L’esperimento francese di un caccia sensibilmente più piccolo del suo motore

Superata sopra i campi di battaglia nel combattimento aereo e l’utilizzo dei bombardieri tattici per intralciare le operazioni nemiche, la Francia la termine della seconda guerra mondiale iniziò in modo laborioso a ricostruire la reputazione militare delle sue grandi armate. Trionfatrici per un migliaia di anni, sui campi di battaglia del Medioevo e del Rinascimento, ed ora finalmente interessate, come imprescindibilmente necessario nello scenario geopolitico successivo alla seconda guerra mondiale, nell’ottenimento di un qualche tipo di supremazia aerea. Non volendo quindi necessariamente ambire all’affidabilità ed ottimizzazione dei velivoli americani, né la brutale efficienza e potenza di fuoco di quelli sovietici, l’Arsenal de l’Aéronautique (o SFECMAS – (la Société Française d’Etude et de Constructions de Matériel Aéronautiques Spéciaux) di proprietà statale fece qualcosa di largamente inaspettato: acquistare nel 1953 la compagnia privata di Bourges, Nord Aviation, perseguendo assieme ad essa l’ambizioso miraggio dell’aereo più veloce al mondo. Il paese più esteso dell’Europa Occidentale aveva infatti una particolare strategia progettuale aeronautiche, all’epoca, che si distingueva nettamente da quella delle altre potenze economiche coéve. Consistente, essenzialmente, nella costruzione di prototipi di legno, con motori sottodimensionati o assenti, che venivano successivamente trainati in volo e fatti planare per qualche chilometro fino alla pista d’atterraggio della base di partenza. Un approccio che si era rivelato già dal 1951 utile, con l’esperienza riuscita del modello Arsenal 2301, a riconfermare l’efficacia delle ali a forma di delta, con un impennaggio sopraelevato, il naso a punta ed una fusoliera sufficientemente tozza da riuscire ad ospitare un potente impianto di propulsione. Fu perciò del tutto naturale, tre anni dopo, utilizzare tale punto di partenza per creare il compatto Nord Gerfaut (“girifalco” o F. rusticolus) un aereo monoposto sperimentale dotato di motore Atar 101F da 42 kilonewton, destinato a dimostrarsi come il primo aereo costruito in Europa capace di raggiungere la velocità di Mach 1.13 nel volo livellato e senza l’uso dei postbruciatori. Ed è attraverso l’effettiva evoluzione dei principi tecnici e specifiche ambizioni procedurali, che a partire dal traguardo qui raggiunto le autorità stilarono un documento, per richiedere la creazione di una nuova tipologia d’intercettore capace di raddoppiare la velocità effettiva del suono, raggiungendo l’abito numero del Mach 2.0. Fu a questo punto coinvolto Jean Galtier, l’ingegnere capo della SFECMAS, per una serie di modelli, numerati rispettivamente 1400, 1500 e 1910, il secondo dei quali, l’unico a progredire fino al punto di un prototipo funzionante, sarebbe in seguito stato ribattezzato come il Nord 1500 Griffin. Una creazione dal profilo tanto distintivo, nonché pragmatico, da riuscire a distinguersi in maniera particolarmente netta dalla vasta maggioranza degli aerei passati, presenti e futuri, vista la maniera in cui integrava la più impressionante dotazione mai concepita in linea di principio per un aereo da combattimento: un Nord Stato-Réacteur da 67.8 kN, lungo più dell’intero modello precedente del Nord Gerfaut. Con il risultato d’ottenere l’impressione, pienamente apprezzabile allo sguardo e non del tutto errata, di un piccolo velivolo posizionato ad arte, sopra un razzo pronto per raggiungere gli strati superiori dell’atmosfera….

