L’antica tomba giapponese che potrebbe contenere la piramide di Giza

Forma geometrica perfetta in mezzo al mare di edifici, spazio definito, al tempo, con un obiettivo ben preciso. Che nessuno, da quel fatidico momento, avrebbe mai tentato di rimpiazzare: non è semplicemente possibile sopravvalutare l’aspetto invidiabile, e quasi surreale, di Central Park all’interno delle foto satellitari dell’isola di Manhattan a New York. Poiché persino la maggiore forma tentacolare e quasi biologicamente riproducibile del moderno agglomerato urbano, la metropoli, non può fare a meno di rispettare i limiti creati dai propri predecessori, siano questi vecchi di un secolo o magari un paio di millenni. Molti tendono a trascurare, d’altronde, come le due più grandi piramidi dell’Antico Regno non siano in effetti per nulla distanti dalla zona a maggiore intensità urbana dell’odierna capitale Il Cairo. Ed ogni scena con gli esploratori che raggiungono quei luoghi a dorso di cammello, procedendo molte ore nel deserto, siano soltanto una drammatizzazione fittizia ormai fortemente radicata nella cultura di massa globalizzata. E sapete cosa, invece, non lo è? La tomba a tumulo con la forma a buco della serratura del 16° imperatore Nintoku, costruita tra il III e VI secolo dove oggi sorge una città di 828.000 abitanti e che oggi ne costituisce, in proporzione, un’area verde paragonabile a Central Park.
Sto parlando nello specifico della città giapponese di Sakai, situata nella prefettura di Osaka nella parte centro meridionale della lunga isola principale di Honshu, in perfetta corrispondenza geografica con quello che un tempo aveva costituito il centro politico ed economico della cosiddetta civiltà Kofun. Durata un periodo che si estese dal 300 al 538 d.C. e fatto corrispondere generalmente ai primi due secoli d’egemonia da parte della classe regnante del clan Yamato, che avrebbe posto le basi della presente e futura cultura di quel paese, benché la datazione dei singoli eventi e riforme resti per lo più nebulosa. Ciò che invece conosciamo molto bene, in merito a questi antichi abitanti dell’arcipelago d’Oriente, sono le loro usanze funerarie e commemorative dei personaggi più influenti, giunti a noi attraverso la particolare creazione architettonica che di suo conto, da il nome all’intero periodo storico rilevante. Una tomba Kofun (古墳 – letteralmente, antico tumulo) costituisce infatti la realizzazione di un perfetto monumento in grado di attraversare ragionevolmente integro le Ere, spesso utilizzato per contenere, assieme al corpo del defunto, una straordinaria collezione di oggetti votivi. Tesori caratterizzati, in larga parte, dalla credenza che fosse possibile trovare ad aspettarci nell’Oltretomba tutti quegli oggetti che, in maniera simbolica, erano stati sepolti assieme a noi, dando vita alla pratica artistica e creativa degli haniwa (埴輪 – cilindri di terracotta) ovvero rappresentazioni in tale materiale di soldati, cavalli, abitazioni ed altri beni terreni. Creando collezioni tanto numerose da richiedere, in talune circostanze, tumuli di dimensioni sempre maggiori e nessuno grande quanto, per l’appunto, quello straordinariamente imponente dell’Imperatore. Il Daisenryō Kofun (大仙陵古墳) tomba più estesa del Giappone e del mondo, misura quindi 166 acri di estensione, con un’altezza su tre livelli di 35 metri rispetto al territorio circostante. Pur raggiungendo appena un quarto dell’elevazione della Grande Piramide, quindi, esso vanta una capienza complessiva di molto superiore, potendo contenere integralmente l’intero ammontare dei suoi materiali di costruzione. Una caratteristica orgogliosamente messa in evidenza presso il museo cittadino, dove un modello della tomba è sovrastato dalla forma trasparente del grande monumento egizio, mostrando un chiaro raffronto delle rispettive dimensioni. Il che, del resto, contribuisce ben poco nell’aiutarci a contestualizzare l’effettivo contesto storico, caratteristiche desiderabili e premesse che avrebbero portato alla costruzione di un simile complesso spropositato…

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Le straordinarie circostanze del tappeto intrecciato più antico al mondo

