtà, come tanto spesso capita, riuscì a superare l’immaginazione: il flusso incandescente, raggiunto quello specchio d’acqua congelato, iniziò a vaporizzarlo, ebbene si. Da uno stato all’altro della materia, saltando quello che ci stava in mezzo. Letteralmente ma con un significativo corollario: le particelle umide, lanciate verso il cielo, che si ritrovano a sbarrargli la strada un generoso strato, guarda caso, di LAVA. Il risultato fu la formazione di uno straordinario susseguirsi di bolle nerastre, sovrapposte nella furia e nel bisogno di scappare via. Ma riassunte, facilmente, nella poetica espressione: “A voi non sembra un po’ una pizza?”
E così, a costoro venne fame. E quando hai a disposizione le risorse monetarie di un gruppo di ricerca universitario statunitense, poco ma sicuro, non puoi certo accontentarti di uno snack. Basaltica fu l’occasione. Piroclastica, la gioia delle gente. Insomma tanto è stato, han fatto ed è successo, che alla fine loro, gli studenti assieme a chi altro di dovere (o gusto personale) si son ritrovati con un carico di splendide bistecche, corposi doni della mucca al mondo, e poi salsicce, un trancio di salmone. Che ottimo pretesto per far festa. Ma l’impazienza è una cattiva consigliera, ed il bisogno di far conoscere al mondo il proprio lavoro, a volte, porta a strani eccessi. Così posizionato lo scivolo pietroso sotto la fornace ribaltabile, vi hanno piazzato sopra il tipico sostegno di metallo. Per fare del convivio un’altra scena offerta in sacrificio al grande nume della scienza.

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Per gustare il ramen del demonio

Hell Ramen

Un cucchiaio più pesante di un macigno, due bacchette come pali della luce. Un vulcanico cratere fatto di ceramica, deposto sopra il tavolo del variopinto ristorante. Là dietro, se ancora avessimo la forza di girarci, scorgeremmo la parete fotografica con volti che ci guardano felici. Sarebbero costoro, il gruppo dei prescelti dal fato, gli eroi che hanno superato l’ardua prova. I sopravvissuti del Jigoku Ramen (piccantezza indescrivibile, gloria insuperabile). Penetra un refolo di vento, il gracidare della rana che trafigge il fresco ambiente conviviale. Beato l’animale! Batrace che non ha voglia di punirsi, per il gusto del momento successivo. Sudore ormai sgorga copioso dalla fronte; il piatto sembra un mistico portale, verso dimensioni sconosciute e ultramondane. Sparisce, giosamente, l’ultimo degli spaghetti. Ciò che resta è solo il liquido rosso-diavolo della mostruosa zuppa, il fuoco ultimo della creazione. E chi avrà mai il coraggio di…Berlo?
Se c’è un leit-motiv ricorrente nella voglia di creare giapponese, almeno per il modo in cui ci è dato di comprenderla attraverso le moderne forme letterarie d’intrattenimento, questo è certamente il tema dell’incontro. La preponderanza delle pagine di brevi romanzi, innumerevoli puntate di serie animate, volumi su volumi di pluri-premiati manga, sono spesi nel narrare l’avventura del viaggio di un gruppo di personaggi, divisi dalle circostanze, che per pura coincidenza si ritrovano l’un con l’altro, in genere poco prima di un confronto o una battaglia col destino. Sarà forse per l’effetto storico della Tokaido, strada di epoca Tokugawa (1600–1868) che congiungeva l’ancestrale Kyoto con la rinata capitale Edo, Tokyo del futuro carico di aspettative. Un singolo sentiero a far da arteria principale dello Honshu, isola maggiore di Nippon, ove certamente tanti abili guerrieri, dignitari e daimyō con castelli giù nella provincia si finivano per incrociare e darsi il passo, quando necessario. Oppure chi può dirlo, sarà una questione dalle origini più spirituali: dalla credenza spiccatamente buddhista secondo cui nell’attraversamento dell’eterno ciclo del Saṃsāra, tra una reincarnazione e l’altra, esisterebbero dei gruppi (nakama) di persone che una sorta di Provvidenza fa restare unite, attraverso i secoli, i millenni e molte vite differenti, finché non sopraggiunga l’illuminazione democratica di tutti quanti, sempre assieme addirittura in quello. Del resto il karma, un concetto tutt’altro imponderabile, può essere riscosso facilmente da un vecchio nemico, se non oggi, quando il tuo corpo naviga lungo la riva di quel proverbiale fiume che è la storia. La quale indesiderabile circostanza, a quanto pare, può essere allontanata con un paradosso. Ma ci vuole coraggio, per assaggiare il nettare della mortalità…

