L’istinto materno della mosca che ha devastato il cuore dell’Africa nera

Racconta il filantropo e tecnico economista Ernesto Sirolli, nel suo libro sull’attività umanitaria da lui compiuta in Zambia nel corso degli anni ’70, di un aneddoto particolarmente indicativo. Sulla volta in cui la missione ONG di cui faceva parte, tentando di aiutare la popolazione di un villaggio in mezzo alla savana, aveva messo in opera una piantagione di pomodori. Ortaggi destinati, grazie al clima caldo della regione, a crescere fino alla grandezza di palloni da calcio, offrendo la strada apparentemente ideale per affrontare e risolvere finalmente la fame di quella gente. Gli abitanti del posto, tuttavia, non sembravano affatto interessati e nonostante i tentativi d’insegnargli le moderne meraviglie d’agricoltura, si mostravano indolenti, pigri e rassegnati. Un giorno, quindi, gli italiani si recarono al campo per scoprire che tutti i pomodori erano spariti. Dopo una breve indagine, capirono cosa era successo: un gruppo di ippopotami erano arrivati dal vicino specchio d’acqua fangoso e con voracità infernale, se li erano mangiati. Alla domanda del perché i nativi non li avessero avvisati, questi ultimi risposero dispiaciuti: “Ecco, in verità… Voi non l’avete mai chiesto.”
Italia ed Africa: destini incrociati lungo il corso della storia, qualche volta in positivo, altre senza nessun tipo di effetto duraturo per il corso degli eventi. Ma in particolari casi, collocati al principio di un’epoca di dannazione. E secondo quanto riportato dal giornalista inglese Fred Pearce sarebbe stata proprio l’arrivo di una nostra spedizione nel Corno, risalente al 1897, a generare il peccato originale destinato a rendere l’Africa tanto inospitale a ogni tentativo di coltivazione, intensiva o meno. Poiché i soldati avevano partecipato all’avventura accompagnati, per la sfortuna di un’intero continente, da certi animali e il virus malauguratamente contenuto al loro interno: l’RPV o peste bovina, che si sarebbe diffusa devastando un’area di pascoli vasta all’incirca quanto l’intero territorio d’Europa. Milioni di persone morirono nel giro di qualche decennio per la carestia risultante, intere popolazioni che avevano fatto dell’allevamento bovino parte inscindibile della loro vita. E mentre i pascoli venivano di nuovo reclamati dalla grande fauna equatoriale, tra la vegetazione non più soggetta al controllo umano tornò a prosperare una minuscola, quanto malefica creatura.
Tze-tze, Tsetse, Tik-tik sono tutte parole, vagamente onomatopeiche, riferite al particolare gruppo di ditteri che rientrano nella famiglia Glossinidae, genere Glossina, accomunate dall’abitudine frutto dell’evoluzione a consumare copiose quantità di sangue grazie all’uso della loro lunga ed appuntita proboscide boccale. Dando sfogo ad una fame che deriva, forse sorprendentemente, non dall’odio per tutti gli altri esseri viventi bensì dall’amore nei confronti di uno, in particolare: il singolo erede che faticosamente partoriscono più volte l’anno, dopo un periodo di gestazione incredibilmente simile a quello delle loro vittime preferite: i mammiferi. Vagamente alieno come il ciclo vitale della maggior parte degli altri insetti, quello della mosca riconoscibile per le ali sovrapposte in posizione di riposo, le antenne biforcute e le dimensioni piuttosto imponenti (fino a 1,5 cm) presenta infatti un metodo chiamato scientificamente “viviparità adenotrofica” il cui fine ultimo risulta essere quello di sottrarre, per più a lungo possibile, la sua larva dall’attacco dei predatori o possibili parassiti. Finalità ottenuta nell’unico modo possibile: quello di tenerla dentro il proprio utero volante. È davvero incredibile, a vedersi: nel diagramma anatomico di questo dannato essere, l’addome appare dunque attraversato da una serie di canali biancastri, entro i quali scorre qualcosa di straordinariamente simile al latte umano. Proteine, amino-acidi e lipidi, portati a convergere presso l’apparato boccale di un vermicello le cui proporzioni progressivamente maggiori tendono ad assomigliare, nell’ultimo periodo, a quelle dell’uovo notoriamente sovradimensionato del kiwi, uccello non-volante neozelandese. Finché successivamente all’ora del parto, la creatura viene deposta in terra dall’affaticata partoriente, per iniziare immediatamente a scavarsi una buchetta per lasciare fuori solamente le appendici nere usate al fine di respirare. Inizia proprio in questo modo, tra la sabbia geografica e del tempo, il successivo capitolo di una crudele storia…

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L’apparente idillio del pastore mongolo che pesca da un lago ghiacciato

