Malkoha: il sommesso verso e la sgargiante maschera del cuculo gentile

Camminare dall’albergo fino a quel particolare tratto di foresta, giorno dopo giorno, con la pioggia o con il sole, con il chiasso o col silenzio. La natura può essere stancante: soprattutto quando si possiede l’obiettivo di riuscire a catturare quel particolare scatto fotografico. Di creature più elusive di un fantasma o di una ninfa dei boschi! Dalla Malesia al Borneo, dal Sulawesi allo Sri Lanka, e fino alle Filippine, una cosa soprattutto accomuna i variegati generi del gruppo informale dei malkoha, cuculiformi che quasi ricordano, per colori e fogge del piumaggio, l’estetica magnifica dei pappagalli. E tale cosa è la difficoltà che condiziona i loro avvistamenti; di uccelli schivi, agili, relativamente silenziosi quando non capaci d’imitare il verso di altri pennuti. E che tanto spesso, visti dal basso, non rivelano lo sprazzo di colori che caratterizza le loro sembianze. Ma una volta che si riesce a individuarli, diventano dei portatori di buone notizie. In quanto indicatori di uno stato di salubrità biologica del proprio ambiente, al pari dei più grandi e delicati mammiferi delle aree tropicali del mondo. A partire dalla varietà più conosciuta, benché poco studiata scientificamente, del Phaenicophaeus pyrrhocephalus lungo 45 cm che fornisce il nome comune anche ai propri cugini, il cui significato in lingua cingalese risulta essere “cuculo-fiore”. Dall’aspetto altamente caratteristico del piumaggio della testa, dotata di una maschera rosso vermiglio attorno agli occhi ed un collare di penne puntinate, bianche e nere alla maniera del contrasto dominante tra il petto e le sue ali. Con ben pochi propositi di mimetizzazione, quasi la natura avesse reputato secondario il tentativo di difenderlo dai predatori. Che possono includere rapaci, serpenti e l’occasionale dhole, cane o gatto nel caso delle specie che foraggiano a terra. In qualità di creature onnivore, primariamente in grado di nutrirsi di bacche, semi e germogli ma anche insetti e qualche lucertola, catturate tramite l’impiego degli affilati artigli. Utilizzati anche, in almeno un paio di casi attestati, al fine di difendere il territorio da possibili rivali. Il che risulta ad ogni modo piuttosto raro, trovandoci di fronte a una tipologia di uccelli piuttosto pacifici, e soprattutto inclini a costruirsi da soli il nido. Proprio così: nonostante la qualifica, i principali cuculi dell’Asia meridionale non praticano il parassitismo dei nidi. Non depongono le proprie uova accanto a quelle di madri inconsapevoli. E non si aspettano che i propri piccoli gettino fuori altre piccole vite dal nido, potendo fare affidamento sull’ingenuità dell’innato istinto materno degli animali…

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Lo sguardo noncurante della scimmia che ha modificato le nozioni sui primati nel Congo