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La costante accelerazione lineare dei treni nell’evoluzione delle ferrovie francesi

C’è un fascino difficile da sopravvalutare, nelle immagini in cui viene documentato un qualche pregresso record di velocità, particolarmente se del tipo rimasto imbattuto per un periodo attualmente pari ad esattamente 15 anni. La maniera in cui il veicolo, ripreso alternativamente con prospettive interne ed esterne, le seconde offerte almeno in parte dalla telecamera montata su di un jet a reazione Aérospatiale Corvette, coi motori a regime nell’impegnativa mansione di mantenere la corretta distanza dal sottostante serpente di vetro, plastica e metallo. Perché pur sempre di questo si tratta, nonostante le modifiche e soprattutto la rimozione di una larga parte dei suoi vagoni, al fine di raggiungere un rapporto di peso-potenza sensibilmente più vantaggioso. E benché i rettili striscianti non possano essere, in natura, creature particolarmente rapide, va da se che tale limite decada in situazioni tecnologiche, grazie al valore concesso dall’utile invenzione umana delle ruote. Interfacce ferroviarie, in senso più specifico, del treno modello TGV POS (Paris-Ostfrankreich-Süddeutschland) attivamente adibito alla ricerca del più prestigioso dei risultati nel mondo dei trasporti: la dimostrazione pratica di poter fare prima, in un’ideale confronto tra i sistemi semoventi, nel raggiungimento della meta finale. Così l’appassionante sequenza risalente al 2007, che mostra la sua duratura e impressionante fase di accelerazione, viene accompagnata dall’indicazione di un riquadro alfanumerico in alto a sinistra, indicante l’effettivo regime raggiunto a fronte di misurazioni tachimetriche innegabilmente precise. Dagli zero ai 100, e poi 250, 380, 495 e così via a seguire… Quando i pantografi del mezzo ad alimentazione elettrica vengono ritratti al fine di ridurre l’attrito, permettendogli di accelerare ancora per inerzia, ed il numero si ferma infine al ritmo demoniaco di 574,5 Km/h: abbastanza da spostarsi tra Los Angeles e San Francisco in poco meno di un’ora. Se soltanto negli Stati Uniti esistessero infrastrutture altrettanto solide e mezzi ferroviari di una comparabile potenza situazionale.
Così la storia ci ha abituato, nella ricerca delle eccellenze veicolari, di guardare unicamente ai trascorsi di determinati paesi come quello, cui si aggiungono in tempi recenti Giappone, Cina… Quando l’evidenza ci dimostra come, ancora oggi, esistano dei campi in cui è sovrana la cara vecchia Europa. Vedi quello, largamente ineccepibile, del trasporto ferroviario ad altissima velocità. O per dare il giusto a Cesare, francesizzando l’espressione, il Train à Grande Vitesse/alias TGV, lungamente associato a una reiterata serie di traguardi, a partire dall’ormai remoto 1981, mediante i quali la corona è ritornata più e più volte all’ombra dell’iconica Tour. Che poi sarebbe un eufemismo per chiarire come, tra tutti i metodi utilizzato per perfezionare il trasferimento di cose o persone oltre il tragitto di una prototipica strada ferrata, nessuno meriti gli stessi riconoscimenti di questo, perseguito attraverso le ultime quattro decadi eliminando fino all’ultimo margine d’errore inerente. Verso l’acquisizione dell’assoluto e incontrastato primato mondiale, per lo meno all’interno di una serie di linee guida, sinonimo di ragionevolezza procedurale…

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Come corrono le auto di legno fatte in casa sopra il ciglio di un burrone in Ecuador

