Prove pratiche dell’eccezionale immensità del mare: ogni spiaggia è differente, c’è sempre un pesce più grande, le migrazioni della procellaria difficilmente riescono ad anticipare il ciclo delle stagioni. E lo storico vascello della seconda guerra mondiale USS Stewart (DD-224) almeno fino all’altro giorno, non era stato ancora ritrovato. Stiamo parlando per inciso di uno scafo d’importanza storica innegabile, lungamente ambìto dai ricercatori come valida testimonianza del singolo conflitto più importante della storia umana, affondato di proposito, mediante l’uso di aeroplani e bombe americane, al termine di quella che fu giudicata la sua vita utile secondo i crismi ritenuti necessari dallo Zio Sam. Un cacciatorpediniere di classe Clemson costruito a Philadelphia lungo 95 metri, per inciso, e del peso complessivo di 1.234 tonnellate. Quindi non propriamente un soprammobile, nonostante quello che si potrebbe tendere a pensare sulla base dei presupposti. Creato in base alla necessità, ormai lungamente acclarata verso la metà del secolo passato, di poter difendere una flotta da minacce più agili e sfuggenti, come imbarcazioni siluranti, aeroplani e naturalmente, i temuti sottomarini della Marina Imperiale Giapponese. Punto di svolta fondamentale nella sua vicenda operativa, in effetti, sarebbe stata proprio la missione consistente nell’invio in Asia Orientale come parte di un corpo di spedizione nel 1922, per l’inizio di una missione che all’insaputa del suo stesso equipaggio, sarebbe durata i successivi 23 anni. Molti dei quali trascorsi senza eventi particolarmente degni di nota, tranne qualche piccolo incidente di manovra e l’opportunità di fornire aiuti ai colpiti dal grave terremoto del Kantō, facendo per la prima volta conoscenza con quel popolo dei Giapponesi che sarebbero stati, al tempo stesso la sua condanna, e la salvezza del suo destino. Come conseguenza del frangente in cui, dopo l’attacco a sorpresa di Pearl Harbor del 7 dicembre del 1941, assieme a molte altre navi di stanza nella regione la DD-224/Stewart venne integrata nel comando ABDA (American-British-Dutch-Australian) con il compito di resistere, e per quanto possibile arginare la minaccia nipponica nei confronti degli interessi occidentali nel grande Oriente. Il che avrebbe presto portato a due importanti battaglie, mirate a ritardare i movimenti di conquista del nemico, cui questa solida risorsa nautica avrebbe ricevuto il compito di prendere parte: quella fallimentare, non disastrosa, per il passaggio di Macassar verso l’asset strategico che allora chiamavano “muraglia malese”, del 30 gennaio 1942. E la sonora sconfitta subita nello stretto di Badung, punto di volta nelle operazioni delle Indie Orientali, culminante con l’affondamento dell’incrociatore di comando e conseguente dipartita dell’ammiraglio olandese Karel Doorman. Nonché il serio danneggiamento del cacciatorpediniere Clemson a causa della migliore abilità dei giapponesi nelle operazioni notturne, che imbarcando acqua venne ricondotta a mala pena fino al bacino di carenaggio nel porto di Surabaya. Dove per un errore logistico, rovinò su un fianco venendo ulteriormente danneggiata, poi fu colpita da una bomba nemica. E poco prima che gli Americani si ritirassero da quel luogo diventato indifendibile dopo gli eventi tra il 19 e 20 febbraio, fu intenzionalmente affondata mediante l’uso di cariche esplosive. Fine della storia? Non proprio…
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L’aragosta di acqua dolce, un’incredibile creatura tasmaniana
Nel famoso incipit di un romanzo dell’inizio degli anni 2000, l’autore scrisse: “Molto tempo, quando il mondo era ancora giovane, prima che i pesci del mare e tutte le creature terrestri fossero distrutte, un uomo di nome William Buelow Gould fu condannato all’imprigionamento nella più temuta colonia penale dell’Impero Britannico, e lì gli venne ordinato di dipingere un libro sui pesci.” Lo scrittore era Richard Flanagan e il protagonista della locuzione, nonché la storia a seguire, uno degli abitanti più celebri della Terra di Van Diemen, il primo insediamento permanente di grandezza significativa nel più remoto dei continenti. Che non si trovava, come tenderebbe a relegarlo lo stereotipo, nella terraferma australiana bensì presso l’isola meridionale soltanto oggi incorporata nel