4 ruote, 4 zampe: l’auto-cane fuoristrada della California

Almeno quindici dozzine di telecamere, portate dagli spettatori per assistere ai momenti più memorabili della King of the Hammers del 2015, famosa corsa annuale tenuta in prossimità della base militare di Johnson Valley, nella zona di San Bernardino. E in quel saliente attimo, puntarono tutte nella stessa direzione. Non è difficile capirne la ragione… Mentre il granchio, il ragno, la creatura, il mostro di metallo appartenente ad una specie senza nome, fuoriuscito dalla scuderia segreta del produttore di trebbiatrici del Nebraska Alec Yeager, si apprestava ad affrontare il ripido percorso noto come Backdoor (la “porta sul retro”) composto da un pendio disseminato di ponderosi ed impressionanti macigni. Una sfida molto spesso insuperabile, per i più orgogliosi Rock Crawlers iscritti a questa particolare giornata di gara, ma non per costui. Che al sopraggiungere del primo ostacolo troppo alto, per quella che si presentava all’apparenza come un semplice buggy costruita su misura, rivela all’improvviso l’arma, per così dire, particolare: di una ruota che si pianta a terra, e inizia a sollevare il corpo del veicolo, subito seguita da quella in opposizione, attentamente riposizionata qualche metro più in avanti sul sentiero. Quindi, tra il sussistere dello stupore generale, lo stesso avviene con le altre due e via da lì in alternanza, finché la montagna non diventi un mero passo intermedio verso la meta del traguardo finale. E tutto grazie all’inventiva di colui che in linea di principio, doveva mettere la sua materia grigia di progettista al servizio di un compito straordinariamente mondano e semplice, come quello di raccogliere e preparare il grano?
Così può accadere talvolta, nel mondo della pubblicità, che un’associazione di pensieri concepita unicamente per accrescere le entrate di una compagnia finisca per portare avanti un messaggio valido al di là della semplice convenienza, perché proveniente da un remoto ambito situazionale. E di certo negli Stati Uniti in molti ricorderanno, ancora oggi, la storica pubblicità del Super Bowl andata in onda nel 2012 (come passa il tempo!) per il RAM Truck, l’iconico pick-up prodotto originariamente sotto il marchio della Dodge ed oggi parte integrante della grande famiglia Fiat Chrysler Automotive, intitolato “E fu così che Dio creò l’agricoltore”. Con immagini eleganti e semplici, di un grande ranch come ne esistono migliaia, primi piani di bambini e veterani di quel mondo, accompagnate dalle memorabili parole di Paul Harvey, direttore radiofonico e portavoce dell’associazione FFA (Future Farmers of America) che ispirandosi a una definizione degli anni ’40, immaginava una parafrasi del creatore supremo, in cui quest’ultimo elencava le capacità necessarie per svolgere il secondo (?) più antico lavoro al mondo; “Mi serve qualcuno che sia abbastanza forte da domare un vitello, ma abbastanza gentile da mettere al mondo il suo nipotino; qualcuno che possa chiamare i maiali, o redarguire macchinari irrequieti; tornare a casa affamato ed aspettare che la moglie abbia finito con le proprie ospiti, eppur dicendo loro di tornare anche il giorno dopo, con sincerità.” Percorrendo fino alle più estreme conseguenze, di quell’auto sfolgorante con il logo in bella vista, un sentiero di quella che potrà apparire un’associazione in qualche modo labile, ai nostri occhi e orecchie di Europei. Provate invece, soltanto per un attimo, a ripercorrere l’ampia serie di problemi che caratterizzano la vita di chi opera in zone rurali e circondate da praterie e deserti, così straordinariamente distanti da qualsiasi tipo di assistenza meccanica immediata. Assai probabilmente incontrerete, molto presto, l’evenienza di accidenti o guasti motoristici, il che fa del contadino medio americano, anche un valido meccanico, riparatore ed inventore di approcci in qualche modo innovativi al mondo dei trasporti. Ed ecco in quale modo, lungo il procedere dei lunghi anni, presero forma gli svariati mezzi veicolari della Kiss Off-Road, compagnia collaterale del più rinomato produttore di macchine agricole della cittadina di Hendley, NE…

