“La fantasia imita la natura” è i tipo di affermazione che ritrovi in molti casi nell’analisi retrospettiva delle creazioni immaginifiche prodotte dall’umanità ma che non ti aspetteresti, previo approccio al tema dell’ecologia preistorica, di trovare in siffatta guisa inaspettatamente rilevante. Pensate quindi al mecha-robot Voltron che combatte il male proveniente dalle vastità del cosmo, le cui gambe, braccia, torso e testa sono la diretta risultanza di una serie di leoni totalmente indipendenti, capaci di ricombinarsi ogni qualvolta si presenta la necessità di contrastare un avversario particolarmente imponente (un concetto, questo, ripreso da innumerevoli serie televisive e cartoni animati di provenienza giapponese). Ed ora provate ad applicare questo stesso approccio alla questione alla schiera di fossili eccezionalmente biodiversa ritrovata nello scorso secolo all’interno dell’argillite di Burgess, l’importante deposito geologico dalla datazione acclarata situato sopra le Montagne Rocciose, stesso luogo dove un tempo le profondità marine nascondevano creature dalla provenienza e caratteristiche tutt’ora oggetto di studio. Trovando al centro dell’insolita questione, la trafila tassonomica vissuta da coloro che si sono interessati nel corso della loro carriera ai qui diffusi e assai probabili antenati degli odierni artropodi, appartenenti all’ordine dei Radiodonta (“bocca a [forma di] ruota”) ed il cui rappresentate più famoso ed illustrato è la specie qui presente dell’Anomalocaris canadensis, le cui diverse componenti furono all’inizio ritenute, da ciascuno degli scopritori, come appartenenti ad una creatura totalmente sconnessa dalle altre. Un errore inizialmente commesso dal paleontologo Joseph Frederick Whiteaves, che incontrando delle strane estrusioni ricurve pensò inizialmente appartenessero ad un qualche tipo di gambero, essendo nei fatti la loro intera coda rimasta priva di zampe (da cui per l’appunto il nome: Anomalo – strano / caris – gambero). Così come Charles Doolittle Walcott, a poco meno di una decade di distanza, avrebbe preso entusiasticamente in mano il fossile circolare di un’insieme di denti, affermando senza dubbio di alcun tipo che dovesse invero trattarsi di una medusa. E qualcosa di simile avvenne poi al collega Simon Conway Morris, inzialmente convinto di aver trovato il corpo centrale di un nuovo strano tipo di spugna marina. Finché non fu proprio quest’ultimo, nel 1978, a comprendere per inferenza da un diverso e successivo radiodonte, il più piccolo Peytoia, di doversi confrontare con i suoi colleghi ed assemblare tutto quello che era stato posto fino a quel momento sopra il tavolo delle divergenti idee. Iniziativa dalla quale scaturì, come mettendo assieme i pezzi di un puzzle privo di precedenti, la forma sorprendente di un singolo animale; imponente, probabilmente assai aggressivo, nei fatti un vero e proprio Leviatano del suo contesto di appartenenza. L’epoca remota del Cambriano, situata tra i 541 e i 485 milioni di anni fa circa, è un tempo di suo conto in cui le singole creature più imponenti difficilmente superavano i pochi centimetri di lunghezza, poiché semplicemente l’evoluzione non aveva ancora permesso di scoprire le strutture biologiche adeguate a sostenere forme fisiche più imponenti. Questo almeno fatta eccezione per la creatura in questione, i cui esemplari adulti potevano raggiungere il metro di lunghezza. Proprio così, mettendo assieme agli elementi, siamo effettivamente al cospetto di quello che potrebbe aver costituito per milioni di anni il più terribile predatore della Terra. Un gigantesco mostro, con tutti gli strumenti necessari a mantenere il predominio degli oceani primordiali e tiepidi del nostro accogliente mondo…
