L’impressionante macchina creativa dietro l’atterraggio in bilico sopra l’albergo a Dubai

Il singolo albergo più lussuoso al mondo, una struttura tecnologicamente così avanzata, e così attraente dal punto estetico, da aver suscitato un senso d’invidia negli amministratori di catene internazionali. E sulla cima della torre a forma di spinnaker velico sopra l’isola artificiale (perché ovviamente, il deserto non offriva abbastanza spazio) un disco di colore verde dal diametro di 27 metri, ornato da un grossa lettera H in base al progetto del rinomato architetto Tom Wright di WKK. E perché mai includerlo, alla fine? Quanti tra i nababbi, effettivamente capaci di spendere gli oltre 2.000 dollari a notte necessari per le stanze più abbordabili dell’edificio, visiteranno queste marmoree sale a partire dall’alto, scendendo dal vibrante e poco pratico velivolo simile a un ventilatore, più frequentemente associato ai salvataggi in mare o montagna? La risposta è chiaramente desumibile nella storia pregressa dell’edificio. Con l’eliporto del Burj Al Arab di Jumeirah situato a 235 metri d’altezza impiegato, nell’ordine: da Tiger Woods per il lancio della pallina (2004) Agassi e Federer per una partita a tennis (2005) David Coultard per sgommare con una Formula 1 (2013) il boxer Anthony Joshua per una sessione di allenamento (2017) e nello stesso anno, il praticante di kite surfing Nick Jacobsen per lanciarsi con la tavola e il parapendio. Tutte acrobazie di marketing ancor prima che individuali, a cui lo scorso martedì si è aggiunto forse il più notevole ed impressionante esempio di una simile avventura, con la sponsorizzazione dell’onnipresente bibita del Toro Rosso ed il coinvolgimento di uno dei piloti vincitori dell’annuale Red Bull Air Race, il pilota polacco Luke Czepiela, per tentare l’atterraggio estremamente al limite di un Piper Carbon Cub SS pesantemente modificato, entro quello spazio circa 15 volte più ridotto della pista commerciale più corta esistente al mondo. Il che, intendiamoci, è meno assurdo di quanto si potrebbe tendere a pensare, vista la ben nota capacità di particolari mezzi volanti appartenenti alla categoria dei cosiddetti bush plane di partire o fermarsi agevolmente nello spazio di una manciata di metri appena. Una prerogativa anche fatta oggetto di competizioni, particolarmente popolari in Alaska. Benché farlo in quelle particolari condizioni a Dubai, con l’eventualità tutt’altro che impossibile di finire per spezzare in due l’aereo e con esso ogni ragionevole opportunità di sopravvivere, abbia innalzato in modo significativo il fattore di rischio collaterale. Una notazione, quest’ultima, entusiasticamente riportata nella maggior parte delle trattazioni internazionali dell’evento, diversamente da quanto accaduto per gli interessanti retroscena e il lungo periodo di preparazione necessari per non affidarsi totalmente al caso, nella realizzazione di uno dei momenti destinati ad essere iscritti nell’antologia pregressa delle grandi acrobazie aeronautiche del mondo. Una storia che effettivamente inizia dal coinvolgimento per il progetto di Mike Patey, figura d’imprenditore e costruttore di aeroplani particolarmente celebre all’interno del suo settore, assurto alle cronache di Internet (incluse le pagine di questo blog) dopo l’incidente subìto a bordo del suo PZL-104 Wilga alias DRACO e conseguente ricostruzione, da cui è fortunatamente uscito incolume per costruirlo di nuovo, più performante e rosso di prima. Questo perché assai difficilmente, l’aereo nella sua accezione più convenzionale avrebbe potuto portare a termine in sicurezza una così ardua, spericolata missione…

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Il genio illetterato che insegnò al suo intero popolo la scrittura

