In molti modi, sia diretti che indiretti, dovremmo giungere a comprendere la pregressa e imprescindibile importanza di costoro: uomini e donne che, per una significativa varietà di ragioni, in un momento imprevisto della loro vita hanno deciso di trasformarsi in eremiti. Figure solitarie intente a meditare, sul significato della Vita, dell’Esistenza ed il futuro stesso dell’Universo, favorendo nel contempo un graduale avanzamento per la base filosofica di nuove costruzioni sulle fondamenta della sapienza. Non tanto grazie a un lascito di testi e studi registrati in modo duraturo nel tempo, giacché la loro stessa opera si realizzava nell’assenza d’interazioni presente o future con altri membri pensanti della cosiddetta razza umana; quanto per la semplice e serena cognizione che, in multiple possibili maniere, una simile esistenza fosse possibile. Persino utile, a se stessi e l’inconoscibile consorzio della moltitudine in adorazione dei princìpi religiosi del mondo. Che sia esistita, e continui a esistere tutt’ora su una scala più ridotta, la particolare schiatta di costoro che percorrono una tale strada per l’immediato intento di risolvere un problema, per così dire, pubblico, può essere perciò la sola risultanza di un progresso tecnologico inerente. Quello che attraverso il cambiamento dei mezzi di comunicazione, avrebbe permesso a chi si trova in cima a una montagna di parlare ai suoi distanti simili delle valli antistanti. Gridando: “Al fuoco! Al fuoco!” Ogni qualvolta se ne presentava la necessità ed urgenza.
Che è abbastanza spesso, caso vuole, da giustificare per oltre un secolo il prezzo della costruzione, il mantenimento e la gestione operativa di una quantità di fino a 5.000 di queste strutture, che avrebbero potuto rappresentare un simbolo statunitense al pari del monte Rushmore, la diga di Hoover o il ponte di Brooklyn… Se soltanto non si fossero trovate così straordinariamente lontane, ed in punti rigorosamente irraggiungibili, rispetto al flusso cognitivo della brulicante civiltà urbana. Il che potrebbe anche rappresentare, a conti fatti, il fondamento stesso dell’idea: poiché se il fumo si alza da una zona popolosa, sono in molti ad allarmarsi e farne giungere notizia a chi può intervenire per cambiare il corso degli eventi. Ma è quando un albero cade nella foresta, per così dire, che occorre tendere l’orecchio e confermare, a tutti gli effetti, di averlo udito. Soprattutto se succede con scintille al seguito, evidente segno che un qualcosa di terribile potrebbe stare per palesarsi. L’invenzione formale di un sistema per l’avvistamento e localizzazione degli incendi viene dunque fatta risalire negli Stati Uniti al 1902, quando una donna di nome Mable Gray, con mansione di cuoca in un campo base di taglialegna in Idaho, venne posta di vedetta per diverse ore sulla cima di un abete ogni giorno, affinché potesse scorgere eventuali pennacchi di fumo, saltare su un cavallo e correre a darne notizia ai suoi colleghi sparpagliati nel bosco. Un’idea che apparve interessanti fin da subito e fu presa in prestito dal Servizio Forestale Americano, fondato nel 1905 con un atto del Congresso finalizzato a preservare la diversità e produttività di un tale ambiente naturale del tutto primario per il benessere della nazione. Con una gradualità e cadenza misurata che, in effetti, non gli avrebbe fatto buon gioco, se è vero che nel 1910 avrebbe avuto luogo uno dei disastri naturali più importanti e significativi della storia statunitense: la grande deflagrazione o grande incendio, destinato a nascere per il congiungersi di vari focolai al termine della stagione secca, durante un forte uragano interstatale che avrebbe avuto inizio il 20 agosto. Tre milioni di acri, dunque, sarebbero andati in fumo, con un’estensione nell’intero Northwest capace di coinvolgere gli stati di Idaho, Montana ed una buona parte della Columbia Inglese meridionale (Canada). Almeno 78 pompieri avrebbero perso la vita nel tentativo di migliorare le cose, finché le fiamme finalmente ebbero fine per l’inizio della stagione delle piogge. Apparve perciò chiaro, dal tramonto all’alba, che qualcosa andava fatto su una scala precedentemente inimmaginabile, mediante i metodi che in linea di principio erano già stati pianificati in sede progettuale, e soltanto ADESSO avrebbero finalmente ricevuto i fondi necessari ad essere implementati sulla scala di cui c’era un palese bisogno.