Chi sceglie di viaggiare a lungo in Africa partendo da un paese del nord del mondo ha spesso una missione ben precisa in mente, la cui portata può variare dalla filantropia al fervore religioso, l’intento accademico o l’interesse per un qualche tipo di guadagno personale. Il che sottintende, in ciascuna di tali circostanze, l’esistenza di un pretesto di qualche tipo; nel caso di John A. Hart nel 2007, tale punto di partenza ebbe l’opportunità di palesarsi da una singola foto scattata presso il villaggio di Opala, nella Repubblica Democratica del Congo, raffigurante una bambina con un guinzaglio stretto in mano. Ed all’estremità di quest’ultimo, una scimmietta molto interessante, lunga circa mezzo metro, la lunga coda e dalla folta criniera gialla a racchiudere un volto per lo più glabro, dai grandi occhi tondi e stranamente suggestivi di uno sguardo umano. Questo anche per la chiara visibilità della sclera bianca attorno alle pupille, una caratteristica in realtà piuttosto rara nel mondo animale. Nonché qualcosa di riconducibile all’aspetto di un guenon o cercopiteco, simile per molti versi alla specie C. hamlyni, se non fosse per la località geografica di pertinenza: a centinaia, se non migliaia di chilometri dalla zona di territorio in cui tale creatura già rara era mai stata avvistata in precedenza. Tralasciando dunque l’eventualità improbabile di un commercio a lunga distanza in tale ambito rurale ed extra-urbano, il ricercatore della fondazione Lukuru per gli Animali di Kinshasa decise di fare i bagagli con la moglie Terese e recarsi sul posto, al fine di conoscere la giovane padrona di quell’animale e la sua storia.
Il che li avrebbe portati, dopo poche settimane, ad incontrare di persona Georgette, la figlia del preside della scuola e venire a conoscenza di come la sua piccola amica fosse stata adottata in famiglia dopo che un cacciatore, intento a procurare la forma di sostentamento proteica nota come bush meat, ne aveva ucciso la madre. Portando in casa l’animale che non aveva suscitato particolare stupore tra i vicini, costituendo il tipico rappresentante di una varietà largamente nota: quella delle lesula, presenze infrequenti ma reiterate delle foreste circostanti. Qualcosa non quadrava e fu piuttosto facile capirne la ragione: qui ci si trovava innanzi al caso di un mammifero, per di più facente parte dell’ordine di creature maggiormente affine agli esseri umani, di cui la scienza non aveva mai annotato l’esistenza.
Urgeva un percorso di approfondimento delle cognizioni in merito, per confermare in modo inconfutabile le straordinarie circostanze. Per cui l’approccio scelto dagli Hart sarebbe stato, grazie alla modernità, di un tipo tecnologico, attraverso l’installazione di numerose fototrappole mediante un criterio altamente strategico, ovvero che fossero capaci di coprire i luoghi di passaggio e assembramento più probabili frequentati da questi sfuggenti abitanti. I risultati si rivelarono, fin da subito, sorprendenti…

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Entra in una mano, l’arboreo e variopinto alligatore della foresta mixteca

Tra le meno conosciute rappresentanti del subordine degli anguimorfi, i cui membri più imponenti includono i varani ed il mostro di Gila, le lucertole del Nuovo Mondo del genere Abronia si distinguono in modo particolare per la propria sfortunata, alta desiderabilità nel commercio internazionale di rettili a scopo di collezionismo. La motivazione è duplice è può essere rintracciata nelle loro dimensioni contenute, inferiore nel caso delle varietà maggiormente apprezzate ai 15 cm di lunghezza (coda inclusa) ed il loro aspetto indubbiamente memorabile, caratterizzato da una disposizione delle squame sovrapposte, che ricorda vagamente quella dei dinosauri o in alternativa, l’armatura di un cavaliere del nostro Medioevo. Insettivore, preferibilmente notturne, arboricole ed inclini al mimetismo in tenera età, causa predazione da parte degli uccelli tra cui la temibile averla impalatrice, esse non possiedono tuttavia particolari strategie d’autodifesa fatta eccezione per la capacità di gettarsi repentinamente a terra, riuscendo a sopravvivere nella maggior parte dei casi. Detto ciò, trascorso il periodo giovanile caratterizzato dalla livrea tendente al marrone spento simile ai tronchi degli alberi, virano nel caso della tipologia messicana gradualmente verso una colorazione maggiormente accesa, che vede i maschi di un acceso color smeraldo e le femmine tendenti al verde acqua o un azzurro simile al mare d’estate. Forse con intento aposematico, magari per la percezione istintiva delle creature troppo visibili come potenzialmente lesive e velenose, una percezione in questo caso erronea che ha portato le popolazioni locali a soprannominare le Abronia come escorpion de arbol, scorpioni degli alberi. Particolarmente presso gli altopiani della zona Sierra Madre de Oaxaca, ove risiede la specie non simpatrica ad altre delle A. graminea, così chiamate dal naturalista E.D. Cope a partire dal 1864, con probabile riferimento alle piante graminacee sopra cui egli ne aveva avvistato i primi esemplari. Questo nonostante le lucertole alligatore siano maggiormente associate, quanto meno nell’osservazione moderna, alla famiglia delle bromeliacee utilizzate localmente per l’alimentazione umana fin dai tempi delle popolazioni Inca ed Azteca. Uno studio scientifico stranamente limitato nel corso delle decadi, tanto che oggi possiamo vantare una conoscenza tutt’altro che approfondita in merito alle abitudini e caratteristiche di buona parte delle 29 specie riconosciute, principalmente derivanti dagli esemplari tenuti, loro malgrado, in cattività. Tali da farne un animale domestico le cui esigenze vengono generalmente soddisfatte da ogni punto di vista, benché le circostanze della vita all’interno di un terrario risultino essere raramente ideali…