In un famoso aneddoto della storia Cherokee, ambientato negli anni immediatamente successivi al 1821, un uomo si presenta innanzi all’assemblea dei capi del suo villaggio. Secondo alcuni, siamo presso la sua natìa terra di Tuskegee, nell’attuale Tennessee, mentre nell’opinione di altri lo scenario è quello del Big Skin Bayou, bacino fluviale dell’Arkansas dove egli si era recentemente trasferito con la sua famiglia. Si tratta, ad ogni modo, di un frangente stranamente simile a un processo, benché tale importante figura risulti essere accompagnata, nella versione più diffusa della storia, da sua figlia, che non poteva avere all’epoca molto più di sei anni. E se vi sembra strano che un evento d’importanza epocale avvenuto appena due secoli fa possa contenere un così alto grado d’incertezza, considerate quanto segue: per l’intera popolazione delle genti indigene della parte centro-orientale degli Stati Uniti, non c’era altro modo di comunicare che il verbo parlato, e la memoria dei singoli rappresentava l’unica maniera di mantenere vivida una vicenda. Questione, di lì a poco, destinata a cambiare. E c’è un momento estremamente preciso per tutto questo, l’attimo in cui il commerciante, fabbro ed argentiere Sequoyah, allontanata momentaneamente la piccola Ayokeh, tirò fuori un pezzo di carta ed iniziò a scriverci sopra le parole pronunciate a turno dai membri dell’improvvisato tribunale. Quindi, una volta che era ritornata nella stanza, la invitò a leggere ordinatamente il suddetto elenco. Operazione che riuscì ad effettuare senza il benché minimo errore, il che rappresentò per i presenti una sorta di prodigio totalmente privo di precedenti. Perché mai, a memoria d’uomo, qualcuno era riuscito a fare questo: adattare la sublime stregoneria dei “fogli parlanti” posseduti dai coloni europei ad una delle stratificate, foneticamente e grammaticamente complesse lingue dei cosiddetti indiani. Ponendo le basi di un profondo processo di mutamento a più livelli della società, che in un altro tempo e luogo avrebbe chiaramente confermato la latente accusa di stregoneria a carico di costui. Ma che tra i Cherokee riuniti in quel frangente, innalzò istantaneamente lo status e il prestigio di costui e la sua intera famiglia a quella di un giovane capo, posizione che egli avrebbe impiegato negli anni a venire per massimizzare la diffusione del suo metodo di notazione ampiamente collaudato.
Chi era dunque Sequoyah, alias George Gist, e da dove aveva tratto l’ispirazione per l’opera che gli avrebbe permesso facilmente di passare alla storia? Come precedentemente accennato, la sua vicenda personale è avvolta da un alone di mistero e si dice che per ogni testo o trattazione in materia, non esistano due resoconti capaci di risultare identici nei contenuti e progressione degli eventi. Nonostante ciò, esistono determinati punti di concordia tra le parti, grazie ad articoli pubblicati negli anni immediatamente successivi dal Cherokee Phoenix, un giornale che iniziò ad essere pubblicato a partire dal 1828 con l’aiuto dei missionari, che avevano realizzato a tal fine un set di caratteri mobili basati proprio sull’invenzione di questo individuo eccezionale. Sequoyah nasce attorno al 1770, presumibilmente da una madre indigena ed un padre giunto in Virginia con gli altri coloni di nazionalità tedesca. Fatto crescere ed educato da lei, in base alla tradizione matrilineare delle usanze di questo popolo, egli si mostrò ben presto possessore di un’intelligenza vivida, ma doti fisiche decisamente al di sotto della media. Soffrendo, nello specifico, di un qualche tipo di afflizione alle gambe, forse un gonfiore cronico delle articolazioni oppure l’edema sottocutaneo dell’anasarca, che gli impediva di lavorare attivamente nei campi o di partecipare alla difesa del suo villaggio. Il che avrebbe abbassato significativamente il suo status sociale, portando in base al racconto di un discendente a veder modificato il proprio nome da Gi-sqwa-yah (“C’è un uccello all’interno”) In Se-quo-yah (“C’è un maiale all’interno”). Ed è qui importante sottolineare come l’omonimia con l’alto e nobile arbusto della California sia generalmente attribuita ad una precisa scelta del naturalista Stephan Endlicher, che gli attribuì oltre mezzo secolo dopo l’appellativo di uno dei più famosi nativi americani. Piuttosto che il caso inverso, nell’ipotetico tentare di onorare un individuo che si trovava in realtà collocato nel punto più basso della scala sociale. Ma le cose, per fortuna sua e di tutti, erano ben presto destinate a cambiare…

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Il bizzarro antesignano bielorusso del principio di un ovale volante

