Le meraviglie di Mogao, sentiero spirituale del Buddhismo parallelo all’antica Via della Seta

Sebbene non si tratti di una definizione formalmente invariabile, difficilmente si potrebbe affermare che 1.000 persone possano bastare a fare una città… Ma che dire, invece, di 1.000 statue? Facenti parte di un sistema di templi risalente al 366 d.C, lungo quella che potremmo definire come la maggiore Via commerciale della sua Era. Plasmate progressivamente dalla roccia stessa della regione cinese occidentale del Gansu, per iniziale opera e visione attribuite convenzionalmente ad una singola persona, il monaco Yuezun che era stato raggiunto dal proprio dio ed ispiratore nel corso dei sogni. Ricevendo tale incarico da Buddha in persona, o quanto meno uno dei suoi santissimi e operosi Bodhisattva. “Tu costruirai un tempio. Io ti dico che sarà vasto e magnifico, più di ogni altro che l’intero mondo abbia mai conosciuto.” E così camminando, per intere settimane o mesi, finché l’ago della bussola non smise di puntare metaforicamente verso il punto designato, egli si fermò per impugnare lo scalpello. In breve tempo, furono in molti ad unirsi a lui, presso quella che era nota in lungo e in largo come l’oasi di Dunhuang. Tra cui il fedele aiutante ed amico Faliang, un altro membro del clero buddhista, subito seguito da un’intera comunità d’ecclesiastici originari della regione. Finché verso l’inizio della dinastia dei Liang Settentrionali (397 d.C.) il sito era ormai diventato celebre, al punto da attirare i primi pellegrini, assieme significativi contributi in termini di manodopera e risorse dalle autorità imperiali. Forse non ancora tanto magnifico, di certo non altrettanto grande, l’aspetto a quei tempi del sistema di edifici e stanze patrimonio dell’UNESCO delle grotte di Mogao (莫高 – “Immacolate”) doveva già costutituire un importante punto di riferimento per i molti viaggiatori di passaggio, non soltanto come luogo di meditazione temporaneo ma vero e proprio punto di riferimento mnemonico, relativamente alle molteplici complesse storie giunte a Oriente assieme all’importante e sempre più diffusa disciplina proveniente dall’India. Facente parte concettualmente del vasto novero di caverne o altri siti antropogenici scavati nella roccia, tra cui le grotte di Yulin nel Guazhou o i Cinque Templi della regione di Subei, nessuno potrebbe tuttavia pensare di subordinare questo luogo eccezionalmente santo ad un qualsiasi altro repertorio artistico e culturale collegato alla ricerca dell’Illuminazione, per quantità, varietà e importanza delle opere contenute all’interno. Che essendo miracolosamente sfuggite alla persecuzione ad opera dell’Imperatore Wuzong nell’845, in funzione del dominio territoriale tibetano in quegli anni, vanno ben oltre le semplici sculture e bassorilievi nella roccia hanno finito attraverso lunghi anni di ricerche archeologiche per includere dipinti, arazzi ed una delle più rare, nonché preziose tipologie di tesori: un’intera biblioteca rimasta sigillata per svariati secoli, destinata a costituire un’insostituibile fonte filologica sulle abitudini e il sapere di alcuni tra i nostri predecessori…

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La discussa prova che gli antichi messicani avrebbero cavalcato i dinosauri