disastri
Come Internet tralascia le trascorse implicazioni di una chiesa sbilenca
Appare strano voler individuare nella comunicazione di questo periodo, tra tutti quelli di cui abbiamo memoria, un qualsivoglia tipo di tendenza alla spensieratezza. Eppure forse proprio per la complicata concatenazione degli eventi, verso una stagione festiva tra le più buie di cui recenti (e non tanto recenti) giovani abbiano memoria, il desiderio di sorridere si fa quasi palpabile, con lo sguardo attratto da ogni cosa strana, surreale o insolita rispetto al prevedibile grigiore della pandemia incipiente. Ed è per questo che negli ultimi giorni, forse complice la sua ricomparsa all’interno di un montaggio dei “momenti più divertenti” del canale di URBEX “Exploring the Unbeaten Path”, questo particolare frangente registrato oltre un anno fa dai viaggiatori Bob Thissen & Frederik Sempels si guadagna (nuovamente?) uno status di video virale, circolando con un alto grado di visibilità tra i soliti canali social e i portali della stampa internazionale. Per una chiara ed evidente carica umoristica, sottolineata dalle contagiose risate dei protagonisti, che si aggirano increduli all’interno di un edificio religioso ragionevolmente integro, sebbene inclinato fino alla pendenza di 17 gradi, contro gli “appena” 3,97 della torre di Pisa. Una visione certamente insolita, che giustifica il divertimento di coloro che si trovano fuori contesto ad affrontare un simile fatto straniante, compresa la stragrande maggioranza degli spettatori digitali di quei momenti. Sufficientemente ragionevole potrebbe risultare, d’altra parte, un’aspettativa di maggior cautela ed approfondimento presso chi ha l’inclinazione a definirsi una testata giornalistica o d’informazione, piuttosto che la semplice didascalia sulla location disastrata, quasi si trattasse di un’insolita attrazione per i turisti di quel paese. Questo perché il villaggio di Ropoto, forse anche contrariamente alle apparenze, non è un parco di divertimenti come la “casa storta” di Mystery Spot vicino a Santa Cruz, in California. Ma l’effettiva conseguenza di un’ora derelitta, l’attimo abbastanza inaspettato in cui natura e aspirazioni dell’uomo, per una coincidenza di fattori, si trovarono a cozzare fortemente l’uno contro l’altra. Finendo per costare, molto, moltissimo, a un gran totale di 300 famiglie che abitavano nell’area circostante al palcoscenico inclinato di un così notevole show.
Che la Grecia sia un territorio geologicamente complicato, d’altra parte, è un fatto largamente dato per buono da ampie fasce di utilizzatori del senso comune, sebbene un tale assioma tenda a prendere direttamente in considerazione soprattutto i sommovimenti di tipo sismico, lasciando in secondo piano il secondo pilastro di un così potente potenziale di crisi: l’instabilità o mancanza di compattezza, dovuta alla composizione spesso incerta, del sottosuolo. Una piccola svista forse, ma dalle ramificazioni imprevedibili, soprattutto quando a commetterla sono proprio i pianificatori e supervisori dello sviluppo urbanistico, come quelli che cominciarono a inviare segnalazioni di strane crepe nei muri verso la fine degli anni ’60, motivando alcuni tentativi di sondaggio e un’evacuazione preventiva del centro cittadino. Se non che l’attesa ora del disastro sembrò tardare a palesarsi, così da indurre l’emergenza a rientrare formalmente ed un ritorno alle comuni iniziative architettoniche di un centro abitato dall’economia fiorente. Centrale nella verdeggiante e popolosa comunità della Tessaglia, situata non troppo lontana dalla città di Trikala, era sempre stata una redditizia industria agricola guidata dal successo e la qualità dei meleti locali, oltre alla presenza di un certo numero di distillerie, verso l’acquisizione di una piccolo tesoro che gli abitanti non avevano tardato a reinvestire nelle cose che trovavano maggiormente importanti. Con la costruzione di molte abitazioni ragionevolmente lussuose, ma anche la scuola, la grande chiesa, un capiente e moderno albergo. Sembrava in quegli anni che nulla fosse più facile da ottenere che un permesso edilizio, mentre ogni preoccupazione pregressa svaniva come un ombra verso l’orizzonte della brughiera. Questo almeno finché il 12 aprile del 2012, per una convergenza di fattori tra cui una lunga serie di piogge, successiva ad un periodo di temperature sufficientemente elevate da causare lo scioglimento di un ghiacciaio vicino, l’acqua di un torrente aumentò fino a penetrare attraverso gli strati permeabili del suolo. Primo capitolo, attraverso le pagine pregresse della nostra Storia, di un alto numero di tragiche frane o smottamenti…
A proposito degli scorpioni che le piogge hanno dislocato nelle case di Assuan, sulle rive del Nilo
