Circostanze insolite portano generalmente a soluzioni o approcci poco ortodossi e non c’è stato in epoca moderna un luogo maggiormente fuori dalle situazioni urbani usuali, che l’enclave circondata dal muro di Berlino Ovest, resa in qualche inaspettato modo necessaria dalle consuetudini socio-politiche dello stato dei fatti al termine del secondo conflitto mondiale. Emblema della guerra fredda e simbolo della testardaggine degli uomini al comando, ma anche un luogo particolarmente ambìto residenza perché normativamente esente dalle incombenze ed i doveri civici di un fiero stato socialista, come la parte di Germania allineata con il Blocco Orientale. Il che avrebbe portato, anche al termine del lungo periodo delle defezioni dolorosamente contrastate a colpi di fucile dalle guardie di frontiera, ad uno stato di sovrappopolazione pressoché costante, con una quantità di alloggi disponibili semplicemente insufficienti agli oltre 2 milioni di persone in grado di chiamarla casa all’inizio degli anni ’70. Molte delle quali costrette dalle circostanze a vivere in condizioni disagiate, totalmente opposte a quelle che si sarebbero aspettati all’interno di una cosiddetta democrazia occidentale. Fu dunque nel 1971 che una grande compagnia di sviluppo edilizio privato, la Degewo, diede inizio ai lavori per costruire qualcosa di completamente nuovo: un complesso residenziale composto da due massicci edifici, dislocato come il soffitto di una caverna sopra una delle principali strade di scorrimento del quartiere Rheingauviertel. Coinvolgendo direttamente diversi architetti di larga fama, tra cui Georg Heinrichs , Gerhard Krebs e Klaus Krebs, i quali molto prima delle fine dovettero ritrovarsi a fare i conti con la problematica più comune: i loro committenti avevano esaurito i soldi ed il progetto si era trovato in un impasse procedurale entro un periodo di cinque anni. Inoltre le oltre 250.000 tonnellate usate per costruirlo, inaspettatamente, stavano iniziando sprofondare. Una problematica urgente che avrebbe necessitato l’immediato coinvolgimento del governo in qualità d’investitore, il quale finanziata l’immissione di potenti sbarre d’acciaio nelle fondamenta, avrebbe decretato che una parte significativa dei nuovi palazzi fosse assegnata in qualità di case popolari. Fu dunque proprio questo, il sentiero percorribile che avrebbe condotto l’Autobahnüberbauung Schlangenbader Straße (Complesso Autostradale sulla Via del Serpente) al suo tardivo ma riuscito coronamento nel 1980. Non che nessuno, in seguito, avrebbe continuato a definirlo in questa ponderosa maniera, preferendogli il tipico berlinismo di Schlange o Snake, ovvero molto più semplicemente e metaforicamente, “Il Serpente”. Questo anche per la sua lunghezza di 600 metri sufficiente a renderlo uno dei complessi di appartamenti contigui più vasti di tutta Europa e conseguentemente, del mondo intero. Offrendo un sentiero di possibile risoluzione, per il problema universale di riuscire a restituire all’uomo, i considerevoli spazi urbani attualmente necessari per gli spostamenti degli autoveicoli dal un lato all’altro del centro abitato…
popolazione
La gru precisa del portuale che fa scendere i visitatori sull’isola dello zucchero giapponese
I video di viaggio regionali dell’arcipelago del Sol Levante costituiscono frequentemente un’esperienza meditativa e vagamente straniante, con protagonisti silenziosi che riprendono in prima persona le particolari modalità e i servizi offerti ai connazionali durante le loro peregrinazioni finalizzate all’acquisizione di ricordi preziosi. Con i nostri anfitrioni digitali che salgono a bordo di traghetti o treni mentre osservano con distacco il panorama, per poi pranzare con piatti di ramen o altre pietanze acquistate nei distributori, sedendosi da soli ai tavoli, quasi come il contatto accidentale con gli sconosciuti fosse una distrazione poco desiderabile, totalmente controproducente in considerazione delle circostanze vigenti. Immaginate quindi la mia sorpresa nel vedere il modo in cui il titolare del canale Capsule Japan si è trovato a scendere, l’estate scorsa, in un luogo situato letteralmente ai confini del Giappone (e del mondo?) Non in placida contemplazione, bensì tra le istruzioni gridate tra un gruppo di esperti operatori portuali. Fatto entrare in una gabbia sospesa non dissimile da quella usata per sbarcare gli animali da fattoria. Poiché invero, non era possibile a quel punto andare avanti in nessun altra maniera.