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Lakesters, le automobili create riciclando un serbatoio d’aereo

Al volgere del diciottesimo secondo, smetto di avere un’espressione comprensibile, a causa dell’accelerazione che mi distorce il volto: in quel guscio rugginoso dalle grandi ruote, scagliato a 320 Km/h sulla superficie salina delle vaste pianure saline di Bonneville nello Utah, guardo momentaneamente in basso e innanzi verso il suolo che si trova a poco più di mezzo metro di distanza, a lato del mio principale implemento di guida. “Ah, ti chiamano volante” penso, “…Quale splendida ironia”. Poiché ciò che lo circonda, l’oggetto che un tempo decollava assieme a quei velivoli pensati per scagliare nei cieli fino all’ultimo tracciante contenuto nel caricatore, non dovrà più necessariamente staccarsi da terra. Oppur se lo facesse, questo avrebbe conseguenze chiaramente deleterie ai danni della mia incolumità fisica. A dir poco.
Nello schema ideale degli appellativi statunitensi attribuiti alle diverse coorti di nascite dell’ultimo secolo, ne figura uno la cui etimologia risulta tutt’ora dubbia, in funzione di almeno due possibili interpretazioni. Sto parlando della Silent Generation, sinonimo un po’ meno pessimistico del binomio Lucky Few (i pochi fortunati) ovvero coloro che, essendo venuti al mondo tra gli anni ’20 e ’40, hanno avuto il dubbio onore di venire al mondo durante la grande depressione, vivendo in pieno, e in molti casi combattendo, quell’evento catastrofico che fu la seconda guerra mondiale. Silenziosi perché secondo la teoria più accreditata, essendo cresciuti durante gli anni di dura repressione ideologica noti come maccartismo, impararono a non protestare, né esternare mai in qualsiasi modo le proprie idee politiche se in qualsivoglia modo disallineate dallo status quo vigente. Nell’opinione d’altri, invece, questo essere di poche parole deriverebbe dal comprensibile desiderio di dimenticare le terribili esperienze vissute al fronte, incluse potenziali violenze indicibili o la triste necessità di uccidere il prossimo, al fine di tornare vivi dai propri cari. Esiste ad ogni modo, almeno una terza possibile spiegazione: questi uomini e donne che potrebbero anche aver attraversato l’inferno, prima di approdare alla serena tranquillità e sicurezza economica degli anni ’60 e ’70, sono silenziosi perché al dispendio di parole inutili, nella maggior parte dei casi, preferirono gesti concreti e risolutivi. In altri termini, l’espressione spregiudicata delle proprie scelte di vita. Personaggi come il celebre creatore di vetture modificate Bill Burke, che tornato in patria dopo il tour nella marina che l’aveva portato a far la guardia nei distanti mari del Pacifico Meridionale, e trovato impiego verso la fine degli anni ’40 nel prospero garage californiano So-Cal Speed Shop fondato da Alex Xydias, si ricordò di uno specifico momento vissuto durante la guerra. E del pensiero che aveva attraversato la sua mente, alla velocità di Fangio e Nuvolari, assistendo coi suoi occhi alle operazioni portuali per lo scarico di un’intero stock di serbatoi esterni, usati all’epoca dai caccia intercettori per accompagnare i bombardieri oggetto della loro scorta. Qualcosa sulla falsariga di “Caspita, che linea aerodinamica intrigante. Possibile che nessuno abbia mai pensato abbinargli due paia di ruote, e un motore?”

