Stanco per la guerra, Iosif Stalin appoggiò la pipa sopra il posacenere creato da un solo pezzo di cristallo di San Pietroburgo, compiacendosi di quel silenzio tanto a lungo considerato necessario in quell’inizio ottobre del 1941. L’ufficio situato al secondo piano del Cremlino era l’unico ambiente illuminato a quell’ora di tarda sera, in cui tra le alte mura rimanevano soltanto le guardie del palazzo e lui, intento a scrivere sulla semplice scrivania in legno. All’orario concordato, la persona che stava aspettando bussò alla porta, quindi aprì senza aspettare la risposta. Stalin sorrise sotto i baffi: non era mai stata un tipo formale, neanche quando gli avevano appuntato sull’uniforme le maggiori onorificenze della nazione. “Compagno Segretario” Esordì senza perdere tempo Marina Mikhaylovna Raskova, eroina dell’Unione Sovietica ed esperta pilota/navigatrice d’aerei: “Il nemico è alle porte. Sono venuta quindi a farti una richiesta che dovrà senz’altro trovare il tuo consenso. Lascia che anche noi possiamo fare la nostra parte! Noi donne, figlie, madri, combattenti per la libertà! Donaci le ali di cui abbiamo bisogno per proteggere la Madre Patria!” Stalin squadrò colei che aveva di fronte, prima di preparare una risposta. C’era stato un grande impegno collettivo, mediatico e di propaganda, tre anni prima, per far riconoscere al popolo in questa donna lo stesso spirito della celebre aviatrice statunitense Amelia Earhart, quando aveva completato assieme al suo equipaggio di due persone il viaggio a bordo di un bombardiere DB-2 da Mosca a Komsomolsk, nell’Estremo Oriente, oltre i 5.947 Km necessari a stabilire il più lungo volo in linea retta della storia umana. Il potente capo della nazione sovietica, probabilmente l’unico individuo che poteva farlo in quel momento della storia, decise quindi che era giunto il momento. Inarcando leggermente il sopracciglio destro, sollevò la mano dalla parte opposta. Il suo dito indice, medio ed anulare erano sollevati. Quindi spiegò per filo e per segno un’altra rivoluzionaria idea.
Tre furono, a partire da quel punto di svolta nella seconda guerra mondiale e fino alla sua fine, gli squadroni prevalentemente al femminile facenti parte della Voenno-vozdušnye sily, nome nazionale delle Forze Aeree, ciascuno dedicato a una diversa attività conducibile nei cieli della guerra: il 586°, dotato di aerei caccia Yak-1, successivamente Yak-7b e Yak 9, comandato da Tamara Kazarinova; il 587°, agli ordini della stessa Raskova, integralmente costituito da bombardieri leggeri bimotore Petlyakov Pe-2, destinato a produrre altre cinque eroine dell’Unione Sovietica in funzione delle sue gloriose gesta. E poi c’era il 588°, soprannominato con l’appellativo di battaglia “Streghe della Notte” con ben 24 delle sue aviatrici destinate a ricevere lo stesso status d’insostituibili tesori della battaglia. Questo particolare reggimento agli ordini di Yevdokiya Bershanskaya, d’altra parte, fu l’unico ad utilizzare una particolare tecnica per fare la guerra ai tedeschi, la cui semplice implementazione richiedeva un particolare tipo di approccio al pericolo, che essenzialmente subordinava la propria stessa sopravvivenza al completamento di una difficile missione. Tutto aveva inizio, normalmente, al sopraggiungere delle prime tenebre del vespro…
strategia
EA-18G: il ruggito elettronico di un disturbatore dei cieli
Il rombo del motore, appena udibile alla postazione di comando, veniva totalmente soverchiato dal sibilo insistente del dispositivo RWR sopra lo scenario montagnoso del territorio nemico, avvisatore di segnali radar ben direzionati verso quella scheggia di metallo quasi del tutto invisibile nel vasto cielo. “Al tuo segnale, sono pronto a scatenare l’inferno” fece l’uomo seduto dietro, attraverso la sua maschera per l’ossigeno, scrutando attentamente i propri tre monitor multifunzione, il più grande dei quali era configurato in modalità SA, per analizzare la situazione mediante i dati ricevuti dal suo collegamento a banda larga con l’aerosorvegliante AWACS per il trasferimento dei dati. Tre, quattro, cinque rampe di lancio per missili terra-aria nemici, tanto che appariva totalmente inconcepibile che il loro vulnerabile uccello da guerra potesse, in tempo utile, scagliare altrettante munizioni simili, ma con capacità di cercare autonomamente le fonti di un segnale radio (alias HARM). “3…2…1…Fai fuoco ora!” Disse il pilota/comandante, mentre il secondo membro dell’equipaggio premeva il grosso bottone rosso posizionato al centro della propria plancia di comando. Con un rombo inudibile, quindi, l’arma principale e vera ragione d’esistenza della loro stessa missione iniziò ad emettere un segnale. Poi molti. In un attimo, l’RWR tacque: da ogni punto di vista rilevante, i radar nemici avevano smesso di funzionare, all’unisono. E non sarebbero tornati operativi… Prima che fosse, ormai, troppo tardi.