In un momento imprecisato attraverso il lungo tragitto cronologico del Mondo Antico, ladri di tombe si spingono a dorso di mulo al di là dei brulli territori dei monti Altai in Siberia. Seguendo voci prive di conferma, discendono le pendici della valle di Ukok, a sud dell’odierna città russa di Novosibirsk, non troppo lontano dal confine con la Mongolia. Qui riescono a trovare, dunque, senza attirare indebite attenzioni, alcuni esempi dei tumuli di pietra e terra noti alla posterità con l’antonomasia archeologica russa di kurğan, in effetti un termine che vuole dire in turco, “fortezza”. Vanghe alla mano, un poco alla volta, riportano alla luce camere mortuarie costruite in legno e ricolme di splendidi tesori al di là di ogni possibile aspettativa: gioielli, armature, monete, suppellettili di vario tipo. Nel frattempo i ladri, nella loro frenesia, compiono due gesti in apparenza privi di significato: primo, lasciare alcuni oggetti involati, poiché da loro giudicati privi di valore, tra cui mummie, abiti e tappeti. Secondo, non richiudono la tomba, lasciando tali strane cose esposte alle intemperie. Ora, sarebbe ragionevole pensare che un simile evento abbia costituito un ostacolo insormontabile per lo studio futuro dei nostri antenati. Ma date le circostanze climatiche altamente insolite di questo luogo, quello che succede dopo è un punto di svolta fondamentale: l’acqua filtra, un poco alla volta, fino angoli più estremi delle tombe. Completamente isolata dall’aria calda che soffia da meridione, a quel punto, si ghiaccia immediatamente. Come una magica teca di cristallo creata dalla natura, la capsula temporale a quel punto è pronta.
Trascorrono secoli, poi millenni, fino al recentissimo (in prospettiva) 1954. Sergei Ivanovich Rudenko, antropologo seguace della scuola francese e membro della Società Geologica Russa (IRGO) viene inviato in quegli stessi luoghi con un seguito d’aiutanti, per approfondire le limitate conoscenze delle locali epoche pregresse, sulla base di un brano dello storico Erodoto, che qui localizzava un qualche tipo di misteriosa “Montagna d’Oro”. Definite squadre e gradi di responsabilità, quindi, l’equipe effettua una scoperta totalmente rivoluzionaria, in grado di cambiare radicalmente i preconcetti accademici su questo particolare contesto geografico e culturale. All’interno delle tombe, infatti, i russi trovano tra le altre cose un rettangolo di lana intrecciata di 178×195 cm, dalla colorazione tendente al vermiglio, che le informazioni possedute prima, quindi la datazione la carbonio permettono di far risalire al quinto secolo a.C. Grazie all’impiego di una quantità stimata di 1.250.000 nodi, artigiani senza nome l’hanno decorato con 24 figure geometriche composte da boccioli di fiori di loto, circondate da una serie grifoni, a loro volta racchiusi tra 24 daini e 24 cavalieri, idealmente rappresentanti 24 tribù dei nomadi di queste regioni. Rudenko, una volta completato l’elenco dei beni e salme ritrovati, rifiuta di attribuire i ritrovamenti a popoli già noti alla storia, come i cavalieri Sciiti del Ponto, scegliendo piuttosto un nome totalmente nuovo per questa cultura, derivante da una vicina località geografica: Pazyryk. Senza particolari esitazioni, quindi, decide di dedicare il resto della sua carriera di studioso, e in un certo senso la vita, ad approfondirne le caratteristiche dimenticate…

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Le 24 grotte impossibili nel sottosuolo cinese