suo territorio nazionale, un luogo ancora largamente misterioso nel XIX secolo, sia dal punto di vista ecologico che del tipo di creature che abitavano le sue bagnate sponde. Questione molto significativa in quanto Gould, come il suo più celebre omonimo John, pittore degli uccelli londinese, vantava quella combinazione straordinariamente utile di spirito d’osservazione ed abilità nel disegno. Fu dunque a seguito del 1832, dopo aver continuato a sconfinare nell’illegalità che caratterizzò buona parte della sua esistenza, ad essergli imposto un periodo di servitù presso lo storico naturale William de Little. Durante cui osservò, annotò, dipinse. Innumerevoli creature della splendida Tasmania, eppure mai nessuna destinata a rimanere più famosa di questa: l’Astacopsis gouldi, così denominata soltanto a quasi un secolo da quei momenti, da ogni punto di vista logico un’anomalia priva di precedenti. Poiché da ogni aspetto rilevante tranne la forma lievemente più tozza ed il telson (coda natatoria) meno sviluppato, sembrava la tipica aragosta oceanica delle coste del Maine o del Golfo del Messico, magicamente trasferita non presso le spiagge, bensì i torbidi fiumi dell’entroterra locale. Trattandosi effettivamente di un “semplice” gambero, benché capace di raggiungere gli 80 centimetri di lunghezza ed i 6 Kg di peso. Tanto che già in precedenza, le popolazioni indigene ed i loro nuovi vicini europei erano soliti consumarne quantità eccezionalmente significative, visto il sapore ottimo e la facilità con cui si poteva tranquillamente raccoglierne un esemplare adulto, poco prima di procedere alla cottura a fuoco lento. Dopo tutto, a chi sarebbe mai importato, della vita priva di significato di un comune “ragno” dei mari…
Le genti agli albori dell’epoca moderna, se non altro, hanno una scusante: essi non sapevano in effetti, né avevano modo di rendersi conto, che il contenuto dei loro piatti aveva spesso trascorso più tempo in vita di se stessi o i propri genitori. Fino a 60 anni, dopo tutto, non è una cifra insolita per questi giganti tra i crostacei, la cui crescita lenta faceva capo ad un altrettanto cadenzato ritmo riproduttivo. Un tipo di fattori che, come sappiamo fin troppo bene, raramente conduce nelle odierne circostanze ad uno stato di conservazione ottimale…
L’enigma incendiario dei popoli che fondevano la pietra delle antiche dimore
Attraverso secoli e millenni inverecondi, sotto l’egida di Dei vendicativi e nel trionfo delle basiche pulsioni animalesche, non è mai cambiato il metodo fondamentale usato dagli umani per imporre le proprie verità nel mondo. Forza d’intenti e convinzioni, quell’identità possente ed immutabile di chi è convinto. Ma soprattutto ed al di là di ogni possibile punto di vista, la forza inarrestabile delle armi. Strumenti antichi come quelli che governano l’istituzione stessa della civiltà, spesso identificati in qualità di metodi per elevarsi e controllare la natura. Primo tra tutti, il fuoco. E i segni bellici del suo utilizzo, l’energica possenza concentrata ove un qualcosa che era stato necessario, ora sognava di essere distrutto. Come cicatrici senza tempo, cumuli di pietre parzialmente annerite si presentano in alcuni luoghi dell’Europa settentrionale. Ma soprattutto in Scozia, con gli esempi più famosi a Dun Mac Sniachan (Argyll), Benderloch (Oban), Craig Phadraig (Inverness). La cui caratteristica fondamentale, a ben vedere, è la collocazione paesaggistica sulla cima di elevate colline, in quanto pratici residui di fortezze utilizzate dai remoti predecessori della collettività presente. Nulla spiega, tuttavia, l’esatta ragione e soprattutto il metodo dell’implicita modalità impiegata in questo tipo di trasformazione edile. Giacché ad un’analisi più approfondita, come praticata per la prima volta nel 1777 dall’archeologo John Williams, queste rovine risalenti all’epoca della Preistoria presentano profonde alterazioni che vanno ben oltre tale cromatismo delle rocce dioritiche soggette al trascorrere di incalcolabili generazioni umane. Con parti fuse al punto di apparire lucide, simili a smalti polverosi, che fluiscono in forme organiche del tutto degne di figure e ambientazioni del fantastico contemporaneo. Il che significa, in termini di tipo più conciso, che sono stati sottoposti ad un processo antropogenico di vitrificazione.
