Nuove armi contro il ponte più pericoloso degli Stati Uniti

Canopener Bridge

È la morte sibilante che strisciando sopraggiunge sul sentiero, per arrampicarsi delicatamente su per le caviglie di chi transita, senza gettare sguardi cauti in mezzo all’erba. O in alternativa, sopra la sua testa, fra quei rami penduli che vibrano di ostili possibilità fatali. Non è forse vero, che la cose più terribili di questa vita, non le vedi, non potrai riuscire ad aspettartele nell’ora del risveglio? Pensa: cos’è peggio, un grande canyon del deserto largo come un campo da volley, che potrai vedere da chilometri, e se ci cadi dentro per errore, da cui uscire molto presto con la scala; oppure un oscura e sottile crepa nel permafrost del Nord, praticamente invisibile, larga esattamente quanto un corpo umano…Dal claustrofobico, tremendo senso di soffocamento. Incastrato! Come il traffico dell’ora di consegna…Che toglie il fiato ed il piacere al dì lavorativo degli autisti. Di camion. È una spiacevole realtà, questa, ormai davvero molto nota. Del temutissimo viadotto ferroviario di Durham, nel North Carolina, costruito secondo i crismi della tecnica del trestle bridge: concetto semplice, a descriverlo. Giacché anticamente (stiamo parlando della parte maggiore del XIX secolo) prima dell’invenzione della ruspa e del bulldozer, spostare grandi quantità di terra per far transitare un treno in tutta sicurezza se c’erano avvallamenti aveva costi straordinariamente proibitivi. Così succedeva, soprattutto negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra e in molti altri luoghi d’Europa, che le compagnie ferroviarie affrontassero in dislivelli disponendo un qualcosa di straordinariamente simile ai tradizionali cavalletti, usati anticamente nei banchetti medievali, ma che in versione assai sovradimensionata, piuttosto che la tavola imbandita, sostenevano il binario stesso, a una distanza dal terreno che spesso variava. Niente di problematico, anche a distanza plurisecolare. Certo, se non fosse che, purtroppo, la gente avesse l’abitudine spiacevole di transitare sotto a quelle cose. Arrivando addirittura, che abitudine davvero preoccupante, a farci colar l’asfalto, seguìto dalle intere moltitudini del traffico gommato col volante! E pensare che non c’erano regolamenti, in origine, per un’altezza minima di sicurezza…
Ah, dannata gravità. Sia punito l’Ente della fisica (in)costante! Che determina come un oggetto lanciato a gran velocità, per la legge dell’inerzia, non possa fermarsi in tempo prima dell’impatto. Con apocalittico fragore, e un disgregarsi delle cose attentamente costruite… Chissà quando, chissà dove. I poveri camion sfortunati, il cui tetto viene srotolato come il tipico involucro del tonno confezionato. Per non parlar dei caravan, letteralmente fatti a pezzi… La maggior parte delle persone che assistono per la prima volta allo spettacolo per il web di quello che viene affettuosamente definito dai locali, e in modo particolare da una singola persona stravagante di cui parleremo fra poco, l’Eleven-Foot-Eight Canopener Bridge – il ponte-apriscatole di tre metri e mezzo – al termine del video chiudono la bocca, poi la riaprono con la più che comprensibile domanda: “Ma non è possibile alzarlo leggermente?” Si, certo che lo è. Al costo di un milione o due di dollari, forse anche di più, senza contare il disagio causato da un arresto prolungato dei treni che lì passano quasi ogni ora. Così la North Carolina Railroad Company, proprietaria del ponte, ha preferito piuttosto installare una trave d’impatto particolarmente spessa e resistente dalla parte del senso di marcia, tale da poter resistere all’impatto di svariati carri armati. Allo stesso tempo. E sarei pronto a scommettere che se avesse potuto, l’avrebbe fatta anche tagliente, per meglio sopravvivere al pericolo dei guidatori disattenti. “Ma allora…” Lo so, anche qeusto è un dubbio ragionevole: “L’amministrazione cittadina non potrebbe, che so, abbassare il tratto di strada che passa sotto al trestle bridge?” Di nuovo si, potrebbe. Se non fosse che lì è situato, fin da tempo immemore, un tratto fondamentale delle fogne cittadine. Apportare delle modifiche, dunque, sarebbe esageratamente dispendioso. Tutto quel che resta, dunque, è una segnaletica perfettamente concepita. E non è che da quel punto di vista, per lo meno, ci sia stato un serio tentativo di risparmio!