occhi
L’occhio museale finalmente inaugurato per scrutare verso l’indomani di Dubai
In una scena che pare prelevata direttamente da un film di fantascienza, l’oggetto toroidale sorto all’ombra del grattacielo più alto del mondo viene avvicinato progressivamente da un velivolo dall’aspetto inconsueto. Simile ad un drone, ma dotato di propulsori direzionabili a piacere, che in base al rumore si capiscono funzionare grazie ad una qualche applicazione avveniristica del principio aeronautico del jet. Quando giunti a una distanza sufficientemente ravvicinata, la parte superiore dell’anello si solleva, letteralmente, poco prima d’iniziare a scorrere di lato: l’edificio, a questo punto, è aperto. L’oggetto volante non meglio identificato vi atterra all’interno. Dopo qualche attimo di attesa particolarmente pregna, l’elemento apribile ritorna al suo posto. Non v’è alcuna traccia di eliporto, sulla sommità dell’ultimo edificio stravagante della capitale del divertimento, Dubai. E se vi sembra una visione lievemente troppo avveniristica, direi che siete sulla strada giusta per quanto concerne l’aspetto logico, ma non quello tematico o concettuale. D’altra parte quello che stavate immaginando è un trailer ufficiale, largamente sanzionato dalle autorità cittadine, del nuovo, spettacolare Museo del Futuro nel Distretto Finanziario, creato per incrementare ulteriormente le attrattive turistiche di uno dei luoghi già più visitati al mondo. Le ricchezze date dal petrolio, d’altra parte, debbono esaurirsi a un certo punto degli eventi. Non così la fama è la celebrità di un luogo, se ciascun tassello di un preciso piano scivola al suo posto, realizzando l’effettiva forma di un gioiello inimitabile dall’una o l’altra parte dell’intero Mondo Arabo, e non solo… Brillante che necessità, come da copione, la possibile collocazione di un anello, che sia sufficientemente grande, o significativo, da poter riuscire a sostenerlo. Ecco a voi, per questo, l’opera dell’architetto Shaun Killa, al debutto col suo studio cittadino Killa Design e che parrebbe essere riuscito a far partire la carriera indipendente dalla vetta, che può provenire unicamente dalle conoscenze, la bravura e la validità delle proprie idee, capaci di sconfiggere ogni possibile proposta alternativa ad un concorso di portata internazionale. Coi meriti di un risultato che, in maniera certamente soggettiva, può essere ammirato dagli occhi di noi tutti ma difficilmente mancherà di suscitare un certo senso di stupore e meraviglia. Quanto spesso capita di vedere una creazione simile a una vera e propria stazione spaziale, ricoperta d’improbabili iscrizioni calligrafiche in lingua araba, che costituiscono nei fatti le sue uniche finestre aperte verso l’esterno? Una struttura possibile soltanto tramite l’applicazione di tecniche architettoniche assai particolari, capaci proprio in tal modo di offrire una via d’accesso alternativa, pratica e tangibile, all’argomento principale trattato all’interno dell’edificio stesso. Ovvero: (se tutto continua come dovrebbe) dove saremo tra 100, 1.000, 10.000 anni? Non il mero incipit di un testo da romanzo di genere, in questo caso. Bensì l’apprezzabile base di partenza per una serie di allestimenti e mostre multimediali di robotica, ingegneria, urbanistica e l’occasionale accenno trasversale al transumanesimo, che non guasta mai. Dopo tutto, quale miglior modo esiste per riuscire a superare le attuali fisime del mondo contemporaneo, che modificare le stesse limitazioni biologiche della nostra esistenza sulla Terra?