Elegante perché semplice, semplice perché naturale, naturale e proprio per questo, bellissimo. C’è molto da commentare benché i dettagli si nascondano nelle vaste steppe asiatiche, nella scena diventata istantaneamente popolare su Twitter dell’uomo in abito tradizionale, sereno e sicuro di se, che poggiando saldamente gli stivali sulla superficie relativamente spessa di uno specchio d’acqua senza nome, colpisce con la zappa la biancastra superficie, realizzando un foro dalla forma grossomodo circolare entro cui getta delle esche in quantità evidente, attirando pesci dalle tenebre sommerse. Per poi infiggervi, alla percezione inusitata di un remoto movimento, il fulmine letale della forca per il fieno, mentre due amichevoli caprette testimoniano ammirate il sapiente gesto. Poco prima che, con un sorriso grande come il mare che potrebbe non aver mai visto, il cavaliere dell’oceano d’erba estragga l’argentato premio di cotale inconfondibile frangente: tre grosse carpe asiatiche, disposte attentamente in fila parallela, quindi caricate sulla spalla destra, facendo un uso non meno creativo del bucolico strumento di cattura ed ittica uccisione. Segue uno stacco di regia, a seguito del quale ritroviamo l’abitante a prelevare legna e sterpaglia dalla sua catasta, per poi immergere il pescato in salamoia, direttamente condita con i colpi di machete su una roccia non dissimile dalla rinomata lampada di sale tibetano. Conclude la sequenza, lui che cuoce i tre pasti completi, infissi in lunghi stecchi sopra il fuoco precedentemente preparato.
Cosa abbiamo visto, esattamente? Chi è costui? Dove siamo? Abbiamo veramente assistito ad una “Tecnica di pesca vecchia di 10.000 anni!” come enfaticamente titolato sui diversi social e presso gli arcani recessi della blogosfera, o si trattava piuttosto di un semplice individuo dalle plurime risorse, intento a fare ciò che gli riesce meglio: sopravvivere facendo affidamento sulle proprie sole forze, nella sostanziale solitudine di una regione grande due volte la Germania, ma con densità di popolazione persino inferiore all’entroterra australiano… Il primo strumento che abbiamo a disposizione per interpretare il video, comparso per la prima volta sul profilo del russo di origini kazake Gabit Rahimberlin, alias Starshina73, è il fatto che si tratti, per l’appunto, di una testimonianza registrata in digitale. Da un telefonino chiaramente messo in verticale, niente meno, dotato di una risoluzione sufficientemente elevata per garantire una qualità delle immagini perfettamente al passo coi tempi. L’assenza di turisti o terzi d’altro tipo, o in alternativa l’attenzione registica con cui essi vengono tenuti fuori dall’inquadratura, lascia quindi trasparire una certa esperienza nell’uso del mezzo tecnologico, da parte di qualcuno che non è poi così distante dalla civiltà moderna, quanto in apparenza saremmo forse portati a credere, come molti dei commentatori all’affascinante ed ormai celebre contingenza. Il che ci porta al secondo strumento interpretativo, ovvero l’abbigliamento del nostro eroe, chiaramente derivante da una discendenza culturale ragionevolmente precisa, non tanto per la veste lunga e legata in vita, il tipico deel diffuso nell’intero areale culturale mongolo, quanto per l’iconico e riconoscibile copricapo…

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L’ingegnoso popolo fluttuante del lago Titicaca