Esiste un detto di suprema saggezza ripetuto nei più angusti meandri dell’Universo. Un’aforisma la cui pertinenza per lo meno trasversale non è stata mai neppure per un attimo soggetto di confutazioni, appelli o tentativi di sovvertimento. Esso recita: “Potrebbe anche andare peggio: potrebbe piovere.” E non c’è luogo maggiormente impreparato, dal punto di vista organizzativo, ad affrontare l’effettiva ricorrenza di un simile evento che una delle zone maggiormente secche della Terra, per un clima desertico che ha prevalenza fin da molto prima dell’arrivo della razza umana. Benché intendiamoci, da queste parti esseri del tutto uguali a noi sono vissuti da svariati millenni, come ben sappiamo grazie ai lasciti archeologici di una delle più antiche civiltà al mondo. Assuan, città egizia un tempo nota con il nome storico di Siene (o Swenett) fondata nel corso del terzo secolo a.C. dal faraone Tolomeo III, famosa per le sue cave granitiche che furono lungamente impiegate al fine di costruire le piramidi e altri giganteschi monumenti. Nonché in modo forse meno storicamente fondamentale, ma non meno caratterizzante, la quantità notevole di artropodi velenosi all’interno dell’ordine degli Scorpiones, superiori a 30 generi appartenenti a una significativa varietà di generi e famiglie. Tra cui i Buthus e Compsobuthus, generalmente non più grandi degli esemplari che saremmo indotti ad identificare tra i confini delle nostre case. O gli Orthochirus dalla forma compatta, la cui piccola quantità di veleno assai difficilmente potrebbe costituire un problema per l’organismo umano… A meno di essere affetti da condizioni preesistenti. Ma il catalogo finisce per espandersi eccessivamente, giungendo ad includere anche due delle creature più pericolose al mondo appartenenti ad una tale genìa, recentemente citate anche dal New York Times: i terrificanti Androctonus, di fino a 10 cm di lunghezza dalla coda spessa come un pugnale ed il Leiurus quinquestriatus, una specie di colore giallo la cui dose di veleno letale risulta essere abbastanza piccolo da giustificare il soprannome di deathstalker (“assassino in agguato”) la cui puntura è nota per avere conseguenze rilevanti dal punto di vista medico almeno una dozzina di volte l’anno. Ora, normalmente, simili creature sono solite rintanarsi in luoghi comparativamente umidi e ombrosi, il che tende a portarle talvolta all’interno dei confini urbani. Benché la ragione principale che li vede tanto ben adattati a un simile contesto geografico resti una e soltanto quella: le vaste distese sabbiose dei deserti nordafricani. Finché un qualcosa di supremamente inaspettato, e drammaticamente lesìvo, non finisce per accadere: la precipitazione meteorologica dell’intera quantità di acqua normalmente caduta in un anno, nel giro di appena un paio di settimane. Abbastanza per cambiare radicalmente, e drammaticamente le regole di un tale accordo non scritto tra creature senzienti e simili silenti cacciatori dei pertugi.
Andando perciò ben oltre le annuali piene del grande fiume Nilo, che per tanto del tempo trascorso avevano permesso la prosperità delle coltivazioni agricole egiziane, gli eventi piovosi di questi ultimi due anni hanno avuto un costo particolarmente significativo per l’amministrazione cittadina di Assuan. A partire dal maggio del 2020 e poi di nuovo l’estate successiva, con una casistica ancor più grave iniziata in questo novembre del 2021, tale da coinvolgere le abitazioni di una quantità stimata di 2.000 famiglie e causare il crollo di almeno 106 case rurali al conto attuale (cifre destinate, assai probabilmente, ad aumentare ancora). Per non parlare dei 5 morti fino a questo momento, uno dei quali sembra tuttavia riportare una causa d’inaspettata natura: la puntura di uno scorpione. Una brutta casistica vissuta a quanto pare da altre 400 vittime, fortunatamente destinate a sopravvivere all’esperienza. Già perché a quanto riportava ad inizio settimana l’emittente araba Al Jazeera, con una storia entusiasticamente ripresa dalle testate di tutto il mondo, la caotica propagazione delle acque ed i conseguenti sconvolgimenti ambientali hanno portato ad una letterale invasione di questi aracnidi all’interno della abitazioni umane, nel tentativo disperato quanto istintivo di salvare se stessi e la propria prole. Ora esistono molte tipologie di piccoli animali, per cui la convivenza a stretto contatto con la gente non potrebbe portare a gravi ed immediate conseguenze. Ed alcune delle specie fin qui citate, senza dubbio, rientrano all’interno di una simile categoria. Per le altre, invece, vale l’esatto contrario, scomodando l’esatto confine opposto dell’ideale scala della pericolosità corrente…
Il ponte che rischiò di precipitare nel Tamigi il giorno stesso della sua inaugurazione
Canzoni come armi, note più potenti di una catapulta: “Il ponte di Londra è stato distrutto. L’oro è vinto, a noi la gloria. Gli scudi rombano, le trombe squillano. La Valchiria celebra questo trionfo. Le frecce cantano, le armature tintinnano; Odino ha condotto il nostro Olaf alla vittoria!” Olaf il Secondo, s’intende, distruttore vichingo di questa città poco dopo l’anno Mille, che secondo alcuni potrebbe essere stato l’originale protagonista della più adorabile filastrocca su un disastro infrastrutturale, famosa tra i bambini di mezzo mondo. Molti anni prima che venisse, presumibilmente, dedicata all’ignota My Fair Lady (La…Regina? La Vergine Maria? Una personificazione del fiume Lea?). Ed è cosa buona e giusta che nella storia pregressa dell’ingegneria, severi cartelli siano stati eretti presso i più elevati e fragili attraversamenti fluviali: “Divieto categorico di marciare, accesso interdetto alle bande musicali”. Poiché nulla è più terribile che un principio spontaneo di risonanza; ripetuto e rafforzato progressivamente, fino al raggiungimento della catarsi.
