A.D. 2015: gli eroi robotici diventano realtà

Hubo DRC

Scansiona la maniglia con il suo singolo occhio rotativo, alza il polso snodabile a 360 gradi, muove la pinza in avanti di 40 cm, poi la stringe saldamente e preme in giù. È…Aperto? Inginocchiato innanzi all’uscio del futuro, HUBO DRC, il più fantastico dispositivo antropomorfo coreano. Frutto dell’opera di ricerca e sviluppo del team KAIST (Korea Advanced Institute of Science and Technology) di Daejeon, ma il cui acronimo nel nome sta per le tre fatidiche parole Darpa, Robotics e Challenge. Si trattava di una sfida internazionale pensata per stimolare la ricerca, tenutasi dinnanzi all’intero gotha tecnologico corrente, della quale il mondo non aveva mai conosciuto in precedenza l’eguale. C’erano (quasi) tutti al Fairplex di Pomona, gli scorsi 5 e 6 giugno: Stati Uniti, Giappone, Cina, Germania, anche noi italiani con un pregevole progetto dell’Università di Genova, il Walk-Man. Ma nessuno, alla fine, ha potuto prevalere contro il rappresentante della penisola orientale della lunga dinastia Joseon. È preciso, reattivo, responsabile. Quello che non riesce a fare, per il momento, sembrerebbe affrettarsi in molti dei suoi compiti, almeno a giudicare dal presente video in timelapse, riduzione a un tempo di quattro minuti e mezzo di quello che in origine richiese esattamente 10 volte tanto. Ma quando questa macchina realmente fa qualcosa, guardarla è uno spettacolo davvero illuminante. Non per niente, a seguito di questa complessa e variegata performance, i suoi costruttori provenienti dal semplice ambito accademico hanno incassato dall’agenzia statunitense organizzatrice un assegno di ben 2 milioni di dollari, probabilmente già investito in parte per migliorare ulteriormente la manifestazione metallica più celebre al momento. E il resto, chi lo sa… Guardatelo, mentre scende dall’automobile elettrica, con leggiadrìa del tutto comparabile a quella di un anziano di 95 anni! Pensate che soltanto questa operazione, molto più complessa di quanto potrebbe sembrare in teoria, soprattutto per un essere animato da molte decine di motori indipendenti, ha richiesto innumerevoli tentativi fallimentari portando al sovraccarico lesivo di costosi componenti. Finché non si è giunti a questo compromesso, degli esattamente 100 Newton di potenza per ciascun braccio, validi a risolvere il problema in tempo utile, se non proprio fulmineo. Ciò che viene dopo, poi, è semplicemente straordinario.
Nel progetto tecnico del KAIST, s’intravede la sapienza di chi interpreta i regolamenti non tanto con la logica, come in effetti non sarebbe mai il caso di fare, ma perfettamente alla lettera, cercando il metodo migliore di superare le aspettative dei giudici di gara. “Ah, si?” Deve essersi detto silenziosamente il Prof. Jun Ho Oh, caposquadra dell’operazione: “Dobbiamo costruire un robot che sia in grado di guidare, aprire una porta, impiegare attrezzi, superare un tratto ricoperto da detriti vari e poi salire le scale?” Mumble, mumble: “E chi ha mai detto che dovrà fare tutto questo, camminando?” Quindi, ecco il colpo di genio: l’HUBO (il cui primo nome, con scelta veramente originale nel suo campo, non è in effetti l’acronimo di nulla) è sostanzialmente in grado di trasformarsi, esattamente come i mecha dei cartoni animati giapponesi, benché in modo meno drammatico e spettacolare. Nei momenti in cui deambula sul suo tragitto, infatti, piuttosto che affidarsi alla rischiosa operazione di mettere un piedi innanzi all’altro, costata rovinosi capitomboli a diversi dei suoi temutissimi rivali, il robot poggia le ginocchia a terra, sfruttando le ruote che incorpora poco più sotto per procedere sicuro verso il suo obiettivo. Quasi tutto nei suoi sistemi è stato concepito appositamente per la sfida presente, a differenza di quanto fatto da molti dei team concorrenti, che si sono limitati ad adattare ciò che avevano di pronto, oppure a potenziare in vari modi l’ormai celebre robot umanoide Atlas della DARPA stessa, che era stato fornito dopo le eliminatorie, assieme a dei finanziamenti, alle migliori squadre statunitensi (ce n’erano ben 11), al team dell’Università di Hong Kong e a quello misto USA-Germania dei VIGOR, che l’ha subito colorato di rosso e gli ha dato il nome Florian, da quello del santo protettore dei pompieri.