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L’ambigua vicenda del primo furto d’auto nella storia

L’immagine ritrovata in un vecchio e polveroso album datato all’anno 1888, capace di restare fermamente impressa nella memoria: una donna con l’espressione indecifrabile e in costume tradizionale dello stato federato del Baden-Württemberg, con scialle ricamato e il cappuccio in testa a coprire parzialmente una complicata acconciatura, siede su quella che sembrerebbe essere a tutti gli effetti una strana panchina da giardino. Se non fosse per le due ruote da bicicletta montate ai lati, tanto grandi da apparire sproporzionate, più una sterzante davanti dalle dimensioni minori, dalla cui sommità emerge un palo perpendicolare al suolo sormontato da una piccola manovella tenuta saldamente tra le sue nude mani. Due giovani con cappelli e giacche di feltro, scarpe formali ai piedi, sembrano spingere o direzionare in qualche modo il bizzarro veicolo tenendolo ai lati sul selciato, nell’interessante scenario prospettico di un’arco stradale ricavato in un antico muro cittadino. Ciò che potrebbe anche non apparire subito evidente, soprattutto perché i personaggi sembrano avere tutti la stessa età o quasi, è che i due ragazzi sono in realtà figli della donna, bastando effettivamente a costituire assieme con lei l’intera famiglia di Karl Friedrich Benz fino a quel momento. L’uomo che aveva recentemente inventato, forse a sua stessa insaputa, uno dei singoli dispositivi destinati ad avere una maggiore rilevanza nel secolo immediatamente successivo: l’automobile.
E dico che non ne era cosciente poiché, come raccontano le sue biografie, l’ingegnere originario di Karlsruhe, reduce da una difficile storia personale in seguito alla morte del padre in tenera età, nonché il fallimento sistematico delle sue precedenti aziende costituite grazie alla dote della ricca ereditiera che aveva sposato, per lungo tempo credette fosse meglio muoversi con estrema prudenza. Il che comportò, nei fatti, mettere il veicolo che aveva tanto faticosamente brevettato, grazie all’uscita nel pubblico dominio della tecnologia per il motore a quattro tempi (era il 1886) a prendere polvere in una rimessa in giardino, mentre attendeva l’ispirazione per ulteriori quanto significativi perfezionamenti. Proprio lui che, per inseguire il sogno fanciullesco di “una bicicletta in grado di muoversi da sola” aveva inventato in rapida successione un innovativo motore a un cilindro con insolito volano orizzontale, al fine di stabilizzare la marcia del veicolo, un sistema di raffreddamento basato sulla nebulizzazione dell’acqua, il primo serbatoio per la “benzina” della storia (in realtà si trattava di etere di petrolio o ligroina) e persino il sistema d’accensione elettrico con tanto di candela, precorrendo un approccio tecnologico che usiamo tutt’ora. Eppure, dopo l’accoglienza non propriamente calorosa ottenuta da lui e il primogenito durante un’uscita pubblica con il bizzarro arnese nel 3 luglio 1886, rumoroso e pieno di olio, fumo diabolico e strani odori, lungo la strada principale di Mannheim, parzialmente schernita e ridicolizzata dai giornali, nulla sembrava abbastanza per soddisfare il suo spirito d’iniziativa. Lasciando ahimé, accumulare i giorni preziosi di un potenziale vantaggio commerciale sul futuro competitor diretto Gottlieb Daimler, attuale preside della scuola d’ingegneria dove lui stesso aveva tanto faticosamente conseguito il coronamento dei propri studi ed ora prossimo al concepimento di una sua particolare versione di motore stradale.
Perciò si dice, in mezza Europa ed oltre, che “Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna.” Benché nel caso di Bertha Ringer in Benz, sarebbe altrettanto corretto per non dire ancor meglio affermare che la sua posizione fosse piuttosto dinnanzi al marito, nel ruolo di letterale apripista mediatico per il primo economico, funzionale, efficiente, appariscente carro del tutto privo di cavalli siòri e siòre venghino etc. etc… Quando stanca dell’altrui titubanza, facendosi aiutare dai figli, scardinò la serratura del capanno durante un’assenza del marito, aprì il cancello e prese la suddetta macchina per andare a trovare i suoi genitori che, questione tutt’altro che indifferente considerata la natura sperimentale di un tale prototipo, vivevano a ben 90 Km di distanza. Ma considerato il notevole e proficuo ritorno di marketing “accidentale” per una simile esperienza, siamo davvero sicuri che sia andata effettivamente così?