È facile dimenticare, mentre ci si aggira per la città più vasta del mondo sperimentando i divertimenti di un universo tecnologico ed avveniristico, che il paese di Izanagi è un arcipelago e come tale costituito da isole grandi ed isole piccole. Terre vicine ed altre lontane. Sperdute, addirittura, in mezzo ai flutti del Pacifico, dove nessuno avrebbe mai pensato di raggiungerle prima dell’epoca del colonialismo e tutto ciò che deriva sul sentiero dell’industria dei giorni odierni. Narrano perciò le cronache di come Tamaki Hanemon, uomo d’affari del periodo post shogunale, avesse sviluppato una filiera produttiva per le piume d’albatross al fine d’imbottire materassi di pregio. Almeno finché nel 1902 presso l’isola meridionale di Torishima (鳥島 – Isola degli Uccelli) non si verificò una grave ed improvvisa eruzione, destinata a costare la vita a tutti e 125 gli addetti alle sue dipendenze, portando all’immediata e inevitabile interruzione delle operazioni. Fu così che questo figlio di un magistrato, con significativi contatti presso il governo della Restaurazione Meiji, decise di unirsi ai coloni che l’Impero aveva disseminato a partire da 17 anni prima in giro per gli atolli corallini che circondavano il polo amministrativo di Okinawa. Tra cui il remoto Minamidaito (南大東村) di appena 30 Km quadrati situati a 360 di distanza dal porto più vicino. Ma notevolmente pianeggiante, oltre ad essere situato a pieno titolo all’interno dell’ecozona tropicale e perciò terreno fertile per ciò che aveva l’intenzione di realizzare: un impero agricolo, questa volta, fondato sul valore della canna da zucchero e tutto ciò che questa poteva significare nel contesto commerciale del suo paese. Era il principio di quella che sarebbe diventata la Daito Sugar Co., Ltd, perfetta unità di azienda, luogo, gruppo civile ed intenti. Riuscite ad immaginare nulla di più redditizio? Oltre un migliaio di persone che lavorano con obiettivi comuni. Nella certezza che i loro figli o figli dei loro figli, un giorno ancora distante, avrebbero ereditato queste terre. Ed in effetti, molti anni dopo, così fu…
La storia sotterranea del sussidio che portò alla democrazia del formaggio di stato
È abbastanza normale per un’amministrazione presidenziale statunitense trovarsi a risolvere, poco tempo dopo l’insediamento, un qualche tipo di problema ereditato a causa delle scelte politiche ed organizzative del predecessore. Nel caso di Ronald Reagan, tuttavia, tale casistica sembrò assumere proporzioni del tutto nuove, quando gli amministratori dell’erario si trovarono a fare i conti con l’esistenza di circa 1,3 milioni di Kg di formaggio proprietà dello Stato, lentamente avviato ad ammuffirsi in una vasta quantità di siti di stoccaggio segreti. Letterali caverne sotto il suolo del paese, concettualmente non così dissimili da Fort Knox se solo “l’oro” fosse visto, ed allo stesso tempo ridefinito, dalla prospettiva di un roditore. E per capire come si sia giunti a questo, sarà dunque opportuno ritornare indietro di ulteriori 32 anni, quando nell’immediato dopoguerra la produzione agricola statunitense parva risentire di un significativo rallentamento del mercato, causato almeno in parte dall’introduzione di una dieta maggiormente diversificata ai molti dei livelli della società contemporanea. Ragion per cui venne deciso con l’Atto Agricolo del 1949, ultima conseguenza della strategia economica varata da Roosevelt con il suo New Deal, che lo stato avrebbe mantenuto stabili i prezzi di determinati prodotti, non calmierandoli dall’alto bensì acquistandone delle quantità variabili secondo le leggi del libero mercato, nella convinzione di poter in seguito trovargli un qualche tipo di destinazione. Prospettiva valida per molti aspetti, tranne quella del fluido al tempo stesso più prezioso e deperibile proveniente dai copiosi allevamenti dell’America rurale: il latte bovino. Che ben presto venne trasformato in burro, latte in polvere e… Formaggio, per l’appunto, nella ragionevole speranza di riuscire a conservarlo più a lungo. La situazione non sarebbe tuttavia davvero sfuggita di mano fino agli anni ’70, quando un generoso programma di sussidi venne implementato durante il mandato di Jimmy Carter, nella ferma convinzione che l’investimento di circa due miliardi di dollari in un periodo di 4 anni sarebbe stata l’unica maniera per contrastare