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Come nasce un cellulare in Cina

Gadgets from China

L’atmosfera è tranquilla, il clima, rilassato. Abituati alle sequenze di qualche anno fa, quando andò di moda interessarsi brevemente alle cosiddette “fabbriche di iPhone”, questo reportage sul campo dall’industria della città di Shenzhen, SAGA, appare quasi mistica nella sua pacatezza calcolata. Mancano le schiere di banchi nell’enorme capannone, col frastuono dei distanti macchinari. Non c’è il viavai degli addetti al controllo della qualità che corrono da un lato all’altro dell’impianto, nel tentativo di spronare l’opera degli individui stipendiati. Mentre tutto pare muoversi a un ritmo (relativamente) rallentato, con i vari componenti che vengono smistati dai capienti magazzini, poi saldati attentamente sulla scheda madre. Mentre un secondo addetto, come di consueto, si occupa di chiudere la scocca del dispositivo. È una visione della formidabile, insospettata verità: perché guardando tutta l’elettronica che connota le nostre case, è facile notarne l’ostentata perfezione. Siano dieci o centomila, poco importa. Ciascun singolo oggetto che abbia quel determinato logo o numero di serie, lo schermo, la tastiera, il mouse, il laptop, la console per videogiochi, sarà perfettamente identico ai suoi simili arbitrati. Perché la fonte originaria dei suoi singoli diversi componenti, è sempre quella e solamente lei, la macchina industriale. Mentre il tocco umano è infuso in ciò che viene dopo, l’assemblaggio che può essere visto come un più complesso confezionamento. Cosa acquisti, in fondo, quando esci dal negozio con la scatola più amata? Un microfono, l’altoparlante, un touch-screen da 4 o 5 pollici, la batteria. E dentro la memoria a stato solido, la scheda logica e un prezioso processore, che da allora si occupa di elaborare i dati fatti transitare dietro all’interfaccia. Questo è l’insieme dei tuoi “beni” fisici, ma non l’intero valore oggetto del tuo acquisto. Perché è la produzione il grosso della spesa, spesso data in sub-appalto, in quanto non può prescindere, persino oggi, dal volubile fattore di due mani esperte, moltiplicate per ciascuna postazione. Che sono generalmente attaccate in via diretta a quelle braccia, che a loro volta si diramano da un individuo. Con pensieri, aspirazioni, conti da pagare. Questione, questa, che è davvero facile dimenticare. Noi che siamo l’ultimo anello della catena di montaggio, esposto al Sole ed alle stelle di un ipotetico avvenire, non differiamo fondamentalmente in alcun modo, dal cerchietto di metallo precedente, né da quello prima ancora e così via, incastrati tra gli argani ed i capestani sotto l’ombra del capanno funzionale. Neppure in quello che facciamo, quotidianamente e in senso lato: offrire un operoso contributo ai nostri simili distanti. Ricevendo in cambio di quel fare, lo stipendio d’entità variabile, che può permettere di uscire ad acquistare i cellulari. Cina, Europa, zero differenze nel sistema dell’economia di scala. Tranne una forse, ma davvero significativa: sapete quanto guadagna uno di questi operatori, dalla tenuta azzurra ed il grazioso cappellino? Lo dichiara orgogliosamente l’accentata voce fuori campo, appartenente alla titolare del canale di YouTube GFC (Gadget From China): “Soltanto un centesimo l’ora! Assumono nei villaggi vicini, per garantire l’immissione sul mercato di un prodotto a prezzi contenuti.” Beh, su QUESTO è veramente dura darle torto. Si tratta di un risparmio straordinario.
Il video di una decina di minuti si sviluppa attraverso una serie di capitoli, ciascuno intervallato da una dissolvenza in rosso con in campo il logo dell’impresa mediatica e divulgativa citata, nei fatti, ormai ferma da diversi mesi. Nelle battute di apertura, viene mostrata un’impressionante fila di scaffali, suddivisi per categoria. Questo è infatti l’ambiente in cui viene immagazzinato ciascun singolo componente, acquistato dalle compagnie specializzate nei diversi aspetti che costituiscono lo squillante, parlante, luminoso insieme. È interessante notare come i pacchi già scartati non contengano compatte balle di minuzie elettrotecniche, bensì veri e propri vassoi, egualmente distanziati, quasi ad esporre all’aria una verzura particolarmente profumata. La ragione di una tale disposizione standardizzata va ricercata nei passaggi che vengono prima…