Ritornando con la mente all’apice degli anni ’80, due cose sopra tutte le altre sapevano incarnare il mito delle avveniristiche tecnologie, nuova metrica di ciò che fosse percepito degno d’influenzare le future generazioni, in quanto canone dell’innegabile ed irraggiungibile rule of cool: la prima, Tom Cruise a soli 24 anni, reclutato per finzione dalla US Navy e circondato dalla cabina di comando di un possente F-14 Tomcat nel film Top Gun, film il cui messaggio patriottico sarebbe stato messo in secondo piano dall’appassionante dipanarsi di quel dramma certamente atipico e soltanto lievemente melò. L’altra invece erano gli hacker della neonata corrente letteraria e culturale del cyberpunk, virtuosi operatori di un oggetto del mistero, il nuovo ospite di molte case con la sua tastiera, il monitor ed altri orpelli, non meno misteriosi per l’uomo di marciapiede di una procedura di atterraggio/decollo dalla portaerei o il raggio operativo dei diversi missili montati sotto le ali di quel cinematico falco d’acciaio. Ma mentre quest’ultimo, col suo costo di svariati milioni di dollari nonostante si trattasse del prodotto di un concetto di superiorità aerea risalente ad oltre 15 anni prima, appariva ormai avviato verso il viale del tramonto, tutti sospettavano che la guerra del futuro avrebbe avuto i metodi e le ragioni per svolgersi all’interno dello spazio non tangibile e del mondo digitale, in maniera ben diversa, da quella che potesse ritrovarsi celebrata su pellicola in siffatta maniera. Perché dico, ve lo immaginate? L’attore più pagato ed ammirato di Hollywood messo ad interpretare il pilota di un ponderoso Grumman EA-6B Prowler, l’aereo da 25 tonnellate di peso a pieno carico e quattro membri dell’equipaggio, che sin dall’epoca immediatamente successiva alla guerra del Vietnam, aveva ereditato dall’EF-111A Raven la mansione di trasportare sulla prima linea il modulo di disturbo ad onde elettromagnetiche AN/ALQ-99, unico capace di accecare letteralmente qualsiasi antenna radar schierata sul territorio nemico. Certo, tutto può essere reso affascinante con la giusta sceneggiatura e abilità registica in cabina di montaggio. Ma certe cose, appaiono meno probabili d’altre…
Dunque resta chiaro che tra le tante mancanze di cui possano essere accusate le Forze Armate americane, non figuri certamente l’incapacità comunicativa o pubblicitaria. Ragion per cui, quando nel 1991 un lungo processo tecnico condotto a più livelli stava per sfociare nella sostituzione su larga scala a bordo delle super-portaerei americane del beneamato Tomcat (“micetto”) con un letterale calabrone, lo sfinato ed innegabilmente alquanto mingherlino F/A-18E/F “Hornet” della McDonnell Douglas, più di una voce si sarebbe sollevata nel Congresso ed altrove per dubitare in primo luogo delle prestazioni di un così nuovo aeromobile, ma anche e sopratutto della sua palese carenza in materia di autonomia strategica, fattore necessario a combattere battaglie in alto mare distanti dal gruppo navale. Che tutti sapevano, si doveva risultare direttamente traducibile nel così fondamentale, imprescindibile carisma del cavaliere solitario.