Era il volgere del millennio successivo, dunque, quando lo stesso tipo di disastro stava per ripetersi, ed all’umanità in attesa venne ricordato per vie indirette la maniera in cui nessun moderno materiali, tecnica simulativa informatizzata o avanzato accorgimento tecnologico potessero effettivamente risultare sufficienti a sovvertire i rischi resi impliciti dalla natura. Il giorno: 10 giugno dell’anno 2000, quando l’ultima ed ennesima meraviglia della città di Londra venne aperta per la prima volta al pubblico, senza ricorrere al passaggio obbligato di un solenne Atto del Parlamento. Ma col benestare e il beneplacito di Elisabetta II, che aveva dato la sua ufficiale benedizione a quell’ineccepibile, elegante striscia sospesa tra cielo ed acqua, qualche ora prima che un quantità stimata di 90.000 persone si affrettassero ad attraversarla, in una folla (e follia) gremita che non pareva avesse una fine. Sto parlando, se non fosse ancora chiaro, del pedonale Millennium Bridge opera dell’archistar e designer locale Norman Foster, già autore di moderni patrimoni dell’umanità come il Viadotto di Millau e la Hearst Tower di New York, nonché disegnatore in epoca più recente dell’improbabile cerchio californiano dell’Apple Park, a Cupertino. Il cui nome certamente tutt’altro che originale (si stima che almeno una dozzina di strutture omonime di rilievo siano state inaugurate nel corso di quegli anni fatidici sul calendario) non poteva certo corrispondere allo stile realizzativo, in realtà elegante al punto da sembrare, secondo le parole usate nella stessa proposta in fase di appalto, una “lama di luce” sospesa in modo quasi mistico tra le sponde corrispondenti al museo Tate Modern e la grande piazza sovrastata dalla cupola della Cattedrale di San Paul, con appena un paio di piloni di sostegno e lunghi cavi in posizione ingegnosamente ribassata, usati per tenere sollevati i suoi 325 metri d’estensione mantenendo al massimo la visibilità del notevole panorama. Ciò che tutti ben sappiamo, tuttavia, è che andare contro la convenzione implica un certo livello di pericolo inerente. E qualche volta, basta un passo falso sulla strada della storia, per sfiorare l’epica e indimenticabile realizzazione di un disastro.
Era un giorno di sole accecante, quello, in grado d’attirare vaste fasce di popolazione interessata e curiosi. Al punto che si stima che verso la metà del pomeriggio, fino a 5.000 persone giunsero a trovarsi contemporaneamente sopra la notevole struttura costruita secondo i migliori metodi dalla ditta ingegneristica Arup. E fu allora che i supervisori incaricati, iniziarono a notare qualcosa di assolutamente terrificante. Poiché la gremita moltitudine, senza quasi rendersene conto, oscillava ritmicamente al suono di una musica del tutto immaginaria. Mentre il ponte stesso, sotto i loro piedi danzanti, pareva udire e seguire le stesse note! Così tremando in modo progressivamente più notevole, pareva avvicinarsi all’ora del suo totale e irrimediabile annientamento. Con fretta innegabilmente giustificata, il sito venne quindi sgomberato e chiuso al pubblico fino a data da destinarsi. Era nato, in quel preciso attimo e per molti secoli a venire, il mito londinese del Wibbly-wobbly Bridge.