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Braccia robotiche rubate ai banchi di gastronomia

Yaskawa sandwich

Qui nella compagnia produttrice di alcuni dei più diffusi robot industriali per catene di montaggio, ci ripetiamo spesso lo slogan “Più umano dell’umano” e chi potesse essere tentato di attribuire tale abitudine a una visione di troppo del film Blade Runner, o alla scelta particolarmente azzeccata del suo romanzo di origine da discutere dell’ora culturale in sala mensa, purtroppo in tale somma istituzione non ci ha mai mangiato. Così per esclamare “Make me a sandwich, Mememaru” all’accendersi del corpo soprastante: occhi in gradi di focalizzarsi su uno spazio di pochi decimi di centimetro, servomeccanismi agili senza l’impiego di un singolo mitocondrio. Un cuore gelido quanto le fiamme del vulcano plutoniano, astronavi in fiamme sui bastioni della luna Tethis… E tutto questo, nonostante tutto, impiegato quietamente per servire il pranzo giorno dopo giorno, dopo un anno o due dall’emersione delle lacrime piovose. Di un sistema, nuovo. Con strumentazione ed articolazione, superiore. Non un solo braccio definisce infatti un tale chef delle molteplici occasioni, come avveniva per i precedenti schiavi controllati da noi soliti meatbags ma ben due, in un’espressione di bilaterale compiacenza che è alla base di un’alchemica trasformazione. Dal più assoluto nulla: il panino all’uovo. Davvero, viviamo nell’epoca di un secondo Rinascimento alimentare!
Le precise circostanze di una simile visione degna di uno scrittore retro-futurista degli anni ’60-70 non sono, a dire il vero, estremamente chiare: ben conosciamo il modello del robot in questione, un CSDA10F MOTOMAN della Yaskawa Electric, multinazionale giapponese da oltre 10.000 dipendenti, con sede a Kitakyushu, nella prefettura di Fukuoka. E ci è nota la ragione sociale di coloro che si sono applicati nella specifica programmazione di un simile susseguirsi di prosaiche ma complesse movenze culinarie: trattasi della compagnia partner RS TECH, LLC, con sede negli Stati Uniti. Mentre ci è difficile risalire alle precise circostanze di una simile dimostrazione, che dal silenzio e il telo nero sul fondale non parrebbe effettuata nel contesto della solita fiera di settore, assomigliando piuttosto al tipo di video che viene in genere girato per YouTube da tutti quelli che ricevono per posta un nuovo giocattolo tecnologico, tremendamente ansiosi di mostrarlo al mondo. Ma le apparenze possono trarre in inganno. Qui la vera star della situazione non è tanto il versatile dispositivo con 7 assi di movimento x2, più l’elevazione del corpo centrale, comunque in grado di ispirare un senso di assoluta meraviglia, quanto il magistrale lavoro effettuato nella fase di programmazione, che permette all’intera sequenza d’ispirare un senso d’immediata insicurezza a tutti quei giovani che, forti delle lauree faticosamente guadagnate nelle discipline più diverse, di questi tempi pieni d’ottimismo speravano in una brillante carriera nella preparazione di pietanze a basso costo. Non più, non oggi, di sicuro non dopodomani: va detto, ancora il processo potrebbe trovare qualche margine di perfezionamento. È indubbio come ad un preparatore umano, che dovesse impiegare ben quattro minuti per preparare il semplicissimo panino oggetto della messa-in-scena, si ricorderebbe con cupezza l’imminente scadere del suo contratto a termine. Ma come era solito dire Henry Ford delle automobili, con il suo consueto brutalismo sociologico: “Se avessi ascoltato i miei clienti, gli avrei fornito solamente degli equini più veloci.” E già sembra quasi di sentirli, tutti quei cavalli, l’incedere maestoso del progresso, hamburger cucinati subito dietro l’ippodromo, con robotica efficienza, per l’insensibile sollazzo dei posteri affamati. Un domani, killer-bot ribelli svilupperanno l’intelligenza artificiale ribaltando clamorosamente l’equilibrio dei poteri? Può essere, chi lo sa davvero… Ma assai più probabilmente, ben prima di questo, le macchine giungeranno a dominarci con la loro onnipresenza. In un certo senso, è già avvenuto. Quale mai sarebbe la produzione industriale dell’impressionante moderno consorzio umano, senza corrente elettrica, computer, tutti gli altri frutti dell’ingegneria applicata. Siamo quello che mangiamo, però anche ciò che ci permette di spingerci innanzi verso le regioni del domani; prolungando in certi speciali casi, addirittura la durata della nostra vita…

