È ancora possibile osservare, sulle alture che dominano il piccolo paese di Mudurnu a metà strada tra le città di Istanbul e Ankara, le rovine del castello bizantino di Modrene, dove le truppe dell’usurpatore Artabasdos furono sconfitte dall’esercito regolare di Costantino V nell’ottavo secolo d.C. Chiunque avesse l’inclinazione ad appassionarsi a una tale rovina in muratura erosa dai secoli e dalle intemperie, tuttavia, farebbe una grande fatica oggi a filtrare un altro elemento, per così dire medievaleggiante, di questo paesaggio non propriamente incontaminato. Come per il risultato di una partita a Age of Empires, o una sessione selvaggia di Photoshop, file multiple dello stesso costrutto architettonico si susseguono in parallelo alla singola strada provinciale sottostante. Ciascuna in se stessa perfetta, con la sua torre conica, gli abbaini, il balcone dalla balaustra ornata e le pareti bianche come la neve. Ma tutte assieme capaci, in qualche maniera, d’evocare il senso di un luogo surreale ed impressionante. Naturalmente come sempre avviene, è tutta una questione di punti di vista. Per cui se noi europei pensiamo allo stretto sul Bosforo della principale città turca, e le zone ad essa limitrofa, non possiamo cancellare dalla nostra mente immagini tipiche del Medio Oriente, con cupole, moschee, mezze lune e tutto ciò che ne deriva sulla mappa cittadina di un ipotetico sultano. Mentre per chi viene dalle terre degli aridi deserti d’Arabia, è inevitabile associare questi luoghi all’antica Europa, un luogo percepito in taluni ambienti come ricco di misteri e talvolta, un fascino ineffabile e remoto. Ne deriva che un territorio come questo, assai lontano dalle influenze dell’urbanistica moderna, possa essere associato idealmente, da un facoltoso industriale dell’Oman o dell’Arabia Saudita, alla Francia ed in modo particolare a uno specifico castello appartenuto, tra gli altri, alla regina Caterina de’ Medici nel XVI secolo, la cui conformazione ricorda una versione in scala superiore di ciò che qui ci ritroviamo costretti a vedere pressoché ad infinitum.
Questo sembrerebbe aver pensato, con un chiaro intento rivolto al guadagno commerciale, il personaggio diventato recentemente famoso all’estero di Mezher Yerdelen, capo della società d’investimenti immobiliare Sarot Group nonché un esponente di secondo piano del partito islamista della Felicità, entità politica fortemente radicata nel territorio pur non essendo al momento una forza di primo piano nelle elezioni nazionali. Il cui prestigio personale deve aver ricevuto una forte scossa, come del resto quello di molti suoi omologhi in altre grandi aziende, quando a seguito del crollo finanziario della lira turca concretizzatosi nei primi mesi della scorsa estate, per una serie di fattori tra cui le sanzioni imposte dagli Stati Uniti, si è ritrovato a dover dichiarare banca rotta. E di sicuro non ha aiutato il fatto che i preordini per una buona metà del suo progetto fossero stati improvvisamente cancellati allo stesso tempo, per ragioni largamente ancora da chiarire. Fermando a poco più di tre quarti l’avveniristico, e per certi versi incredibile progetto del consorzio Burj al (torri di) Babas, inizialmente concepito come terreno fertile d’investimento per un certo tipo di magnate dell’industria delle risorse petrolifere ormai non più entusiasta all’idea, con costi unitari per residenza che spaziavano tra i 370.000 e 500.000 dollari americani. Ciò che si è presentato dunque, all’inizio del 2019 e sotto l’obiettivo delle telecamere finalmente puntate sulla questione (si sa, il dramma crea sempre interesse) è uno scenario di esattamente 587 piccoli castelli di circa 400 metri quadri l’uno, come una versione psichedelica della regione della Loira qui trapiantata ma lascito all’improvvisi deserti, a causa di una singola quanto devastante catastrofe sociale. Il vento soffiava tra le loro finestre vuote, come la voce di altrettanti fantasmi ululanti al calare della notte…
arabia
Chi ha tracciato le titaniche figure nel deserto dell’Arabia Saudita?