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Come sopravvivere al pericolo dei pali della luce

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In questo segmento sulla sicurezza della compagnia energetica dello Stretto di Puget vicino Seattle, che incidentalmente ricorda da vicino lo sketch di una sit-com alquanto dark, viene presentata una situazione possibile, a cui tuttavia nessuno pensa molto spesso. Ci passiamo sotto, oppure vicino, per centinaia di volte l’anno, se non addirittura in ciascun mese; sono una costante delle nostre giornate, appena visibili ai margini del campo visivo, specie per chi vive fuori dal contesto urbano, alternativa stolida e artificiale alla legnosa presenza di un albero, con le sue fronde verdeggianti. E spesso altrettanto pieni di uccelli. Ma va? Eppure sono nondimeno, a ben pensarci, mortalmente pericolosi. La ragione è che in quei cavi, sospesi a quattro, cinque metri da terra, scorre una tensione che si aggira normalmente attorno ai 7500 volt, con un amperaggio tale da risultare sufficiente a cuocere un tacchino nel giro di un paio di minuti al massimo, volendo andarci molto larghi. Inoltre, trattandosi di apparecchiature poste ad ipotetica distanza di salvaguardia dal contatto con qualsivoglia essere parlante e/o pensante (pappagalli esclusi) non sono schermati in alcun modo, costituendo la perfetta frusta castigatrice di chiunque dovesse trovarsi a contatto con la loro crudele essenza, esclusi, per l’appunto, i bipedi volanti. Per una mera questione di conduttività, della quale parleremo più avanti. Ma che cosa potrebbe capitare, ci invita a chiederci il presente video, nel caso in cui un autista molto sfortunato, oppure distratto, dovesse impattare contro la suddetta cosa, causando la caduta della stringa catenaria sul cofano, e da questo fin sull’asfalto che circonda le sue ruote? Egli si troverebbe a due centimetri dalla morte, questo è poco ma sicuro. Avendo, in ultima analisi, soltanto una speranza di salvezza: l’aver visto questo video, o un altro simile, tra i tanti disponibili sul web.
La scenetta inizia in modo già piuttosto preoccupante. Il simpatetico protagonista, alla guida per viali di campagna del suo fuoristrada Toyota, rigorosamente senza usare la cintura di sicurezza (ehi, non è un video dell’autorità STRADALE!) parla animatamente al telefono con la moglie o fidanzata, avendo per lo meno la prudenza di affidarsi a un vivavoce. Senza sapere, tuttavia, come nel frattempo stesse per sopraggiungere in senso contrario una ragazza, il cui concetto di utilizzo dello smartphone al volante di un’altra auto, sull’immediato, ci appare come niente meno che follia totale: lei starebbe infatti a quanto pare, scrivendo un SMS. O un’E-mail? Il che la porta, bellamente, ad invadere la corsia del senso opposto, rischiando un frontale con il tipo del SUV. Che forse, forse l’avrebbe potuta anche evitare, se non fosse che in quel fatidico momento stava riagganciando la chiamata, staccando gli occhi dalla strada per premere un pulsante sul cruscotto. E basta un attimo, per… Dissolvenza in nero. Nella seconda scena, il disastro è già avvenuto. L’uomo, per evitare l’altra macchina (guarda caso anch’essa una Toyota) ha perso il controllo ed è finito contro il palo della luce, ritrovandosi nella letale situazione di cui sopra, una contingenza di cui molti, assai probabilmente, non sarebbero neppure informati, finendo per aprire lo sportello, scendere dall’auto e fare la reale fine di chi tocca il suolo incandescente nel popolare gioco per bambini “Il pavimento è Lava”. Se non che Jim (John?) O qualunque altro sia il suo nome, per sua fortuna ha “prestato attenzione al briefing sulla sicurezza!” E sa perfettamente, quindi, come comportarsi. Ed è questo, fondamentalmente, il colpo di genio del presente video, che senza passare mai dal facéto al serio, mostra tuttavia il metodo migliore per salvarsi a seguito di un simile incidente. Tutto inizia, neanche a dirlo, da una chiamata effettuata al cellulare. Quello stesso, dannato, amato/odiato, strumento che modifica e connota le nostre moderne vite.