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Pesa di più Goldrake o un buco nero?

Mecha size

In un giorno della calda primavera del 1972 e senza che ci fosse una ragione attesa, il giovane in età scolare Kohei Kuji sentì suonare il campanello della porta all’improvviso. Messo da parte il volumetto del suo manga in corso di lettura, forma d’intrattenimento preferita dagli adolescenti della sua generazione, balza in piedi e corre verso l’uscio, lo spalanca per trovare: nulla, nessuno, niente d’importante. Tranne un pacco messo da una parte, ricoperto di una carta marroncina e privo di alcun tipo di etichetta che identifichi il mittente. Ora, in tempi come i nostri, in cui Internet ci ha insegnato a fidarci ben poco delle situazioni inaspettate, ma soprattutto a costruire trappole a molla, veicoli virali, ogni sorta di crudele scherzo contro i nostri simili più amati-odiati, forse un attimo di esitazione ci sarebbe pure stato. Ma quella era un’epoca caratterizzata da un benessere ed un ottimismo diffuso, soprattutto in un Giappone all’apice della sua bolla, della crescita economica e della fiducia nel tuo prossimo, persino quando sconosciuto. Così il bimbetto si reca fino alla cucina, appoggia il pacco sopra il tavolo da pranzo, prende un coltello per il pesce di suo padre. Delicatamente, con estrema cautela, inizia a incidere l’incarto, finché non sente all’improvviso: “Ow!” Per l’effetto dello shock, lascia cadere il suo strumento. Dannazione! Come avrebbe potuto mai saperlo? Nel pacco non c’erano dei semplici pupazzi, ma Arthur, Edison, Izam, Odin e Walt, cinque piccoli alieni provenienti dal pianeta Micro Earth, inviati fin dall’altro capo dell’universo con il preciso scopo di osteggiare il nascituro potere del principe di Acroyer, malefico conquistatore di ogni civiltà.  Per i protagonisti umani di un franchise moderno giapponese, sia questo fondato sul mondo tecnologico e tradizionale, cinematico oppure disegnato, c’è ben poco da fare tranne arrendersi a seguire il flusso. Fare da momento comico, se necessario, e offrire il proprio punto di vista soggettivo e interno al racconto come tramite per il coinvolgimento degli spettatori. Quando iniziano a sfolgorare i laser, si rincorrono le astronavi, le spade cozzano con orribile e squillante persistenza, non saranno mai loro a combattere direttamente, ma il Pokémon, lo spirito del samurai venuto dal passato, lo shikigami spirituale consacrato al sacro compito da un vecchio e saggio stregone. Tranne che in un caso: il genere mecha, sarebbe a dire quel vasto catalogo di ‘Cunti, nato a partire da Tetsujin 28 di Mitsuteru Yokoyama (1956) in cui il protettore sovrannaturale della Terra era, per la prima volta, un essere non biologico e (quasi del tutto) privo di una volontà. Così di nuovo c’era quel bambino ante-litteram, questa volta armato di telecomando e in grado di fornire gli input al suo beniamino alto due metri, creato a partire da un’analogia con Astroboy di Osamu Tezuka (1952) sostanzialmente il piccolo pinocchio giapponese. Ma si può ancora parlare di androidi, quando simili creature spesso antropomorfe esistono