Alla velocità di almeno 35 Km/h, la sferragliante automobilina sembra perdere momentaneamente il controllo, scivolando inesorabilmente verso la banchina. Per un attimo i secondi sembrano fermarsi, poco prima dell’impatto contro un fuoristrada parcheggiato, per l’appunto, a lato dell’asfalto ruvido e impietoso. Il colpo è abbastanza forte da spostarlo, incredibilmente, mentre i due occupanti si rialzano del tutto illesi. Un miracolo? Superflua, persino sopravvalutata è la presenza di un motore dentro la struttura del veicolo… Poiché quello che davvero conta non è il rombo di quel meccanismo, ma il sibilo dell’aria stessa. Metafora evidente del concetto transizionale del viaggio, spostamento dal principio Alfa fino al termine della sequenza. Nell’implicita misura progressivamente prolungata, tanto spesso fatta il fondamento della percezione umana! Quando prati, alberi e auto parcheggiate si susseguono veloci ai margini del campo visivo e parimenti nello spazio che si trova in mezzo, tra la mente e le sinapsi del cervello stesso. Sostituendosi a problemi, pensieri ed indesiderabili rimorsi. Questo è il merito collaterale, d’altra parte, della “zona” ovvero il “terzo luogo”, il recesso dove si trascendono i pressanti limiti dell’essere umano. Per riuscire a diventare, almeno temporaneamente, spiriti del tutto liberi e gloriosamente disconnessi dalla quotidianità. Tramite una serie di aspetti del tutto arbitrari, e che ne dite dei seguenti? Punto primo: il gioco. Punto secondo: la competizione. Punto terzo: il pericolo. Così come perseguito, tramite l’evoluzione progressiva, nell’odierna iterazione dell’attività “sportiva” maggiormente amata in uno dei paesi più montuosi dell’intero continente sudamericano. L’unico vero cappello del serpente andino, dove l’altitudine media delle città supera agevolmente i 2.000 metri, tra alcuni dei paesaggi più appassionanti immaginabili nel grande cerchio geografico del mondo. Un presupposto certamente valido, nonché innegabilmente utile, per l’idea alla base di una simile avventura alla velocità di una cascata. Che si concretizza annualmente, tra ottobre e novembre, nelle feste patronali e della fondazione di siffatte comunità montane, secondo una pregiata tradizione assai diffusa, ineccepibile nel proprio tracotante laicismo e le attuabili presenti applicazioni iterative. D’altra parte non può certo scomparire, ciò che ha la caratteristica di essere davvero entusiasmante. Nella specifica maniera chiaramente dimostrata in questo video on-board, frutto del desiderio di condividere di uno dei partecipanti alla notevole Fiesta de Alausí, dedicata al personaggio di San Marcial (Marziale) vescovo missionario del III secolo d.C, battezzato e convertitosi direttamente grazie all’intervento di Pietro. Che una volta usciti tutti dalla porta della chiesa, comporta questo: la rutilante, roboante, incombente carovana di corridori, impegnati nella prestigiosa carrera (corsa) delle coches de madera (auto di legno) finalizzata a determinare, una volta per tutte, chi sia il più rapido tra gli abitanti del paese nel riuscire a raggiungere la linea del traguardo. Mentre osserva e mantiente attuali, nello schema dei suoi gesti, una serie di regolamenti tutt’altro che improvvisati…

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Rolls Royce e il volo elettrico: l’obiettivo questa volta è la velocità