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I contrastanti colori del jacutinga, tacchino preistorico dell’Amazzonia ed oltre

Siamo fondamentalmente abituati a giudicare le abitudini e il comportamento di un animale dal suo aspetto. Ed è probabile per questo che vedendo un tale uccello, dalle dimensioni relativamente grandi (fino a 74 cm) il corpo tondeggiante, la testa piccolissima e la lunga coda a traino, difficilmente tenderemmo a immaginare uno stile di vita diverso da quello di un tacchino, pollo o fagiano di terra. Finché udendo quel richiamo ritmico, accompagnato da un ronzante frullar d’ali, non ci capitasse di scrutare in alto verso la canopia. Per scorgerne una mezza dozzina appollaiati a 30-45 metri d’altezza, in mezzo ai rami dei kapok e delle magnolie secolari. Una popolazione dall’aspetto omogeneo, in genere, data la suddivisione rigorosamente territoriale tra le diverse varietà del genere Pipila, anche detto guan fischiante o tacchino sudamericano. Pur essendo complessivamente alquanto snello per tale qualifica, nonché sensibilmente più agile nel volo rispetto al galliforme tanto amato a tavola dai Padri Fondatori del remoto settentrione. Oltre che dotato di un piumaggio altamente caratteristico, in modo particolare nel caso del P. jacutinga, volgarmente identificato soltanto con la seconda parte del suo appellativo binomiale, non un termine latino bensì derivante dalla lingua dei nativi tupi, composto dalle parole ya’ku (uccello) e tinga (bianco). Evidenziando aspetti di una priorità non eccessivamente intuitiva, vista la comparsa di tale tonalità cromatica soltanto sulla sommità del capo e in una spruzzata sulle grandi ali, di una creatura per il resto nera fatta eccezione per il bargiglio rosso posto nella parte superiore del lungo collo. Un probabile elemento di seduzione, utilizzato come punto focale nelle danze ed evoluzioni nuziali, messe in pratica dai membri di questa specie non appena percepiscono l’inizio della stagione di accoppiamento. Assieme all’emissione del suddetto, trillante richiamo, da parte di un volatile che per il resto del tempo risulta essere per lo più silenzioso, con probabile riguardo nei confronti dei numerosi, possibili predatori. Che includono rapaci come l’aquila arpia, l’occasionale serpente arboricolo ed ogni qual volta capiti di scendere atterra, la sagoma fin troppo riconoscibile del giaguaro in agguato. Ragion per cui alla nascita i piccoli del jacutinga, non appena mettono la testa fuori da una delle 2-4 uova deposte dentro i loro nidi posizionati a mezza altezza sulla prima biforcazione dei tronchi, già possiedono la capacità di muoversi agilmente, mantenersi in equilibrio e scalare gli alberi, in maniera non dissimile dalle lucertole cui assomigliano da più di un singolo punto di vista. Ciò mostrando fieramente l’origine della propria differenziazione genetica, risalente almeno all’epoca del Pleistocene. Sarebbe alquanto difficile immaginare, in effetti, un pennuto che ricordi maggiormente la propria ascendenza genetica dai dinosauri, per il modo in cui questi pseudo-tacchini si muovono e scrutano attorno con fare minaccioso, pur essendo quasi totalmente frugivori e consumatori di germogli, fatta eccezione per il consumo occasionale ancorché spietato di qualche invertebrato, piccolo rettile o anfibio. Pregevoli fonti di proteine, per chi deve volare per vivere e sa farlo, indubbiamente, parecchio bene…

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