Stabilimenti ordinati, contesti limpidi e sperimentali, ambienti frequentati primariamente da figure di stampo accademico abbigliate con camice bianco. Come nasce un aeroplano? Molto spesso, le acquisite cognizioni per quanto concerne il tipo di strutture adibite a questo campo particolarmente delicato dell’ingegneria applicata trovano conferma nella realtà osservabile dei fatti. Molto di ciò che resta, è russo o proviene dai limitrofi territori dell’Est Europa. Luoghi in cui formalizzarsi sullo stile trova raramente collocazione all’origine della “buona” tecnologia, poiché ogni cosa deriva dal bisogno momentaneo, connotato con la competenza pratica di chi è adeguato a individuare un qualche tipo di contromisura operante. Esigenze come quella segnalata presso il Minskom Zavode Shesteren (Istituto della Creatività Tecnica di Minsk) nel 1988, relativa al problematico comportamento in volo dell’ormai vetusto biplano agricolo Antonov An-2, notoriamente incline a oscillazioni e potenziale rischio di stallo ogni qualvolta raffiche di vento incrociavano perpendicolarmente la sua direzione di crociera. Questione tanto grave, per intenderci, da dar vita al paragone informale con “un elefante ubriaco in bilico sui campi” ovvero non propriamente la creatura cui vorresti affidare il tuo ritorno sano e salvo sulla pista da cui avevi spiccato il decollo. Al che l’ingegnere Arkady Narushevich, coadiuvato dal pilota Anatoly Gushchin, disegnò il progetto di un approccio fortemente distintivo nei confronti dell’intera faccenda. Considerando infatti la maniera in cui qualsiasi profilo alare, per il suo principio aerodinamico di funzionamento, non possa fare a meno di generare una coppia di vortici destabilizzanti in corrispondenza dei suoi bordi laterali, che cosa sarebbe potuto succedere, eliminando del tutto tale vulnerabilità del tutto imprescindibile? Mediante l’unico sistema immaginabile a tal fine. Ovvero, sostanzialmente, la costruzione di un singola ala capace di ripiegarsi su se stessa, giungendo a formare un’unica superficie ininterrotta. Narusevich aveva creato in linea di principio, per usare una terminologia appropriata, un raro esempio di velivolo con ala chiusa. Così come soltanto in pochi, fino a quel momento, si erano dimostrati capaci di elaborare. A partire dagli esperimenti esclusivamente teorici dell’epoca della seconda guerra mondiale, come il Lerche (Allodola) del tedesco Ernst Heinkel, ipotetico caccia concepito con una caratteristica conformazione ottagonale, o l’effettivamente costruito SNECMA C-450 Coleoptere francese, l’aereo con un tubo attorno alla carlinga facente funzione di ala, che avrebbe dovuto decollare verticalmente per poi ruotare a 90 gradi il suo senso di marcia. Se non che tale manovra tendeva, irrimediabilmente, a farne perdere il controllo, rendendolo essenzialmente soltanto il più scomodo e bizzarro elicottero della storia. In altri termini, qualsiasi approccio a un tale metodo di volo era stato accompagnato fino a quel momento da evidenti conseguenze deleterie o chiare prospettive di fallimento.
Laddove la creazione bielorussa era tutto, fuorché follemente ambiziosa o irraggiungibile, come esemplificato dalla forma il più possibile rassomigliante a quella dell’An-2. Al punto da trovarsi ad ignorare il concetto geometrico dell’equidistanza dei punti, scegliendo piuttosto la forma frontale di un ellisse visibilmente schiacciato in senso orizzontale. Dimostrando in ciò di provenire dal mondo delle contingenze pratiche, concepite sulla base dei legittimi presupposti di funzionamento. Piuttosto che l’esigenza personale d’incidere il proprio nome a lettere cubitali nel grande almanacco della Storia…

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La dannazione, il tormento e la vittoria del sassofono sul mondo