In base alla teoria dell’inversione periodica dei poli magnetici terrestri, elaborata per la prima volta dall’ingegnere elettrico Hugh Auchincloss Brown (1879-1975) l’asse di rotazione del nostro pianeta non sarebbe stato in alcun modo un assioma invariabile del Creato, bensì uno stato dei fatti in grado di cambiare periodicamente, in forza di fattori esterni e totalmente fuori dal nostro controllo. Sebbene soggetti, fortunatamente, a un certo grado di prevedibilità e persino, al giorno d’oggi, prevenzione. Fu proprio costui d’altronde a descrivere l’ipotetica procedura, complessa ma realizzabile, finalizzata a rimuovere “l’accumulo di ghiaccio dai poli” mediante l’utilizzo di bombe atomiche, come possibile risposta ai dati da lui raccolti sul recente aumento di “oscillazione” della normale rotazione cosmica attorno al nostro asse centrale. Ben più che un mero esperimento (per quanto estremo) bensì un passaggio di primaria importanza, quando si considera le monumentali catastrofi verificatosi, ad intervalli di circa 4000-7500 anni al verificarsi di tali eventi, nella storia pregressa della specie umana. Proprio per questo non così eccezionalmente ben documentata come crediamo, e costellata di misteri irrisolti come l’ipotetica benché probabile esistenza pregressa del continente di Mu o la città di Atlantide, e molteplici altri misteri soltanto menzionati nelle cronache pregresse degli antenati. Luoghi e storie come quella dell’antica cultura pre-ispanica della parte occidentale del Messico dei Chupícuaro, presso l’area maggiormente a settentrione della vasta area geografica e culturale denominata mesoamericana. Connotata dal bizzarro e inaspettato ritrovamento risalente all’estate del 1944, che avrebbe finito per diventare indirettamente una delle maggiori prove a supporto dei presupposti elaborati da Mr Brown.
Tutto ebbe inizio dunque, come spesso capita nei poemi, con una cavalcata all’ombra del Cerro Toro, omonimo della celebre montagna in Spagna e famoso per il suo vino, grazie alla tenuta fondata nel 1956 dalla famiglia giapponese di Makoto Kambara. Non troppo distante dal cui terreno, 12 anni prima, il venditore di attrezzi di discendenza tedesca Waldemar Julsrud si trovava a compiere una tranquilla escursione equina nella zona fuori la cittadina di Acámbaro, quando durante una sosta scorse qualcosa d’inaspettato tra l’erba del pendìo: quella che poteva soltanto essere una preziosa statuetta di terracotta, risalente a quella civiltà ancora largamente misteriosa, che secondo i dati fin qui raccolti sarebbe stata in epoca remota sconfitta, o inglobata dal grande impero azteco di Tenochtitlán. L’oggetto rappresentava un qualche tipo di creatura quadrupede, serpentiforme, rettiliana e soprattutto ricoperta di quel tipo di placche ossee che in base ai ritrovamenti paleontologici di cui possiamo disporre, può soltanto corrispondere a un particolare trascorso evolutivo della natura. Quello preistorico delle creature che avrebbero, in base ai dati raccolti, dominato un tempo le vaste vallate della Terra. Dinosauri, cos’altro? In breve tempo, Julsrud mise alle sue dipendenze un’intera squadra di scavatori locali, che avrebbero lavorato per l’intera decade successiva. Mentre quello che sarebbe emerso a seguire, semplicemente non ha precedenti nelle discipline archeologiche dei nostri giorni: oltre 33.000 figurine di terracotta, molte delle quali raffiguranti esseri umani intenti ad interagire in varie maniere con simili creature di epoca Giurassica o successiva, nonché individui vestiti con fattezze aliene o abbigliamento egizio, africano, indiano. Qualcosa di capace, in altri termini, di riscrivere completamente la cronistoria pregressa dei nostri presupposti ufficialmente ormai acquisiti, e non solo…

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Roth & Fink: storie di oniriche automobili create sotto il segno di un topo gigante

Non è possibile raggiungere uno stato di preminenza culturale, in un paese e un’epoca, senza prima essere riusciti a sviluppare un assoluto rapporto di predominio con il puro mondo della forma. E per quanto riguarda l’imponente Ed “Big Daddy” Roth, fabbricante di fantasiose automobili (e molto più di quelle) nei ruggenti anni ’60 e ’70, all’apice della cosiddetta Kustom Kulture californiana, potremmo affermare che con le sue opere gli sia riuscito non soltanto di approcciarsi all’assoluta essenza di una simile questione, ma averla addirittura capovolta, implosa e risaldata tramite la lente di un’osservazione informata. Dei modelli, le correnti e quella regola assoluta del cool in quanto tale, intesa come la capacità di impressionare chiunque fosse in grado di mantenere la mente sufficientemente aperta; senza il peso, ultimo e gravoso, di una logica apparente nei suoi gesti e tutto quello che ne consegue. Prendete ad esempio la sua Rothar del 1965, risalente al suo periodo motociclistico in cui frequentò per circa una decade le cerchie della vasta organizzazione degli Hell’s Angels. Surreale triciclo costruito a partire da una Triumph da 650 cc, con un abitacolo a bolla direttamente prelevato da un episodio del cartoon dei Jetsons (i Pronipoti) mentre la forma della carrozzeria in colori patriottici pare precorrere l’hovercraft magnetizzato Blue Falcon, uno dei protagonisti del videogame di corse degli anni ’90, F-Zero. Nient’altro che il frutto di un approccio estremamente personale al processo creativo delle hot rods, vetture fortemente personalizzate particolarmente rappresentativa di circa della metà del secolo scorso, quando la creazione di un’estetica “aggressiva” o in qualche modo memorabile era considerato molto più importante che massimizzare prestazioni o funzionalità. Fino al caso estremo delle rat rods, veri e propri mezzi derelitti che sembravano direttamente fuoriusciti da uno sfasciacarrozze, tanto erano malridotti, arrugginiti e fuori dagli schemi di un mondo che potesse dirsi, a tutti gli effetti, civilizzato. E per quanto un tale approccio possa dirsi assai lontano dallo stile allegro e stravagante delle auto più famose di questo autore, resta chiaro come le sue origini risultino legate strettamente a quel mondo ed una simile visione estetica, particolarmente grazie al suo personaggio più famoso, Rat Fink: una malefica caricatura di Mickey Mouse, verde, occhi rossi, con grandi orecchie pelose, denti sporgenti e la lingua che fuoriesce talvolta dalla bocca famelica, soprattutto mentre si trova alla guida di automobili sproporzionatamente piccole e spesso mostruosamente malridotte. Nato come illustrazione per una serie di popolarissime magliette, vendute e pubblicizzate a partire dal 1958 nel contesto della rivista per appassionati d’auto Car Craft, il minaccioso roditore si trovò in tal modo all’origine di un’intero nuovo genere d’illustrazioni, destinate a diventare un punto fermo per oltre due decadi di controcultura motoristica. Particolarmente quando i suoi veicoli immaginifici, assieme a quelli di un cast di assurdi comprimari tra cui Drag Nut, Mother’s Worry e Mr. Gasser, iniziarono incredibilmente a prendere una forma perfettamente tangibile grazie al secondo hobby del loro creatore…