Ci sono vicende che si ripetono più volte nel corso della storia, indipendentemente dal fatto che chi vi prende parte conosca la città di Troia ed il suo significato strategico nell’epoca classica d’Occidente. Verso l’inizio del V secolo a.C. in Cina, presso la regione del regno di Wu, la principessa straniera sposata con uno dei figli del monarca decise che non voleva più vivere con il marito marito, quindi si mise d’accordo con il seguito di servi e guardie del corpo per fuggire su un carro, in una notte di luna piena, verso la patria paterna, il confinante regno di Yue. Ciò mise immediatamente fine alla fragile pace tra le due nazioni, inducendo a rapidi preparativi per il conflitto finale. Le due armate si affrontarono quindi presso la località di Zuili dove, dopo uno strenuo conflitto, il re Goujian di Yue vide trionfare il suo esercito, riuscendo ad uccidere il re di Wu. Il quale tuttavia, prima di morire, avrebbe detto a suo figlio Fuchai “Non dimenticare mai Yue”. E lui non l’avrebbe dimenticato. Così che tre anni dopo, invadendo e devastando le terre del suo nemico, il giovane sovrano riuscì finalmente a catturare Goujian, facendolo prigioniero e trasformandolo in schiavo per punirlo. Tre anni dopo, per ragioni per lo più politiche, il sovrano fu rilasciato e fece ritorno in patria, dove assunse di nuovo la posizione di preminenza. Ma qualcuno avrebbe detto, con ottime ragioni, che l’esperienza di servitù l’aveva cambiato. Ora che conosceva la futilità delle ricchezze terrene, il re viveva in solitudine, e si nutriva di pietanze più adatte alle classi inferiori. Dormiva su una branda di rami appoggiata sul duro pavimento. E ogni giorno, beveva un intero bicchiere di bile, per mantenere fresca nella memoria l’esperienza della sua lunga umiliazione. Secondo una leggenda, quindi, fu in questo periodo che egli iniziò, in grandi sale sotterranee, a preparare l’armata invincibile che gli avrebbe permesso di avere l’ultima parola.
Le cronache coéve raccontano di come l’esercito del regno di Yue a partire da quel momento fosse capace d’incutere terrore nel cuore dei suoi nemici, poiché era composto di “criminali che si erano suicidati tagliando la loro stessa testa” (si sarà trattato di una metafora?) i quali erano soliti “correre incontro alle frecce alla maniera di persone assetate dopo una lunga marcia”. Il che fu ritenuto per lungo tempo una mera esagerazione degli storici, finché nel 1992, nella regione dello Zhejiang (l’odierno regno di Yue) una signora denominata “nonna Wu” (per quanto ci è dato di sapere, nessuna parentela) non si stancò di sentir ripetere, dai suoi coabitanti del villaggio di Longyou, che gli antichi serbatoi scavati nell’arenaria per l’irrigazione dei campi di cui disponeva l’insediamento erano “senza fondo”. “Tutto deve avere una profondità massima” era solita affermare la stimata anziana, portando infine alcuni dei suoi vicini a condividere la curiosità, e finanziando assieme a loro l’operazione di trasporto dalla vicina città di Jinhua di una potente idrovora elettrica, mediante cui drenare la più grande di queste pozze artificiali. Alla presenza di una piccola folla a cui era giunta la voce, quindi, i tecnici chiamati dalla donna iniziarono a far funzionare la macchina, che dopo diverse ore di lavoro, gradualmente, permise a un distante fondale di riemergere alla luce dimenticata della superficie. Ma quello che nessuno, fra le persone coinvolte, si sarebbe mai aspettato, era il grande ingresso che iniziò a fare capolino da sotto il livello del suolo, verso regioni letteralmente inesplorate del sottosuolo del mondo. Possibile che… Ci sono varie teorie, inevitabilmente. Nessuno sa realmente se le grotte di Longyou, destinate a diventare ben presto famose su scala internazionale, fossero il luogo nascosto in cui re Goujian aveva fatto addestrare il suo esercito di superuomini. Ciò che è certo, è che si tratti di un luogo unico al mondo, la cui effettiva natura esula da una semplice spiegazione storiografica di tipo convenzionale. Perché dopo questo primo episodio, altri seguirono l’esempio di nonna Wu, drenando i serbatoi che si trovavano nei loro terreni. Operazione al termine della quale, le grotte ritrovate furono 24, ciascuna delle quali composta da una singola, gigantesca sala, con un’estensione di 1.000 mq e una profondità di circa 30, e diversi altissimi pilastri di pietra naturale lasciati integri ad arte con lo scopo di sostenere il soffitto. Ma ciò che maggiormente colpì la fantasia dei locali, e degli studiosi accorsi per fotografare l’assurdo ritrovamento, era l’aspetto striato di tutte le pareti, quasi come se queste fossero state accuratamente incise per ragioni inconcepibili, oppure le caverne stesse fossero state create mediante l’utilizzo di un moderno macchinario di scavo. Prevedibilmente, la nutrita combriccola degli ufologi e i complottisti non tardò a farsi avanti con la loro eclettica antologia di spiegazioni.