Qualcosa di difficile ed inevitabilmente complesso da implementare, soprattutto sulla scala degli svariati centinaia di metri coinvolti nel caso di talune cinte murarie; considerate, a tal proposito le temperature necessarie alla fusione dei graniti, agevolmente superiori al migliaio di gradi. Non così difficili, nell’Età del Ferro, da raggiungere all’interno di un forno per la ceramica. Ma tutt’altra cosa è farlo sulla scala di elementi architettonici di proporzioni tanto significative. Il che si affrettò ad aprire, già nella tarda epoca dei Lumi, la questione tanto che in un celebre studio sperimentale di Childe e Thorneycrof presentato alla Royal Society nel 1937, si esordisce con la locuzione: “A tal punto la questione dei forti vitrificati ha occupato le sessioni precedenti di questa prestigiosa istituzione, da non portarci a ritenere necessarie ulteriori spiegazioni di cosa siano. Ecco, dunque, ciò che abbiamo scoperto…”
Il cielo sotto la proboscide che sorveglia gli affollati moli di Atlantic City
La grandezza è un concetto relativo. Ma vi sono esseri, concetti o situazioni che riescono a creare il senso inusitato delle proporzioni. Stimolare l’inerente percezioni della propria posizione nell’asse ideale, ove si dipanano le differenti dimensioni di tutte le cose. Quello perseguito con innegabile successo, e vincolato ad un eclettico cumulo di legno e lastre di stagno, dall’inventore e speculatore immobiliare James V. Lafferty, di quella che veniva un tempo definita “South” Atlantic City. E molti sono i cambiamenti, oggettivamente parlando, intercorsi da quel distante 1882, incluso il nome cittadino che oggi recita: Margate City. Ma chi cercasse con lo sguardo tale opera zoomorfa, dovrà solo rivolgerlo ad un centinaio di metri verso il mare. Ove lo svettante pachiderma, ancora oggi pacificamente, osserva.
Stolido dinnanzi al traffico di automobili moderne. All’arrivo e la partenza dei velivoli nel vicino aeroporto. Allo scatto fotografico ed eternamente reiterato di milioni di turisti armati di telefono cellulare… Poiché Lucy, come venne anch’esso ribattezzato attorno ai primi del Novecento, è sostanzialmente un edificio che rispecchia meramente ciò che il popolo decide di vederci ogni volta. E non giudica, più di quanto possa farlo il peso un paio di affilate zanne ricurve. Dettaglio interessante: poiché la creazione pseudo-scultorea in questione, per le proporzioni anatomiche ed il chiaro intento del suo creatore, voleva essere un maschio d’elefante asiatico proveniente dall’India. Ma l’immaginazione di chi osserva e definisce la realtà, raramente accetta di essere intrappolata all’interno di strutture imposte nei momenti pregressi. Allo stesso modo in cui il palazzo in questione, dell’altezza di 19,7 metri, ha saputo costituire nel corso della propria esistenza un esempio variabile di molte cose distinte. A partire da specchietto per le allodole, ovvero luogo ed ufficio dal cui tetto trovarsi ad osservare di volta in volta i lotti costruiti dal suo creatore; provando tutto il senso di stupore e meraviglia, che un possibile futuro abitante della “Las Vegas della Costa Est” avrebbe voluto provare nel momento in cui la propria vita si trovava in quel bivio. Tetto sovrastato, per inciso, da un valido esempio di howdah, la struttura castelliforme certe volte utilizzata come cabina di trasporto e “controllo” di questo genere di pachidermi. Espressione ben visibile di un costrutto in cui nessuno spazio, alcun tipo di recesso anatomico, sembravano essere andati sprecati. Dalle scale a chiocciola nelle zampe posteriori alla grande sala “gastrica”, dipinta di rosa nelle sue pareti interne al fine di evocare il senso di uno stomaco di elefante. Passando per le 22 finestre disposte strategicamente, di cui due in corrispondenza degli occhi ed una, più grande, sotto la coda dell’imponente animale affetto da cronico immobilismo. Persino la proboscide, saldamente immersa nel pilastro che assomiglia ad un semplice secchio d’acqua, è portante! Affinché nulla, niente o nessuno, potesse ledere a quella che in molti considerano la prima e più importante roadside attraction (calamita oculare per automobilisti) di tutti gli Stati Uniti nordamericani…