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Il video della pianta carnivora che cattura una pecora intera

Sheep Brambles

Un soffio di vento, il grido del merlo, un lieve agitarsi del fusto centrale: “Non è come sembra, lo giuro!” Sembra esclamare, la fronzuta divoratrice. Come già centinaia di volte negli ultimi 10 anni da che Tim e Sandra, agricoltori irlandesi, hanno iniziato a pubblicare le proprie vicende quotidiane sul loro canale di YouTube, WayOutWest. Ma lo sguardo non mente: l’ennesima pecora in età medio-giovane, quindi non ancora in età da tosatura ma già dotata di un fitto manto, si è avventurata ai margini del terreno recintato della fattoria, finendo vittima di un’entità ben più pervasiva, pericolosa ed attuale di qualsiasi fiabesco lupo. Si tratta di una scena che, vista con gli occhi dell’intuito potrebbe facilmente suscitare un duraturo senso di sgomento. Perché non c’è davvero niente che possa dare luogo ad ipotesi gradevoli, qui: il povero animale si trova impalato, perfettamente immobile fino al momento della sua dipartita, come spesso fanno gli ovini che ormai hanno perso ogni residua speranza. Mentre una propaggine verde, o per meglio dire un inquietante cordone di molti tentacoli avviluppati tra loro, si protende fino al suo dorso candido, intrappolandola senza via d’uscita. Presto o tardi, lei morirà di stenti. E benché quanto segue sia impossibile, è facile immaginare il mostruoso arto che si agita nell’aria, alla maniera di un vecchio film dell’orrore, alla ricerca di un essere abbastanza disattento, o impreparato a fuggire, finendo per costituire la preda elettiva di questa giornata. Ma smettiamo di divagare: si tratta di un rovo comune, Rubus ulmifolius, la pianta dal piccolo frutto rosso, poi nero una volta maturo. Che si dice dovesse ricordare il sangue di Cristo, che ne fu incoronato. Sulla cui essenza spinosa piuttosto familiare, tuttavia, la caratteristica voce narrante di Tim espone un’ipotesi, così biologicamente chiara, tanto intuitivamente logica, che viene da chiedersi come mai nessuno avesse mai pensato di offrirla al pubblico generalista del web. Almeno, in questi specifici termini: “Guardate le spine” Ci fa lui, parafrasando: “Le loro punte acuminate, in effetti, sono rivolte verso l’interno della pianta, come si trattasse di uncini. Più che un mezzo di difesa, costituiscono un’arma!” E perché mai un vegetale simile, da sempre apprezzato per le sue more e che prospera nei climi pressoché di ogni parte del mondo, dovrebbe avere bisogno di aggredire animali? Se non… “Guardatela. Prendetene atto. Questa, nessun altra, è la pianta carnivora più grande e affamata del mondo.
Si, come no! Viene da rispondere, in un primo momento. Non perdiamo la prospettiva: stiamo assistendo alle mere tribolazioni di una pecora, il cui lungo pelo è rimasto impigliato “accidentalmente” ai rami di una pianta che “per puro caso” era lì. Eppure, immaginate l’ipotetica situazione in cui un uomo dovesse trovarsi in piedi nel mezzo di uno stretto corridoio scuro, con una spada da samurai rivolta dinnanzi a se. Qualcuno, prima o poi, passerà di lì, restando infilzato. Chiamereste a quel punto, costui, innocente? Isaac Asimov, l’autore di fantascienza russo naturalizzato statunitense, aveva teorizzato nei suoi romanzi la questione delle tre leggi della robotica, incise a fuoco vivo nel cervello positronico degli androidi, la cui prima recitava: “Non recherai danno ad un essere umano. Né permetterai che un essere umano riceva danni, a causa del tuo mancato intervento.” Ad ennesima riconferma che non occorre compiere un gesto, effettuare un’azione, perché si sia colpevoli di un delitto. E non è dunque possibile che allo stesso modo il rovo uccida, semplicemente esistendo? La pecora, probabilmente, ha un’opinione piuttosto enfatica sulla questione. Ma adesso passiamo ad un punto essenziale dell’indagine istigata da Tim, ovvero, la ricerca di un movente. Che potrebbe dirsi, se possibile, ancora più inquietante…