soltanto per servire il bene collettivo, eseguendo pedissequamente i desideri di uno stereotipico, quanto innocente, eroe della giustizia? Il fallimento dell’analogia appare ancor più pregno successivamente, quando la bussola o coscienza robotica (il ragazzo) iniziò a prendere posizione direttamente nella testa o dentro al petto del suo servitore, trasformandolo così nell’analogia pseudo-sovrannaturale di un possente aereo o carro armato, per quanto in grado di resistere e persistere senza alcun tipo di supporto.
Quel passaggio, tanto significativo, fu intuito inizialmente da un’altra grande personalità del mondo della creatività giapponese, quel Go Nagai che è stato l’ideatore di Mazinga Z (1972) Jeeg Robot d’acciaio (1975) e il Goldrake titolare (in origine UFO Robot Grendizer – 1975). Ma una volta gettato il seme sul terreno fertile dell’altrui fantasia, il passo era segnato: nel giro di pochi anni, i media giapponesi iniziarono a sperimentare l’invasione di ogni sorta di straordinaria macchina da guerra, ciascuna testardamente incline a combattere i pericoli provenienti da lontano. Giammai, in una tale fase storica, ancora in grado di ricordare le fallite aspirazioni imperialiste del paese, il pubblico avrebbe apprezzato situazioni realistiche con delle credibili fazioni contrapposte. Così, mentre negli Stati Uniti spopolavano le scriteriate avventure Lanterna Verde, Flash e Capitan America, all’altro lato dell’Oceano si consumava la passione per un differente tipo di supereroi, alti decine di metri e sempre rigorosamente fatti di metallo, quasi sempre del tutto privi di una mente propria. Ma se c’era un singolo fattore in comune, tra questi due mondi rigorosamente contrapposti, questo era certamente il modo d’interpretare il rapporto di potenza tra i diversi personaggi: attraverso le sperimentazioni ipotetiche dei fan. E non c’è molto da meravigliarsi nel trovare ancora simili tematiche, trattate con profonda serietà, all’interno d’innumerevoli gruppi di discussione internettiane, come in commenti satirici dell’universo nerd e geek, vedi la serie comica The Big Bang Theory. Ma il Giappone, che persino oggi tende a prendersi un po’ più sul serio, di norma non ricorre alla pura e semplice ironia, né al soggettivismo delle ipotesi preferenziali.
Ciascun mecha è “il più forte” perché ciascuno sconfigge il male, come e quando necessario, sarebbe a dire nel contesto operativo che gli è stato posto attorno dal creatore. Ben più meritevole di essere discussa, risulterebbe invece una scala come questa, sul quale sia il vero rapporto tra le dimensioni, posto in una scala crescente, dai giocattoli senzienti di cui sopra fino ai chilometri delle astronavi trasformabili, o i più folli e spropositati mostri chtulhuiani. Per fortuna che l’utente Metroidfan l’ha ripescata, dalle pieghe geroglifiche del portale NicoNico e ce l’ha riproposta tradotta, con tanto di colonna sonora tratta dall’intramontabile Gurren Lagann. L’analogia offerta dai metodi realizzativi del video in questione figura tra le più fantastiche e inquietanti.

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