È una questione raramente considerata, nel breve curriculum sugli studi umanistici che accompagna spesso la formazione di quella che viene definita cultura generale. Eppure, come sappiamo, esiste un lungo periodo di vuoto tra il momento in cui i nostri primi antenati fecero la loro comparsa lungo il percorso evolutivo della vita sulla Terra e i più antichi e concreti resti di una qualche civilizzazione che siano giunti intatti fino alla nostra Era. Ecco perché, in determinati ambienti, sussistono le teorie più disparate per giustificare questo o quell’antico monumento: “L’inferenza ci dimostra che in base al livello tecnologico posseduto dagli imperi del Mondo Antico, è impossibile che 4.000, 5.000 anni fa qualcuno abbia costruito qualcosa di tanto grande e magnifico. Ergo…” Alieni. Esseri sovrannaturali. Misteriose razze di giganti. E sarebbe facile liquidare un simile atteggiamento come mera conseguenza dell’ignoranza, quando la realtà dei fatti è che si tratta, essenzialmente, di un fallimento della scienza archeologica e dei suoi traguardi.
Perché l’uomo frutto dell’educazione tipica dell’Occidente moderno & contemporaneo quando vede qualcosa, deve necessariamente subordinarlo alla propria visione individuale. Non come i beduini che negli anni ’20 dello scorso secolo i quali, interrogati dai postini aerei della Royal Air Force costretti dal proprio mestiere a sorvolare quelle sabbiose terre, definirono gli strani simboli circostanti la zona vulcanica di Harrat Khaybar come un “Prodotto degli antichi popoli” senza null’altro portare al pendente dibattito accademico sulla questione. Tale esistenza, dunque, continuò ad essere menzionata occasionalmente nelle tesi di laurea, le conferenze tematiche e figurare negli itinerari di questo o quel professore, sufficientemente avventuroso da porsi alla testa di una spedizione nelle zone sempre difficili del Medio Oriente; non capita tanto spesso, del resto, di avere l’opportunità di studiare quelli che possono soltanto essere definiti come dei veri e propri disegni fuori misura tracciati con le rocce disposte ad arte, talvolta circolari, altre configurati come dei rettangoli o veri e propri aquiloni, dell’ampiezza paragonabile a quella di un campo da football o persino oltre, sfidando agilmente le proporzioni dei famosi geoglifi della piana di Nazca, senza tuttavia la loro evidente valenza figurativa rivolta al mondo della natura.
Ecco, dunque, l’inizio di questa fantastica storia: con il Prof. David Kennedy dell’Università dell’Australia Occidentale (UWA), esperto di tracce lasciate dall’Impero Romano, che intraprende l’ennesimo viaggio nei dintorni della città sacra di Medina, chiedendo senza riuscire ad ottenerlo il permesso di sollevarsi in elicottero sopra l’harrat, per poter scorgere nuovi schemi nella disposizione di queste figure. Per vederselo, ancora una volta, rifiutato. Se non che al ritorno in patria, su suggerimento di un collega, non riceve l’intuizione di fare un qualcosa di molto simile a quel gesto che conosciamo assai bene, ogni qual volta dobbiamo preparare un itinerario o visitare una nuova città: così apre Google Maps, e scopre qualcosa di assolutamente monumentale. Che negli ultimi passaggi dei satelliti noleggiati dal colosso informatico americano, determinate zone dell’Arabia Saudita hanno ricevuto una mappatura in alta definizione. E che tramite le foto risultanti, si riescono a individuare i disegni che tanto a lungo l’avevano coinvolto ed affascinato. Siamo ad ottobre del 2017, quando sulla base dei nuovi dati acquisiti, egli pubblica un articolo in materia sulla rivista scientifica di settore Arabian archaeology and epigraphy, ottenendo un’invidiabile visibilità online. Ovviamente, i giornalisti di Internet perennemente in cerca di click erano più che mai pronti a gettare ulteriore benzina sul fuoco delle ipotesi selvagge e i cosiddetti Antichi Alieni. Ma i suoi cinque minuti di celebrità erano destinati ad avere anche un effetto positivo, come scoprì all’improvvisa comparsa di un messaggio nella sua casella E-Mail: “Buongiorno, siamo l’Arabia Saudita. La sua richiesta di sorvolo è stata approvata…”
Il sangue degli alberi sull’isola del drago