Croazia: difficile scrutare dentro “l’occhio” della Terra e non restarne ipnotizzati
Risulta difficile narrare, come si trattasse di una semplice vicenda umana, i lunghi processi geologici che hanno portato alla formazione del paesaggio attuale. Per il semplice fatto che decine d’anni, nel concludersi di tali eventi, diventano come minuti, e i secoli corrispondo alle ore. Eppure, grazie alla precisa lente della scienza, noi possiamo dire di sapere grossomodo quale fu il momento. E la ragione; a seguito dei quali, l’alto strato di rocce carbonatiche situato all’altro lato dell’Adriatico, spinto verso l’entroterra per l’ampliarsi progressivo del suddetto mare, iniziò a piegarsi su se stesso, àncora ed ancòra. Come l’acciaio di una spada giapponese dall’ampiezza di 7 Km, ma senza l’inerente flessibilità posseduta da un simile materiale; il che ha portato, in modo inevitabile, al formarsi di una grande quantità di spacchi e profonde fessure. Spazi all’interno dei quali, attraverso interminabili generazioni, è penetrata l’acqua piovana, fino al formarsi di ampi laghi e lenti fiumi sotterranei. Destinati a rimanere tali per almeno 50 milioni di anni, finché il delicato equilibrio dello stato dei fatti, coadiuvato dall’effetto della pressione artesiana, non portò tale sostanza incomprimibile a premere con enfasi contro le mura della sua prigione. Ed un giorno, apparentemente uguale a tutti gli altri, le montagne cominciarono a vedere.
L’Occhio della Terra, come sembrano chiamarlo tutti su Internet, sebbene il nome in lingua originale si orienti molto più semplicemente su Izvor Cetine (letteralmente: “la Fonte del [fiume] Cetina”) o Veliko Vrilo (“Grande Sorgente”) si trova ancora oggi e costituisce una delle più notevoli caratteristiche paesaggistiche dell’intera catena montuosa delle Alpi Dinariche, sebbene molti simili voragini dalle acque azzurre siano presenti lungo questa intera zona del paese. Ma non tutte fornite, a dire il vero, delle stesse caratteristiche idrologiche e situazionali, trattandosi nella maggior parte dei casi di semplici doline, ovvero fori carsici allagati, per lo più durante alcune specifiche stagioni dell’anno. Mentre le ragioni d’esistenza di un simile “occhio” appaiono drasticamente differenti, per la sua appartenenza alla categoria delle risorgive o fontanili, in questo caso nell’insolito contesto di un’altura montana, e perciò portando immancabilmente al defluire delle chiare, fresche e dolci acque verso valle. Proprio come scrisse il Petrarca nel 1341, riferendosi alla simile struttura sotterranea della Fontaine-de-Vaucluse, una fonte carsica nella parte meridionale di Francia, nei cui dintorni avrebbe trascorso alcuni dei più ispirati anni della sua lunga carriera di poeta. Una capacità di attrarre le fervide menti che indubbiamente può essere osservata anche a margine di questa voragine di forma e ovale e dall’ampiezza di circa 30 metri, visitata da molte migliaia di turisti ogni anno anche in forza delle sue attraenti acque di un’intenso azzurro, grazie alla composizione chimica e la rifrazione della luce per l’effetto della sabbia e delle rocce. In merito alla sua effettiva profondità, nel frattempo, possiamo affermare di essere molto meno sicuri, con un’esplorazione umana che si è rivelata capace di spingersi fino ai 115 metri, senza potersi spingere oltre senza arrivare ad infiltrarsi negli stretti e angusti cunicoli della speleologia sommersa. Ed anche in considerazione del pericolo mortale corso dallo stesso celebre esploratore marino Jacques Cousteau e la sua squadra francese nel 1946, durante il tentativo di un’operazione simile nella risorgiva della regione di Vaucluse. Il che non rende, d’altra parte, queste acque scorrevoli e dalla temperatura costante di 8 gradi ogni mese dell’anno meno intriganti, e capaci d’inglobare i più attrezzati e coraggiosi tra i sub…
Il topo senza occhi che assomiglia ad una macchina cilindrica per la creazione del traforo