Quanti momenti topici e punti di svolta, quante ottime opportunità di cambiamento, invenzioni, splendide creazioni… Sono andate perse, per un mero scherzo del destino, innanzi all’avanzata senza sosta degli eventi e della storia umana? Per un singolo particolare evento sfortunato, per la dipartita prematura di colui che ne poteva confermare l’esistenza, causa il sopravvento di una situazione in essere del tutto sconveniente. O una drammatica, impietosa pletora di tali circostanze. Il 6 novembre del 1814, presso la pittoresca cittadina di Dinant in Wallonia (odierno Belgio) venne al mondo la personalità che sarebbe diventata un giorno celebre di Adolphe Sax, per aver creato uno degli strumenti più celebri e versatili al mondo, tanto da essere inclusa nei “legni” pur non contenendo la benché minima traccia di quel materiale. Ma ben presto diventò chiaro ai suoi conoscenti, ai parenti e persino alla sua stessa madre, che egli non avrebbe mai raggiunto l’età adulta. Condannato da un fato che potremmo definire l’esatto opposto della Provvidenza, tale da rischiare la pelle ad intervalli irregolari per una vasta ed implacabile serie di eventi: a partire da quando cadde per le scale, da un’altezza di ben tre piani, rotolando clamorosamente fino ad impattare con la testa contro un marciapiede di cemento. Per non parlare di quando, all’età di soli tre anni, bevve per errore da una bacinella contenente acqua, acido ed arsenico, da usare originariamente nel laboratorio di suo padre, costruttore di trombe ed ottoni. E poco dopo, forse nel corso dello stesso mese o anno, mangiò tranquillamente un grosso ago, che passò per miracolo attraverso il suo intero corpo senza arrecare nessun danno permanente. Ma la sua sventura, a quel punto, non aveva certo finito di tormentarlo, facendogli assistere fin troppo da vicino all’esplosione di un barile di polvere da sparo. In seguito sarebbe caduto su una padella incandescente, ustionandosi il fianco. E che dire di quando attorno all’età di circa 16 anni, vincendo già diverse competizioni musicali tramite lo sfoggio dei suoi originali flauti e clarinetti fatti in casa, intraprese l’hobby di dare una patina di nuovo ai mobili della sua stanza… Assieme all’abitudine, del tutto scriteriata, di dormirvi accanto respirando le mefitiche sostanze soffocanti che impiegava per portare a termine tale obiettivo di primaria importanza. E se neppure quello bastò ad ucciderlo, poco importa! Ancor prima di raggiungere l’età adulta, venne colpito da una tegola mentre camminava accanto al fiume, perdendo i sensi e cadendovi dentro per venire ripescato molti metri più valle, dal mugnaio. Spesso nella vicenda personale di alcuni dei più grandi musicisti della storia, particolarmente nei contesti anglosassoni e statunitensi, viene collocata arbitrariamente la mano del Diavolo, che sarebbe comparsa loro in circostanze inaspettate per fornirgli abilità sovrumane, o chitarre magiche ed infuse di un destino smagliante. Eppure nessuno, tra gli storici che hanno studiato la faccenda, avrebbe mai potuto attribuire ad alcun essere sovrannaturale la tutela di quest’uomo e la sua invenzione, quella che egli avrebbe orgogliosamente e giustamente deciso di chiamare con il suo stesso nome, anticipando la fortuna ed il successo di un diverso tipo di figura: quella del sassofonista. Utilizzatore di una tromba serpentina e ripiegata su se stessa, creata per un uso particolarmente specifico. Per finire invece, a riuscire ad incorporarli tutti quanti, allo stesso tempo.
Prima di parlare in modo più dettagliato di tale straordinario meccanismo, tuttavia, sarà meglio seguire l’ordine naturale degli eventi. Seguendo il figlio di Charles-Joseph Sax, rinomato fabbricante che forniva direttamente la corte del sovrano olandese Guglielmo I d’Orange, mentre all’età di soli 20 anni costruiva un rivoluzionario clarinetto dotato di 24 tasti, ed un’estensione aurale largamente superiore a quelli in uso fino a quel momento. Tale da suscitare l’invidia altezzosa del suonatore dell’orchestra di Brussels dove si era trasferito per studiare, che si rifiutò di usarlo in quanto proveniente da un creatore presumibilmente inesperto. Se non che sfidato dal giovane Adolphe a un duello musicale di fronte ad una folla di 1.000 persone, finì per perdere la stima del plebiscito di fronte all’evidente superiorità dello strumento, mentre gli applausi seppellivano irrimediabilmente ogni tipo di pregiudizio. E fu quello, più o meno, il momento in cui l’eclettica personalità di questo vero e proprio genio della sua epoca iniziò a diventare famosa nel suo paese…

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