la crisi economica e dei carburanti. Il risultato, non del tutto prevedibile, sarebbe stata una letterale esplosione di produttività. Ogni ranch, fattoria ed allevamento bovino si trovò a nuotare letteralmente nella preziosa e nutriente bevanda, affrettandosi quindi a rivenderla alle autorità sfruttando i metodi creati svariate decadi prima. Così il surplus di formaggio continuava ad aumentare e nella speranza di riuscire a conservarlo più a lungo, l’erario si affrettò a procurarsi spazio in magazzini dalle condizioni climatiche il più favorevole possibili, inclusi quelli situati sotto molti metri di cemento e terra. Era iniziata l’Era del formaggio nascosto e nulla, caso vuole, sarebbe stato più quello di prima…
120 anni dopo, come sopravvivono le capanne costruite per il terremoto di San Francisco
Nell’autunno del 1906, come conseguenza del quinto peggior disastro naturale ad aver mai colpito gli Stati Uniti (e di gran lunga il peggiore a non avere un’origine meteorologica) la brava gente ancora gravemente scossa della Città Dorata si ritrovò ad affrontare un dilemma di rara e significativa entità. Come assicurare la sicurezza di molte migliaia dei suoi abitanti, ancora costretti a vivere all’interno di tendopoli create per rispondere alla grave crisi degli alloggi, conseguente dalla distruzione di una percentuale stimata dell’80% dei suoi edifici? Di certo, lo spirito del mutuo soccorso aveva aiutato fino a quel momento e il clima della California era stato d’aiuto, ma il progressivo abbassarsi della temperatura non stava facendo altro che accelerare l’inevitabile: c’era bisogno di un approccio abitativo migliore e sarebbe stato meglio, se possibile, muoversi in tal senso prima dell’aumento esponenziale dei disagi e potenziali problematiche per il benessere comunitario. Dal che l’iniziativa, in prima battuta teorizzata dal membro della commissione finanziaria della Croce Rossa, il Dr. Edward T. Devine, di stanziare tra i 3 e i 4 milioni dollari di aiuti pubblici al fine di costruire un nuovo tipo di ricoveri semi-permanenti, da affittare e vendere ad un prezzo calmierato utile a garantirne la distribuzione il più possibile democratica tra coloro che ne avevano maggior bisogno. Un approccio così distante dallo stereotipo del capitalismo permanentemente alla ricerca di possibili occasioni di guadagno, che tuttavia piacque a tal punto al sindaco Eugene Schmitz ed il suo comitato speciale, costituito da 50 rappresentanti e suoi concittadini, che in breve tempo vennero coinvolte personalità dalla qualifica rilevante, affinché l’idea potesse trasformarsi in una concreta verità. Dovete considerare a tal proposito come l’epoca vigente fosse ancora ben lontana dal potersi affidare a soluzioni prefabbricate o catene di montaggio parzialmente automatizzate, rendendo perciò opportuno l’immediato impiego di ampie maestranze finemente addestrate al fine di garantire rapidità, standardizzazione, qualità del prodotto finale. Le due persone chiave del progetto furono per questo fin da subito il maggiore generale Adolphus W. Greely per la parte tecnica, e dal punto di vista dell’ergonomia e design, niente meno che John McLaren, l’esperto ed eccentrico orticoltore di origini scozzesi, già da una quindicina d’anni a capo dell’Ente Parchi cittadino nonché assoluto supervisore del Golden Gate Park. Uno dei luoghi designati, in maniera imprescindibile, come punto d’assemblaggio e schieramento delle nuove abitazioni, assieme agli attuali spazi verdi di Dolores, Precita, Camp Richmond, Columbus Square e il Presidio. Luoghi dove venne infine concordata la messa in opera di un gran totale di 5.610 case, che sarebbero giunte ad ospitare all’apice del loro impiego all’incirca 17.000 persone. Nello spazio oggettivamente ridotto di 4,2 x 5,4 metri per ciascuna famiglia, tuttavia efficientemente protetto dagli elementi e costruito in base ai migliori crismi possibili con la tecnologia dell’epoca. Tanto che in molti avrebbero successivamente dichiarato di aver visto migliorare esponenzialmente la qualità delle proprie condizioni abitative a seguito del terremoto, sebbene nessuno di loro avrebbe mai potuto immaginare l’aumento drastico di valore a cui sarebbero state destinate le proprie anguste capanne, capaci al giorno d’oggi di sfiorare, e qualche volta addirittura superare, il milione di dollari cadauna…