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Le impeccabili riprese di un Gran Premio a Monaco negli anni ’60

E se adesso dovessi dirvi che non soltanto i viaggi nel tempo esistono, ma che qualcuno li ha già effettuati almeno in un caso, con il solo scopo di riprendere un evento sportivo risalente alla metà di un secolo a questa parte? Con il fine specifico di attirare l’attenzione del web, caricandone riprese in 4K sul suo canale YouTube! Sono pazzi, questi esperti della fisica quantistica applicata ai grandi misteri dell’universo… Ebbene immagino, sarebbe facile per voi cascarci, dinnanzi a quello che tende ad apparire come un assoluto anacronismo digitale: questa riproduzione video a colori del GP di Formula 1 tenutosi a Monaco nell’anno 1962, con tanto di camera car lanciata sul circuito durante le prove, angoli d’inquadratura multipli e vertiginosi campi lunghi dall’elicottero, lanciato in una serie di evoluzioni degne di un moderno film di James Bond. Il che riesce ad esprimere a pieno titolo almeno due aspetti estremamente contro-intuitivi: il primo è che le più avanzate tecnologie audio-video di allora erano in effetti molto superiori a quanto si tende a credere oggigiorno. Ed il secondo è che una scena come questa non può essere, semplicemente, riprodotta grazie all’uso della grafica 3D. O per meglio dire, visto che tutto è possibile IN TEORIA, potremmo affermare che nessuno ha mai pensato di provarci, in campo cinematografico né altrove, riconfermando in questo modo l’esistenza di un contesto che ci sembra vero su pellicola, ancor più di qualsiasi battaglia storica o scena gladiatoria del genere sangue & arena. Eppure potremmo ben dirlo senza esitazioni: in certi casi cellulosa canta, una canzone che è la pura ed assoluta verità.
Il fraintendimento, del resto, resta lecito a suo modo. Quando persino gli eventi sportivi risalenti agli anni ’80 e ’90 tendevano a essere ripresi con un tipo di telecamera tutt’altro che eccellente, per poi sopravvivere all’interno degli archivi digitalizzati di emittenti di vario tipo, con una qualità persino inferiore all’originale. Laddove questa sequenza, di contro, proviene dal caso atipico di un vero e proprio documentario per il cinema, l’ingiustamente oscuro Flying Clipper – Traumreise unter weissen Segeln (Viaggio da sogno sotto le vele bianche) girato da Hermann Leitner e Rudolf Nussgruber quasi vent’anni prima, allo scopo di chiamare l’attenzione del pubblico verso un’importante innovazione tecnologica di quegli anni: l’enorme schermo curvo del Cinerama. Il che portava, per la prima volta, a un uso ad ampio spettro di cineprese con obiettivi da 70mm, le stesse utilizzate da grandi maestri come Hitchcock, Kurosawa e Kubrick nei loro film. E c’era un po’ di tutto, nelle oltre due ore di reportage in giro per la Costa Azzurra ed altri luoghi antistanti al Mediterraneo, tra città storiche, operazioni aeronautiche militari e scampagnate. Ma la scena più notevole, ovviamente, resta quella del GP di quell’anno, di cui i due autori tedeschi finirono per catturare la singola testimonianza più notevole ed ancora attuale, per lo meno in termini di qualità. E che incredibile occasione di costituire un ponte ininterrotto col futuro, sarebbe stato proprio quel particolare, indimenticabile e caotico evento…

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