Serie MQ-8: il valore tattico di un elicottero rimasto privo del suo pilota
Attraverso l’evoluzione della loro lunga e articolata storia bellica, la dottrina bellica degli Stati Uniti ha sempre trovato un metodo nell’applicazione pratica del principio secondo cui “di più è meglio”. Particolarmente negli scenari di tipo marittimo e oceanico di epoca contemporanea, dove terminato l’epocale conflitto contro la marina giapponese, i vertici dello stato maggiore sembrarono acquisire per osmosi da quest’ultima l’approccio costruttivo di un minor numero di navi, ma più grandi, armate e potenti. Soprattutto nel campo maggiormente rilevante in epoca corrente, di un battello in grado di portare sulla scena e rendere operativo un numero considerevole di aeromobili, con ruoli e funzionalità chiaramente definiti. Dover proteggere le coste di un territorio ampio come quello nord-americano, tuttavia, può giungere a richiedere un certo grado di flessibilità e snellezza tattica, che assai difficilmente le gigantesche portaerei di classe Nimitz con i loro incrociatori di scorta potrebbero arrivare a garantire. Ecco quindi l’origine, a partire dagli anni 2000, del progetto teorico per l’implementazione di una nuova classe denominata Littoral Combat Ship / LCS, sostanzialmente creata per colmare il grande vuoto tra le dimensioni un pattugliatore Cyclone della guardia costiera (328 tonnellate) e una fregata di classe Oliver Hazard Perry (4100 tonnellate) pur disponendo di un potenziale bellico capace di rivaleggiare con quest’ultima, particolarmente a distanza ravvicinata. Ciò poneva tuttavia un problema da risolvere: quale sarebbe stato il tipo di aeromobile, sin da principio concepito come un drone a decollo verticale, capace di allargare l’area di efficacia e rilevamento di un simile vascello? Dopo tutto, l’affidabile AAI RQ-2 Pioneer usato dalla Marina a partire dal 1986 cominciava a mostrare i suoi anni e i nuovi modelli, più grandi ed esigenti in termini di spazio di decollo, difficilmente avrebbero trovato una collocazione operativa sul ponte di volo ridotto di queste navi. Ben prima del varo delle prime due LCS, Freedom e Indipendence, avvenuto rispettivamente nel 2008 e 2012, il think-tank responsabile di questa evoluzione fece in modo che venisse indotto un concorso per un aeromobile comandato a distanza di tipo VTOL che fosse in grado di sollevare un carico di almeno 90 Kg, avesse un raggio di 200 Km a un’altezza massima di 6,1 Km e potesse atterrare in maniera affidabile su una nave soggetta a venti di fino a 46 Km orari. Propositi non facili da perseguire, a meno che il velivolo a comando remoto in questione non fosse basato sul più alto standard produttivo e di funzionamento, quello concepito, per l’appunto, al fine di trasportare esseri umani. E non è certo un caso, quindi, se l’appalto venne infine aggiudicato nella primavera dell’anno 2000 proprio a una joint-venture delle aziende Teledyne Ryan e Schweizer Aircraft, intenzionata a riprogettare il popolare elicottero a tre passeggeri della Sikorsky, modello S-333, frequentemente usato dalle autorità civili e costiere di una significativa percentuale degli Stati Uniti. A partire dalla prima ed essenziale tappa di un simile percorso: rimuovere sedili, quadro di comando ed ogni tipo di finestra per guardare fuori. Non più necessari o utili allo scopo, di quello che sarebbe diventato a partire da quel momento, famoso con il nome di MQ-8 Fire Scout…
Questo aereo con maniglia è la nuova sentinella svedese dei cieli