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La pesante minaccia delle àncore impazzite

Anchors lost

La mia pietra, una colonna, il grande, stabile pilastro di sostegno. Mentre soffia il vento e scorre il fiume, se il tempo passa assieme ai presupposti di staticità, quando impazzano le brezze della Tramontana e del Maestrale, se neanche più le fronde sembrano una sicurezza. tanto gli alberi si piegano dinnanzi al vento e alla natura. Proprio allora quella grande nave che è nel porto, tranquillamente, giace. È questa, un’assenza di movimento che difficilmente può essere spiegata, tranne che attraverso una pericolosa presa di coscienza: sono 50.000, 80.000 tonnellate, che non si smuovono soltanto per l’effetto di una lunga e solida catena. Legame il quale dalla prua di un simile natante, correndo in senso perpendicolare, si estende fino ad un arpione dalle dimensioni impressionanti. Quanto pesa, in effetti, un simile dispositivo? Dipende, ma in media, per navi della stazza di questo mercantile che dovrebbe essere greco (la nazionalità è resa palese dalle imprecazioni) stiamo parlando di 20 tonnellate, soltanto per la testa acuminata, e 5 aggiuntive per ciascuno shot di catena, una misura internazionale che corrisponde a 15 fathoms, ovvero 30 metri circa. Considerata la lunghezza di quest’ultima, dunque, è possibile stimare la massa complessiva di quanto siamo qui a vedere, diciamo sulle 100, 120 tonnellate. Ora immaginate una sfera da demolizione, così pesante, fatta oscillare all’indirizzo di un palazzo. Oppure un impossibile titano, alto quanto un grattacielo, che un cosa simile la fa oscillare, avanti e indietro, avanti e indietro, cercando di scacciare via un drago di mare. Simili visioni, assai probabilmente, basterebbero a gettare nello sconforto la quasi totale collettività. Allora perché, pensando all’àncora, il primo sentimento che proviamo è un assoluto senso di tranquillità e sicurezza, quasi come se mai nulla potesse andare storto, nell’impiego di questo particolare attrezzo di marina… È una tipica nota del diario di bordo, la conclusione che esonera dalle responsabilità: “Quindi, giunti nel porto di___ gettammo l’àncora, per poi sbarcare.” Eppure, non c’è forse un singolo momento più pericoloso, nella navigazione priva di imprevisti, che quello in cui si effettua tale operazione, di srotolare la più lunga e solida catena che venga forgiata alla stato attuale delle cose. E per rendersene conto, non occorre fare altro che cercare due semplici parole online: la prima è anchor, la seconda, loss.
Sta facendo parlare di se negli ultimi giorni questo inquietante video, riprodotto in almeno due canali di YouTube a partire dallo scorso 22 novembre, in cui si è chiamati a prendere coscienza di cosa possa succedere, a bordo di una nave, nel caso in cui l’equipaggio non sia pienamente a conoscenza di determinate norme operative. Per un incidente che non sembrerebbe avere, in effetti, altra causa che l’errore umano. Tutto inizia in modo relativamente rilassante. C’è un marinaio, in impermeabile giallo ma del tutto privo di abbigliamento di sicurezza (primo errore) che manovra faticosamente un grande argano, dal quale discende la catena detta rode, al termine della quale trova posto lo shackle o gyve, un’asola di metallo, con la forma di una U. Quest’ultima, fermamente saldata all’asse centrale del grosso pezzo di metallo titolare. Ora, effettuare tale operazione non è particolarmente semplice, visto come tutt’ora, persino in questa epoca di alta informatizzazione, nessun tipo di apparecchiatura automatizzata partecipi di tale responsabilità. Occorre quindi dosare attentamente il freno del dispositivo, attraverso l’uso di un pesante sistema a manovella, che avvicina o allontana in base alla necessità le colossali pastiglie necessarie a far fermare un peso simile, spietatamente attratto dalla gravità. Succede così, per ragioni non eccessivamente chiare, che l’uomo faccia compiere al comando un mezzo giro di troppo, senza poi intervenire subito a correggere l’errore. Così la catena inizia a accelerare, inizialmente in modo impercettibile. Quando i due colleghi, che si trovavano sul fondale, si voltano finalmente per il frastuono, è già troppo tardi per fare qualsiasi cosa…

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