Chiaramente individuabile a qualche decina di metri alla mia destra, la formazione a V delle anatre migratrici disegna un chiaro simbolo nell’azzurro cielo poco fuori la città di Londra. Con un tocco lieve della barra di controllo, avvicino quindi le mie ali a quel pennuto assembramento di creature, affrettandomi a scattare qualche foto con il cellulare, nella chiara consapevolezza che la silenziosità del mio velivolo avrebbe impedito loro di spaventarsi. Osservando il rapido avvicinamento della velocità di stallo, quindi, spingo innanzi la manopola dell’accelerazione, lanciandomi in una ripida picchiata verso il suolo. Niente indugi prima della prossima fermata, Parigi all’altro lato della Manica: il grande numero con la percentuale sul mio cruscotto ha infatti già iniziato a segnare 99.
Molti dei più importanti traguardi sportivi e tecnologici sono il frutto innegabile di una particolare tipologia di attività umana. E quante occasioni sarebbero andate perse, se non avessimo avuto a guidarci, come la luce di un’astro nascente, la finalità di primeggiare secondo le regole arbitrarie che ci siamo autoimposti sulla base di convenzioni variabilmente acquisite? Ovvero in altri termini, la naturale pulsione al gioco, che a tal punto si ritrova in ogni essere dotato di uno scheletro, un cervello e articolazioni in grado di riuscire a garantire un qualche tipo di mobilità innata. Così tutti i tipi di mammiferi, e così pure i gli uccelli, sebbene sia comprensibilmente complesso riuscire a identificare che cosa guidi i loro comportamenti, tanto risultano diversi da noi. Ma c’è una particolare aspirazione che riesce ad accomunarci, per vie totalmente opposte, come esseri pensanti e coscienti di questo pianeta; sto parlando, come avrete potenzialmente già intuito, del volo. E se ogni forma di competizione è (neanche tanto) in fondo il frutto di un divertimento, molto di quello che ambiamo in tale ambito lieve può essere direttamente ricondotto all’opera ed il lascito immanente di Jacques Schneider, il finanziere francese ed aviatore fin dall’epoca delle mongolfiere, che nel 1912 annunciò la prima edizione del trofeo destinato a portare il suo nome, per chi avesse trionfato in una gara di velocità concepita per stimolare l’avanzamento prestazionale degli aerei concepiti per l’aviazione civile. Ma che avrebbe invece finito per aprire la strada a molti dei modelli di caccia destinati a far scintille per tutto il corso della seconda guerra mondiale. Vedi il caso del suo ultimo vincitore nel 1931, quel Supermarine S.6B da cui sarebbe stato tratto l’unico aeroplano in grado di difendere le coste inglesi dalla temibile Luftwaffe, il maneggevole ed appropriatamente armato Supermarine Spitfire.
Concluso l’oscuro secolo del Novecento e raggiunto il primo quinto dei cento anni a seguire, non è più altrettanto facile trovare margini evidenti di miglioramento. Con l’efficienza raggiunta dalla maggior parte degli aerei e la ripresa dell’annuale coppa a partire dal 1981, in un contesto mirato questa volta più che altro alla premiazione delle abilità dei piloti, ben pochi spazi sembrano restare a disposizione di chi volesse raggiungere nuove vette del volo a a motore. A meno che non si voglia spostare la propria attenzione ad un diverso aspetto di tale ambito, quello mirato non più ad andare più veloci, alti e lontani, bensì ridurre il “costo” inerente speso per riuscire a farlo, inteso come l’erosione entropica del patrimonio “x” a disposizione del nostro boccheggiante pianeta. Già: volare ad emissioni zero, un apparente contraddizione in termini se si considera come, a differenza dello spazio ingegneristico dei veicoli a quattro ruote, questo specifico approccio alla motorizzazione non fu mai davvero preso in considerazione, fatta eccezione per alcuni pionieristici esperimenti, fino almeno all’inizio degli anni 2000. Questo per il peso e l’ingombro inevitabili, come parte di qualsiasi batteria o serie di esse sufficientemente capienti, da riuscire a sviluppare l’energia necessaria a far librare un velivolo per più di pochi minuti. Almeno, fino all’epoca recente ed ancor più nel caso del nuovo dimostratore tecnologico fuoriuscito da un’officina inglese, l’aereo messo assieme dal noto produttore di motori ed automobili Rolls Royce per infrangere ogni record di velocità ed autonomia nel campo degli aerei totalmente elettrici ad emissioni zero. Raggiungendo, si spera, gli stessi 547 Km/h (340 mph) che furono scritti a lettere di fuoco nella storia dall’impresa di Supermarine tanti anni a questa parte. E comunque vada, alla fine, non è difficile capire quanto riuscirà a risultare interessante…

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