Zver: la bestia. Al tramonto di una notte senza Luna, il terreno smosso si separa lentamente. Per lasciar passare, tra le intercapedini della coscienza, un muso grigio a forma di bottone. Ben presto seguito dalle zampe con gli artigli arcuati, che trascinano nell’aria tersa quella forma senza un chiaro davanti né dietro. Senza un suono, senza un obiettivo chiaro, la bestia vaga in cerca di… Qualcosa. Poiché essa non può vedere, il suo deambulare non segue il tragitto di una singola linea diritta, bensì il sinuoso incedere di un tozzo e irsuto serpente. Ma dato che l’olfatto è adeguatamente funzionale, entro poco tempo riesce ad individuare quello che stava cercando: un piccolo cumulo di terra, come circa una dozzina ne circondano quella particolare posizione nella valle tra i fiumi Dnieper e Volga, di quel dramma senza un’Era. Senza remore né nessun tipo di ripensamento, Zver comincia dunque ad emettere un suono. Una sorta di ringhio a bassa frequenza, cui subito risponde il breve abbaio della femmina in attesa percepito da quei buchi sulle tempie che costituiscono le orecchie, da sotto la coperta impenetrabile di quel tumulo improvvisato. Segue una pausa di preparazione, poco prima che lei emerga, cautamente, nella stessa identica maniera. Ciò che segue, raramente è stato visto dagli occhi umani. E di certo, mai da quelli posseduti dai due reciproci protagonisti della scena…
Creatura comune in tutta la Russia europea e zone limitrofe, inclusa l’Ucraina, il ratto talpa maggiore o Spalax microphthalmus, alias spalacino, ha ben poco a che vedere con il ragionevolmente più famoso portatore glabro dello stesso nome. Fatta eccezione per lo stile di vita sotterraneo ed il tipo di dieta, che i due esseri perseguono del resto in maniera del tutto differente, e l’appartenenza al grande ordine dei roditori. Laddove la famiglia e il genere sono del tutto tassonomicamente distinti, come del resto avviene anche per il ratto talpa del Damaraland della Namibia centro-meridionale. Quasi come se il fatto stesso di aver compiuto le particolari scelte evolutive che conducono a una simile esistenza possa essere la risultanza di una serie di concause differenti, conduttive verso quella condizione che magari, un giorno, potremmo giungere a condividere su questa Terra: arti forti, utili a scavare in modo rapido ed energeticamente efficiente. Incisivi orientati in avanti, come attrezzi utilizzabili per smuovere e mettere da parte il terriccio. E una saliente quanto utile ridistribuzione degli organi sensoriali in dotazione del singolo individuo. Perché a cosa potrebbe mai servire una vista acuta, se si vive esclusivamente all’interno di gallerie dove la luce non è di casa? Il tipico anellide non possiede a conti fatti nessun tipo di ausilio oculare e lo stesso potrebbe dirsi del nostro Zver. Fatta eccezione per il doppio agglomerato di cellule visive atrofizzate e completamente coperte da una membrana di pelle, per evitare che possano riempirsi di detriti. Ed è notevole osservare, qualora se ne abbia l’opportunità, la differenza che può fare questo semplice accorgimento, con il ratto-talpa maggiore che non soltanto può scavare, ma si tuffa letteralmente a capofitto in mezzo alla sterpaglia, penetrando attraverso il suolo come si trattasse di un sottile foglio di carta. Per offrire ancora una volta il suo contributo, al complesso network di gallerie che può costituire, di volta in volta, la città sotterranea di un insediamento di questi roditori. Un ambiente capace di raggiungere anche le svariate decine di esemplari e una profondità di 4-5 metri soprattutto nei mesi invernali, per un’estensione orizzontale che supera abbondantemente il centinaio. Senza giungere a costituire, tuttavia, l’approssimazione funzionale di un formicaio sovradimensionato, con tanto di ruoli rispettivamente assegnati, come nel caso dei ratti talpa glabri dalle dinamiche eusociali famosamente simili a quelle delle formiche. Sebbene anche questi loro pelosi cugini orientali possiedano, dal canto loro, una preziosissima regina…