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Il cubo in maglia metallica creato per proteggere un capolavoro dell’architettura scozzese

Personaggio d’importanza mondiale all’inizio del 1900, per la sua capacità d’anticipare e dare forma a molti aspetti estetici del Modernismo, il grande architetto di Glasgow, Charles Rennie Mackintosh fu un geniale maestro nella definizione degli spazi e l’integrazione di correnti provenienti dall’antichità con considerazioni dell’ergonomia e utilitarismo che iniziava a prendere una forma verso la fine della sua Era. Interessato alle nuove soluzioni e l’evoluzione tecnologica delle metodologie di costruzione, tuttavia, commise almeno un significativo errore a un punto di svolta nella sua carriera. Come chiaramente esemplificato dalla maniera in cui, già nel primo anno dopo il suo completamento nel 1904, la servitù della casa sulla collina di Helensburgh, nell’area costiera di Argyll and Bute, avevano iniziato a collocare secchi in punti strategici nel sottotetto, dovendo fare i conti con significative infiltrazioni d’acqua. Questo a causa dell’utilizzo al posto della calce tradizionale in quel clima, come copertura impermeabilizzante delle pareti domestiche, l’innovativo e “avveniristico” cemento di Portland, tutt’altro che perfettamente resistente alle intemperie senza l’utilizzo di trattamenti e vernici che sarebbero state create verso la metà del secolo successivo. Il che, attraverso gli anni, avrebbe portato l’edificio a fessurarsi ed impregnarsi fino al punto di esser prossimo ad un solo secolo di distanza, in una similitudine particolarmente calzante, a dissolversi “come un’aspirina effervescente in un bicchier d’acqua”. Soluzione possibile numero uno: coprirlo per 10 anni con un’impalcatura protettiva nei confronti della pioggia, prima di procedere a ricoprirne completamente l’esterno con soluzioni di natura più efficace. Soluzione numero due…
Lo strano edificio metallico sorge dal 2019 inquadrato nella verde campagna delle Isole, con la forma chiaramente riconoscibile di una serra o altro caseggiato di contenimento. Ed in effetti si era pensato, inizialmente, di crearlo completamente in vetro, al fine di favorire la visibilità continuativa della casa prossima al danneggiamento irrecuperabile, finché nel progetto non venne coinvolto lo studio di architettura londinese Carmody Groarke, a sua volta pronto a coinvolgere la compagnia tedesca specializzata proMesh GmbH, produttrice di un particolare tipo di materiali. Quello molto spesso associato, sorprendentemente, alle panoplie da combattimento di epoca medievale, costituito da una lunga serie di anelli strettamente interconnessi e intrecciati saldamente tra loro. Una vera e propria cotta di maglia, in altri termini, o per essere maggiormente precisi il più grande pannello ininterrotto di tale lavorazione mai posto in essere nel corso dell’intera storia dell’uomo, per un totale di 2.700 metri quadri. Soluzione non propriamente economica, visto il costo complessivo di 4,5 milioni di sterline pagati principalmente dal National Trust di Scozia, benché risolutivo sotto diversi punti di vista, poiché capace di fermare fino al 90% di pioggia mentre continua a permettere il passaggio dell’aria e degli insetti impollinatori delle piante situate all’interno. Risultando inoltre molto più resistente di una rete in materiali plastici e molto più semplice da riparare senza che restino segni visibili dell’intervento. Ma soprattutto risultando dotata di una capacità inerente di affascinare ed attirare l’attenzione, che sarebbero senz’altro piaciute all’originale creatore della magione…

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