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Il mistero archeologico degli aerei precolombiani

Sei nel bel mezzo di una passeggiata sul lungofiume assieme ai tuoi amici di vecchia data, tutti tombaroli, quando finalmente avvistate l’oggetto principale del vostro interesse: una struttura di muratura, semi-sepolta tra la sabbia in prossimità di un promontorio, simile a un cilindro privo della sua parte superiore. Forse per effetto dell’erosione, magari a causa di un pregresso disastro naturale, poco importa! Voi ben sapete che quell’oggetto avrà almeno cinque secoli, potenzialmente un millennio d’età. Eppure strano  a dirsi, nelle profondità più rurali della Colombia l’archeologia mainstream ha qualche problema a giungere coi suoi cataloghi e normative vigenti, causa l’assenza di guide disposte ad aiutarli e un’apparente disinteresse da parte delle autorità preposte. Il che va benissimo, per voi. Con una pala ciascuno, iniziate a scavare freneticamente, sperando di trovare la ragione della vostra venuta: un altro sarcofago di corteccia d’albero, al suo interno ancora le spoglie mortali di un antichissimo sacerdote, membro della famiglia reale, importante artigiano… Questa è l’informazione che avete ricevuto da un cacciatore locale ed esattamente come previsto, così è stato. Soltanto che, stavolta, la ricchezza che vi aspetta è qualcosa di precedentemente mai visto: circa 200 oggetti in lega d’oro dalla fattura straordinariamente pregiata ed i soggetti più interessanti che mai. In altri termini, la svolta per la vostra difficile vita trascorsa fin qui a scavare.
Siamo attorno… Al 1890, nessuno lo sa con certezza. Quando il coperchio fatale fu messo da parte da ignoti,, soltanto per trovarsi davanti a qualcosa che avrebbe cambiato la nostra concezione del passato sudamericano in maniera drastica e duratura: un’intera collezione di modellini d’oro. Raffiguranti persone, pesci, rettili e… Alcuni aerei? Senza dubbio così sembra, in modo particolare per quanto concerne un paio di soggetti simili a creature composite, potenzialmente ispirati dagli insetti. Stiamo parlando, tanto per dare un nome alle cose, del celebre tesoro dei Quimbaya, cultura della Colombia antecedente alla “scoperta” dell’America da parte degli europei, che dopo essere stato ritrovato da ladri senza nome, per qualche tempo vagò tra le occulte pieghe del mercato nero, prima di approdare nelle mani e nella collezione privata di Carlos Holguín, l’allora Presidente della Repubblica di questo paese, che ne donò una parte a María Cristina, regina di Spagna, ponendo le basi per una disputa legale che continua tutt’ora. È pur vero che allora, semplicemente non esistevano le basi per considerare un qualcosa come parte del patrimonio tangibile di un popolo, e quindi del tutto inaccessibile ai collezionisti privati. Così una parte del tesoro fu successivamente acquistata per vie traverse dal Banco della Repubblica di Colombia, per essere infine esposta presso il museo dell’oro di Bogotà. Ed è lì che tutt’ora si trova il più curioso di questi oggetti, assieme ai suoi simili, una “creatura” dalla forma marcatamente aerodinamica, che non si capisce bene cosa voglia effettivamente raffigurare. Ali a delta rigide nell’aspetto, che si trovano in corrispondenza della parte bassa del corpo. Una casistica inaudita nel regno animale. E una forma dell’addome che potremmo definire a tubo, esattamente po’ come una fusoliera. Per non parlare della coda che si erge nella parte posteriore, più simile al timone di un aeromobile che a qualsiasi altra cosa prodotta dalla natura. Con la possibile esclusione di un pesce volante, che deve usarla anche per spostarsi sott’acqua. Ma volete voi dirmi dove mai avrebbero visto questo animale gli antichi abitanti di alcune delle più profonde giungle sudamericane? È perciò possibile interpretare questi doni di accompagnamento per l’oltretomba, con uno scopo rituale non troppo dissimile da quello degli artefatti funebri egizi, come dei veri e propri oggetti fuori dal contesto (in inglese out-of-place-artifacts, in breve OOPArt) ovvero inspiegabili dalle nostre cognizioni pregresse su una particolare epoca o regione del globo. Perché la logica ci insegna che è assolutamente impossibile che questa cultura precolombiana dei Quimbaya possedesse la tecnologia per costruire degli aeromobili, visto come ancora non esistessero concetti come la saldatura, le viti e le lamiere. Per non parlare di quel piccolo dettaglio che avrebbe fatto la differenza: il motore a combustione interna. E allora che cosa, esattamente, si erano prefissati raffigurare costoro?

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