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La moda coreana del mangiare per un pubblico di sconosciuti

Mukbang

Tra i più interessanti e innovativi fenomeni sociali provenienti dall’Estremo Oriente, il Mukbang è quella prassi, tipicamente coreana, secondo cui un ragazzo o una ragazza si collegano al sito di streaming video AfreecaTV (Any Free Broadcasting) per vestire i panni di un tipo diverso di supereroe. È frutto di un bisogno estremamente nuovo di quel paese antico, oggi notoriamente dedito al culto della bellezza e della celebrità. Nonché un qualcosa che, seppure ci appare così lontano, in qualche misura ed un tempo medio potrebbe trovare un senso pure qui da noi: mangiare senza nessun tipo di preoccupazioni. Bruciare metaforicamente i libri sulle diete, accettando le temute conseguenze, concedersi un momento, due ore, sei giornate per fagocitare quantità spropositate di cibarie, dangmyeon (spaghettini) con chapchae (verdure fritte) e sam gyup sal (carne di maiale) seppia ricoperta di cho gochujjang (la pasta di fagioli rossi) e poi kimchi, naturalmente, quel cavolo fermentato e reso piccante grazie ad ogni sorta di spezie che è un vero e proprio simbolo della nazione, mangiato a fette, a dadini, nella zuppa, con il pane o direttamente dal barattolo, con bacchette o mani rigorosamente ricoperte di cellophane, per non sporcarsi. Ma la fame non riconosce alcun tipo di confine e così negli ultimi tempi, visto il diffondersi di questo strano passatempo, i suoi praticanti hanno cominciato a nutrirsi pubblicamente anche con piatti tipici di altre culture, ivi incluso l’iper-calorico cibo dei fast-food in stile americano, pollo fritto e tutto il resto. Ed è un vero tripudio dell’ingollamento, la festa della masticazione, da accompagnarsi rigorosamente con bevande di tipo variabile, ma sempre anch’esse in grado di contribuire al contenuto energetico del lauto pasto. Mentre la gente guarda, e immagina. Come sarebbe, un giorno, dimenticata l’ansia di apparire, poter mangiare come questi spregiudicati divoratori, tanto dediti alla piacevole autodistruzione quanto, giovani, attraenti e ragionevolmente magri, nonostante tutto…
Nell’ultimo documentario della serie Munchies, prodotto collaterale dell’articolata testata Vice, l’ex-modella inglese Charlet Duboc si dedica all’ardua missione di presentarci questo strano mondo, attraverso la lente di una critica oggettiva e spassionata. Si comincia, come tanto spesso capita, presso un mercato: quello del cibo di Kuan Jung, “vecchio quanto la Corea” un simbolo ancestrale di Seul, ove abbondano le bancarelle, i forni mobili, coloro che forniscono talvolta gli stessi praticanti del Mukbang. L’inizio è strutturato come una sorta di contro-dichiarazione d’intenti, in cui la corrispondente ci mostra i sensi e i ritmi della tradizione, per poi spostarsi, repentinamente, verso l’ambito della nuova selvaggia gioventù. Quindi inizia il bello: per il tramite di un lavoro di ricerca e interpretariato certamente non indifferente, facciamo visita ad alcuni dei maggiori BJ (Broadcast Jockeys) del momento, ciascuno mostrato durante un momento differente della sua giornata. BJ SOF, 30enne, nel suo appartamento che assomiglia a una cabina di regia. Colui che vorrebbe, un giorno, aprire il proprio ristorante, applicando le tecniche imparate in questi anni. Wang Joo, la ragazza che viene convinta, in qualche modo, a organizzare una cena con i capi del suo vasto fan club da trasmettere in diretta, la quale si risolve in un bizzarro convivio silenzioso, in cui tutti chattano col cellulare invece di guardarsi in volto, dopo il primo scambio di regali. E infine Biryong l’entertainer consumato, che trasmette da una tenda in un parcheggio in mezzo al freddo e al gelo, indossando su grande richiesta l’uniforme di quando faceva il cuoco per l’esercito, durante il servizio militare.

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