Secondo la tradizione, fu in primo luogo l’esperienza di un uomo, notoriamente incredulo. Il viaggiatore con una Grande Missione, forse la più grande di tutte: salire su una nave e viaggiare ad Oriente, per trasmettere in India gli insegnamenti di Gesù. Ma l’apostolo Tommaso, secondo le credenze di questi luoghi, non sarebbe mai giunto sul continente dalle mille e più culture. Poiché forse per volere di Dio, oppure del Fato, avrebbe invece sperimentato l’esperienza terribile di un naufragio, approdando forzatamente proprio presso l’unica isola degna di questo nome che si trovasse a largo del golfo di Aden, tra il corno d’Africa e lo Yemen. Una terra del tutto fuori da questo mondo. Un luogo misterioso ed almeno all’apparenza, sovrannaturale. È del tutto possibile, in effetti, nascere in un luogo e prendere atto della sua flora e fauna come un qualcosa di assolutamente normale, benché appartenente biologicamente ad un ecosistema totalmente scollegato dal resto del mondo. Dopo tutto, se l’hai sempre conosciuto, che c’è di strano? Ma pensate all’esperienza dei primi naturalisti che raggiunsero l’Australia, oppure le Galapagos o le giungle del Brasile. O immaginate, ancora, l’aspetto della singola terra emersa (non di origine vulcanica) che si distanziò per prima dalla massa ultra-continentale del preistorico Gondwana. L’isola di Socotra, con gli altri tre scogli sovradimensionati che costituiscono il suo “arcipelago” esiste in assoluta solitudine, si ritiene, almeno dal Miocene, ovvero un minimo di 5 milioni di anni fa. Abbastanza per sviluppare un suo intero ecosistema, estremamente caratteristico e secondo alcuni, del tutto alieno. Una qualità che gli deriva, in primo luogo, dall’aspetto insolito della sua vegetazione.
Non ci sono mammiferi endemici superstiti, su quest’isola, tranne i pipistrelli, ma quasi tutto il resto è solo ed esclusivamente suo. Numerose specie di rettili ed insetti, ragni e granchi mai visti altrove. Uccelli, migratori e non, che da tempo immemore costruiscono il nido unicamente nell’area delimitata da queste spiagge. E questo non è tutto: si ritiene che i quasi 2.000 anni di abitazione da parte degli umani abbiano, nel tempo, ridotto esponenzialmente la quantità di specie originali portandole all’estinzione, soprattutto introducendo animali domestici, come le capre. Ma c’è ancora qualcosa che sopravvive indisturbato, benché ridotto di numero rispetto all’epoca più antica: l’albero del sangue di drago, altrimenti detta Dracaena cinnabari. Unica fonte, sacra ai locali, di una resina rossa nota come il cinabro, che si riteneva potesse fungere da panacea di tutti i mali. Oltre a servire per la creazione di una tintura, estremamente preziosa in campo tessile e per la realizzazione di mobili laccati. Secondo la leggenda, dopo il naufragio San Tommaso costruì la sua chiesa impiegando il legno della nave con cui aveva progettato di attraversare l’Oceano Indiano. Quasi come se il legno proveniente da questa terra non potesse realmente definirsi parte del regno di Dio.
Secondo la maggior parte dei racconti degli eco-viaggiatori, che oggi si spingono fin qui con assoluta disinvoltura e giustificato senso d’aspettativa, l’albero in questione è anche la principale ragione che è valsa a quest’isola la nomina di “luogo più alieno della Terra”. Basta uno sguardo, per capirne la ragione: come le altre dracene originarie dell’Africa, il sangue di drago è un arbusto che presenta pennacchi di foglie nastriformi al di sopra di un labirinto di rami simili a radici. Queste ultime, tuttavia, appaiono totalmente rigide, puntando in ogni direzione come gli aculei di un porcospino. La sommità della chioma, poi, appare quasi perfettamente piatta, enfatizzando ulteriormente questa illusione ottica di trovarsi di fronte ad un’albero girato al contrario. La compattezza estrema delle fronde, in realtà, ha uno scopo ben preciso: in quanto Socotra presenta un clima arido che si avvicina pericolosamente a quello di un deserto, e l’evaporazione dei liquidi costituisce un potenziale problema. Così i rami dell’albero si proteggono vicendevolmente, assicurandosi che almeno una parte di loro, per quanto possibile, rimanga in ombra. Un tempo, questi alberi prosperavano grazie alle nebbie e foschie mattutine, oggi più rare in funzione del mutamento climatico. Essi non sono che le antiche vestigia di un’epoca remota, assieme ai loro molti compagni di sventura…
Un gatto invisibile che scava buche nel deserto