Nello scenario altamente dinamico di un conflitto aereo contemporaneo, caratterizzato da tempi d’ingaggio che raramente superano i 4 o 5 minuti prima che la supremazia possa essere conseguita dall’una o l’altra delle due fazioni, cui appartengono velivoli dal raggio progressivamente più elevato e versatile, difficilmente potrebbe sussistere l’intervento di un punto d’appoggio tattico a terra verso cui veicolare le informazioni, affinché il comando centrale possa prendere e restituire un qualche tipo di scelta informata di seconda mano. Per questo è essenziale che i piloti al comando, supremi comandanti de-facto del loro operato nei momenti di maggior tensione e importanza nella risoluzione delle loro missioni, dispongano del maggior numero d’informazioni concesse dalle moderne metodologie di rilevamento ed elaborazione dei dati. Detto ciò, sussiste pur sempre un limite inerente alla quantità di sistemi, antenne e sensori che possono prendere posto all’interno della carlinga di un aeromobile da combattimento, soprattutto se abbastanza compatto e manovrabile da funzionare con la mansione principale di intercettore o interdittore delle attività nemiche poco al di sopra dello strato di nubi che ci separa dalla troposfera. Ecco spiegata dunque l’utilità degli apparecchi attrezzati con funzione di AEW&C (Airborne Early Warning and Control) generalmente identificati dalla cultura popolare, almeno quando si ricorda di citarne l’esistenza, attraverso l’impiego generico dell’antonomasia AWACS (Airborne Warning and Control System) benché tale nome appartenesse generalmente a uno specifico modello d’aereo, basato sul Boeing E-767 e costruito dall’azienda statunitense nel 1994 per le Forze Aeree di Autodifesa del Giappone, dal riconoscibile radome a fungo o pulsante che dir si voglia, capace d’identificare e classificare un ampio ventaglio di minacce, tutte per lo più volanti. In un’era militare relativamente distante da quella odierna, benché almeno un fattore su tutti sia rimasto sostanzialmente invariato in questo suo specifico discendete prodotto dalla Saab svedese, fornitore di mezzi e armamenti militari nei confronti di svariate dozzine di nazioni: la scelta di utilizzare, come base, un aeroplano di tipo civile. Questo primariamente per contenere i prezzi di ricerca o sviluppo, o almeno così riesce facile immaginare, benché sia innegabile la funzione di un simile meccanismo coincida, nei fatti, con la dote considerata più importante in qualsivoglia tipo di trasportatore o aereo passeggero dei cieli: economia, e quindi autonomia di volo. Entrambi aspetti prestazionali in relazione ai quali il Bombardier Global Express impiegato dalla Saab non ha da invidiare nessun altro tipo di jet concepito per l’uso privato da parte delle aziende, magnati della finanza o capi di stato. Con i suoi 20.400 Kg di carburante a pieno carico capaci di garantire il trasporto, in condizioni di convenzionali, di fino a 19 passeggeri per oltre 11.000 Km di distanza, o come nel caso specifico di questa soluzione d’impiego, volare in cerchio per molte ore sopra l’Europa, l’Asia o i delicati recessi geografici del Medio Oriente, garantendo una copertura del suo occhio nel cielo di fino a 450 Km tutto attorno alla sua riconoscibile forma con ali a freccia e lo strano oggetto parallelo all’estendersi dell’affusolata carlinga, situato a una quota sufficientemente alta per superare almeno in parte la problematica curvatura dell’orizzonte. L’ideale “maniglia” di cui sopra, in realtà contenente null’altro che l’eccellente radar sviluppato appositamente a tale scopo dal nome commerciale di Erieye, un dispositivo doppler a impulsi relativamente convenzionale nel suo funzionamento, fatta eccezione per le funzionalità di tipo AESA (Active Electronically Scanned Array) capaci di dirigere il fascio delle onde elettromagnetiche nella direzione scelta senza far girare fisicamente l’antenna. Il che garantisce una forma decisamente più aerodinamica dell’iconico fungo di molti dei sistemi AWACS preesistenti, benché i veri punti di forza del Globaleye risultino essere di natura decisamente più sottile, meno difficile da desumere in maniera intuitiva e capace di andare molto più a fondo nel cambiare determinati approcci all guerra aerea dei nostri giorni…