Sotto il sibilo del vento ad un quota superiore di svariate migliaia di metri a quella del mare, l’energia del mondo si era accumulata per un tempo sufficientemente lungo. Finché le radici serpeggianti, attorcigliate in un groviglio concepito per assolvere a uno scopo, scaturirono dal suolo tutto attorno a quel bacino vasto e calmo, dando vita a una foresta, che potremmo definire…Differente. Centinaia di metri quadri e poi chilometri di canne, parallela l’una all’altra, formate da quella lacustre forma di vita vegetale che oggi definiamo scientificamente Schoenoplectus californicus, ma che in tutta l’America Meridionale, sull’esempio peruviano, tutti chiamano totora. L’epoca non è del tutto chiara: qualche secolo, se vogliamo risalire a fonti storiografiche, benché per quanto desunto da un’analisi genetica degli abitanti locali questo popolo possa risalire fino a 3.500 anni prima dell’epoca moderna, con aspetti, usanze e tradizioni lievemente differenti. Ma probabilmente, lo stesso apprezzamento per la pianta che con cui è solito costruire le proprie case, imbarcazioni, ornamenti, mobili, cappelli, mantelli e addirittura, mediante l’impiego di una tecnica soltanto sua, lo stesso suolo sopra cui sorge la propria antichissima società galleggiante. Già perché gli Uru, o Uro che dir si voglia, possono vantare l’originale caratteristica di aver costruito l’interezza dei propri insediamenti al di sopra di vere e proprie isole artificiali di cui restano circa 120 allo stato attuale, create a partire dalle canne intrecciate di totora sopra uno strato di torba flottante, capaci di offrire un terreno ragionevolmente solido a patto di continuare ad effettuare continuamente la laboriosa manutenzione di tutto questo. In merito alla ragione di un simile modus vivendi, per inciso, abbiamo le idee piuttosto chiare: ancora dopo l’inizio dell’impero Inca nel XIII secolo, infatti, il bisogno primario dei popoli relativamente poco numerosi di queste regioni sudamericano era quello di mantenersi indipendenti e poter proteggere se stessi dalle imposizioni di gruppi etnici più forti. E quale miglior fortezza poteva essere immaginata, di un’intera città che poteva spostarsi nel momento di più grave e imprescindibile necessità?
Le piattaforme degli Uru, costituite da una serie modulare di blocchi chiamati idli di 4×10 metri, sono un vero capolavoro dell’architettura primitiva, capaci di offrire non soltanto l’equivalente sulla superficie acquatica di fondamenta solide ma anche un terreno fertile che poteva essere coltivato primariamente con patate o vegetazione adatta a nutrire il bestiame, benché la fonte principale di cibo resta tutt’ora quella tipica dei cacciatori-raccoglitori e soprattutto, pescatori delle antiche società umane. Altro interessante approccio alla sussistenza, nel frattempo, quello dell’allevamento degli uccelli, usati sia come aiuti nella cattura dei pesci (cormorani) che per le loro uova e la stessa carne (ibis sudamericano) mediante metodologie comprovate da molti secoli di prassi valida ad incrementare l’approvvigionamento delle rispettive famiglie “isolane”. Come per molti altri appartenenti a minoranze distinte dalla collettività moderna, dunque, viene mantenuta in atto la naturale solidarietà del gruppo nei confronti dei singoli individui, che ricevono aiuto nella costruzione delle proprie nuove case o piattaforme, mentre la stessa manutenzione dell’isola di appartenenza diviene un costante impegno collettivo, data la costante tendenza dell’umidità a infiltrarsi nei blocchi di torba facendo marcire le radici ed infine, distruggendo lo strato superiore di totora. Ragion per cui, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la loro opera di costruzione continua indefessa, come avvenuto attraverso le interminabili generazioni…

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L’antica saggezza indiana dei cammelli di mare

“Ma nel deserto non ci sono le navi!” Il pastore con le mani sui fianchi, il turbante tradizionale in bilico sulla testa, indispettito dall’occidentale cognizione secondo cui un animale possa essere ridotto, seppur metaforicamente, al solo tratto distintivo della propria altalenante andatura. “E poi questi, come dovrei chiamarli? Le Land Rover del golfo di Kachchh?” Talvolta opportuno sembra, in effetti, dubitare di un’espressione idiomatica che inverte i rapporti concettuali in gioco, per il semplice gusto letterario, oppur folkloristico, di lasciare una profonda impressione nell’ascoltatore. Benché talune apparenze, per quanto improbabili, difficilmente possano trovare smentita all’effettiva verifica dei fatti. Fatto: il “cammello” (o volendo essere più specifici, si tratta di un dromedario) più famoso e rappresentativo dello stato indiano settentrionale del Gujarat, che per andare a nutrirsi nuota per un tragitto marittimo di 3-10 Km, ogni giorno durante le primavere e autunni della propria esistenza. Sospinto dal desiderio di un particolare cibo, sperando che basti per garantire la propria soddisfacente sopravvivenza. E ancora, un fatto: la dura esistenza del custode col lungo bastone, il piccolo galleggiante di compensato e polistirolo, che li segue da presso, intento a verificare che alcun giovane membro del branco finisca per perdersi tra le onde che dividono la terra ferma dalla serie di isole note come arcipelago di Bet.
È la congiuntura di elementi, questa, che definisce e riassume l’antica tradizione locale di un allevamento importante per l’economia, la cultura e l’identità di almeno due popoli, l’etnia nomade dei Jat e quella per lo più pastorale dei Rabari. Alternativamente proprietari, e talvolta soci in affari, in questa specifica prassi di collaborazione proficua col mondo animale, la cui origine può ben dirsi nascosta nelle più remote nebbie della storia. Per passare dunque ai veri protagonisti di questa storia, un cosiddetto cammello di Kharai (termine in lingua locale che significa “salato”) è l’appartenente a una specifica razza del familiare C. bactrianus, frutto in egual maniera della selezione artificiale e l’adattamento progressivo alle caratteristiche insolite di un tale habitat di appartenenza. I suoi tratti distintivi includono una testa più grande della media, zampe lunghe ma snelle particolarmente adatte al nuoto, una forma ridotta e meno ingombrante del “quinto piede” o preminenza carnosa posizionata in corrispondenza del petto, usata dagli altri cammelli per appoggiarsi quando si trovano in posizione seduta. La colorazione, nel frattempo, risulta essere marrone chiaro e il pelo piuttosto corto, in forza del clima temperato della loro regione di provenienza. Ma il vero pregio di queste mansuete ancorché magnifiche creature, nella preziosa opinione di coloro che le hanno elette a propri compagni nel corso di una talvolta complicata esistenza, risulta essere senz’altro la qualità particolare del loro latte, che si dice possa contribuire al recupero da qualsivoglia afflizione o malattia, incluso addirittura il diabete…

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