Nord Africa, Medio Oriente, Asia Centrale. Quando la popolazione di una specie animale si aggira tra i 200 e i 300 esemplari, può essenzialmente andare in entrambi i modi. Nel giro di una decina d’anni, a seconda della sua capacità di adattamento, dallo stato ambientale dell’area presa in esame, dalle iniziative di conservazione messe in atto dalle associazioni naturalistiche, essa può riprendersi e tornare a prosperare. Oppure estinguersi nel giro di un paio di generazioni. E non puoi aiutare in alcun modo quello che non puoi trovare, giusto? Così ormai erano davvero in pochi, tra gli studiosi degli Emirati Arabi Uniti, a credere che l’antica popolazione locale del gatto delle sabbie (Felis margarita) fosse ancora attestata nel raggio di molte migliaia di miglia dai confini del paese. Finché la piccola e sfuggente creatura, del peso medio di appena due-tre chilogrammi, non è stata nuovamente avvistata l’anno scorso nei pressi di Abu Dhabi, per la prima volta dall’ormai remoto 2005. Tre esemplari, per essere più precisi, nella regione ad ovest della città, in un area di piccole dune ricoperte di vegetazione rada e cespugli nani, particolarmente adatta alle abitudini e lo stile di vita dell’unico gatto in grado di sopravvivere nel deserto. Di sicuro, non è stato facile: gli addetti dell’Al Ain Zoo hanno dovuto fare affidamento su una grande quantità di telecamere con sensore di movimento, disposte in un’area di circa 2 Km quadrati e rese più attraenti grazie al posizionamento di scatolette aperte di cibo per gatti domestici. Un’impegno ricompensato, tuttavia, dallo spuntare di quella testa stranamente triangolare, con le orecchie impossibilmente grandi nella stessa maniera dell’ancor più piccola volpe di Fennec, la doppia coppia di strisce nere sulle zampe anteriori e la striscia marrone che dai lati degli occhi, corre fin sui margini del volto come una sorta di trucco teatrale. Impossibilmente grazioso, con proporzioni tali da poter quasi restare, in determinati casi, un gattino per la maggior parte della sua vita. Eppure così dannatamente scaltro, tanto furbo e adattato a fare affidamento sulle sue sole, notevoli capacità di sopravvivenza…
Per tutti questi anni, in effetti, il gatto delle sabbie non se n’era andato da nessuna parte. Non aveva, neppure, cambiato le sue abitudini. Animale per lo più notturno, è tuttavia perfettamente in grado di avvolgersi di un alone di suprema segretezza anche durante le occasionali escursioni diurne, alla ricerca dei roditori, piccoli rettili ed insetti di cui si nutre. Grazie ad una serie di strumenti evolutivi dalla portata tutt’altro che trascurabile: intanto la colorazione del suo manto, di un beige chiaro che riprende per quanto possibile l’arida tonalità del suo areale. Ma anche il modo con cui è solito camminare, appiattito al suolo, evitando di stagliarsi sulla sommità di una duna, rivelando la sua sagoma ad un numero eccessivo di occhi indiscreti. Il F. Margarita, così chiamato in onore di Jean Auguste Margueritte, capo sul finire dell’800 di una spedizione nel deserto del Sahara, durante cui il gatto fu per la prima volta descritto scientificamente da Victor Loche, può inoltre fare affidamento su un’adattamento particolarmente originale, relativo ai polpastrelli delle sue quattro zampe. I quali sono coperti da un fitto strato di peluria, che ha il duplice scopo di proteggerli dal calore della sabbia cotta dal sole, ma anche di nascondere con straordinaria efficacia le sue impronte, trasformandolo nell’equivalente di un alito di vento fra il nulla. Persino nel profondo della notte, nel caso in cui qualcuno gli punti contro una torcia elettrica, il gatto gode di un riflesso automatico che lo porta a chiudere gli occhi, oppure a distogliere immediatamente lo sguardo. Evitando con la massima efficienza, quindi, che un baluginio possa tradire la sua presenza. A concludere la serie dei suoi metodi per scomparire, quello forse più sorprendente: il gatto delle sabbie scava buche nel terreno (oppure s’impadronisce di quelle di volpi o porcospini) curandosi che siano sufficientemente ampie e profonde per la sua intera cucciolata di tre-quattro piccoli, all’interno della cui casa, oltre che stare al fresco, resteranno protetti da qualsiasi tipo di predatore. La visione di queste adorabili creaturine che mettono la testa fuori per spiare l’ambiente circostante deve offrire uno spettacolo impossibile da dimenticare!