La strana guerra della corazzata intrappolata in un oceano di cemento a New York

Assurdità e magnificenza, ingombro fuori dal contesto e tutto il fascino bizzarro di un’insolito arredo da Luna Park. Eppure il vascello funzionale al 70% costruito nel 1917 a Union Square, Manhattan, agevolò l’accumulo di un’energia funzionale allo sforzo bellico della grande guerra. Quantificabile nell’arruolamento di 25.000 solerti, utili uomini nella caratteristica uniforme, da sempre il simbolo dell’orgogliosa Marina Statunitense. Laddove il 30% rimanente, di natura sorprendentemente superflua, avrebbe potuto essere individuato nel “mare”. Almeno inteso come grande ammasso d’acqua salmastra, incuneato tra le sponde contrapposte dei continenti. Quel campo di battaglia dove navi ragionevolmente simili, sebbene un po’ più grandi, avevano combattuto e stavano continuando a combattere per salvaguardare gli interessi di una nazione. Eppure molte possono essere le vie d’accesso, e questa ne è senz’altro una prova, all’Empireo antologico di un corpus di leggende coéve.
“Vede, insigne signor tecnico…” Avrebbe detto allora il sindaco John Purroy Mitchel, celebre figura del partito Repubblicano all’ingegnere civile fatto venire per ricevere il mandato nel suo ufficio “Non è difficile. Perché i giovani possano apprezzare la vita al servizio di una causa, devono sperimentarne per quanto possibile l’esperienza. Questa è l’idea alla base della USS Recruit.” L’entità suddetta essendo destinata a costituire, come commemorano le foto d’epoca e i numerosi articoli di giornale, la fedele riproduzione in scala 1:2 di una potente corazzata di classe Nevada. Forse la nave da battaglia più formidabile che il mondo avesse mai conosciuto, elegantemente riprodotta nel giro di poche settimane nel capiente spazio di Union Square. 61×12 metri di assi di legno dipinte, in questa pratica versione urbana del gigante, con tanto di fedeli riproduzioni dei suoi cannoni, due torrette di avvistamento ed una finta ciminiera centrale. Per accrescere l’aspetto convincente di quello che sarebbe diventato, di lì a poco, un simbolo d’orgoglio e il punto focale dell’attenzione di un’intera città, che fino a quel momento aveva fallito nel fornire una proporzionale quantità di reclute a beneficio del primo terribile conflitto globale, ormai avviato per fortuna verso la sua catartica, per quanto non definitiva risoluzione…

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L’idea del camion ribassato per incrementare l’efficienza dei trasporti continentali

Due scuole di pensiero contrapposte, sui sentieri logistici dei tempi moderni: da una parte il camion a 18 ruote statunitense, con il suo lungo cofano ed il potente motore, aerodinamico, spazioso, confortevole castello su ruote. Dall’altra, la tipica motrice stradale europea, compatta, efficiente, maneggevole, lo strumento calibrato per assolvere a uno scopo estremamente preciso. E se potesse esistere, nel mondo, una terza via? Un approccio che potesse al tempo stesso ottimizzare i costi e allontanare contrattempi, distrazioni, problematiche tangenti d’imprevista e occasionale natura. Che cos’è dopo tutto il trattore di un autotreno, se non la piattaforma usata dall’autista per spingere innanzi un semirimorchio? E se la cabina di quest’ultimo potesse, in fase progettuale, essere del tutto eliminata? Premettendo dunque che non siamo qui a parlare oggi di camion del tutto autonomi (troppo presto per questo oltre quattro decadi a questa parte) il mezzo infine presentato al salone di Francoforte del 1983 dall’ingegnere e imprenditore di Stoccarda Manfred G. Steinwinter era la più perfetta realizzazione del principio secondo cui nei trasporti “Ogni lasciata è persa”. Con un particolare riguardo al limite, introdotto come parte dei regolamenti della Comunità Europea, per una lunghezza massima di quella classe veicolare, esplicitamente finalizzata alla movimentazione di carichi pesanti. Poiché questo faceva in poche parole lo Steinwinter SuperCargo 2040, alias Cab-Under, pur senza dimostrare particolari manie di protagonismo. Essendo situato ad arte, in base a un piano logico ben preciso, al di sotto, piuttosto che davanti, il contenitore rettangolare del suo rimorchio. L’approccio è stranamente familiare per chiunque abbia mai visto il tipico inseguimento dei film d’azione, in cui ad un certo punto l’auto sportiva del protagonista sfugge ai cattivi o ai poliziotti insinuandosi in modo acrobatico tra il l’avantreno e il retrotreno di un Transport Internationaux Routiers, più comunemente detto “TIR”. Ciò in quanto resta del tutto possibile, rispettando i regolamenti e le norme della condivisione stradale, costruire un veicolo non più alto di 1,2 metri. Soltanto nessuno aveva ancora pensato, all’epoca, di fare esattamente lo stesso con il mezzo da lavoro che potremmo definire il sinonimo dele consegne stradali a medio e lungo raggio.
Un camion, ma basso: di sicuro una presenza destinata a far voltare lo sguardo ad automobilisti innumerevoli, nel corso della breve storia di utilizzo e sperimentazione del suo prototipo. Che anticipando in modo significativo alcuni crismi progettuali destinati a diffondersi soltanto in futuro ancora nebuloso e per lo più teorico, avrebbe ahimé fallito l’ardua missione di trovare un mecenate o finanziamenti adeguati. Finendo irrimediabilmente per naufragare, come innumerevoli altri bastimenti nell’oceano agitato dei commerci internazionali…

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Il tempio scenografico della democrazia sul palcoscenico fluviale del Sarawak

Più volte paragonato a una tenda da circo alta 114 metri, uno spremiagrumi o una giostra da Luna Park, il Nuovo Edificio dell’Assemblea Legislativa di Kuching (Bangunan Dewan Undangan Negeri Sarawak Baru) vanta in realtà un’ispirazione soltanto in apparenza prosaica: quella della sommità di un ombrello, l’iconico payung negara usato dal capo costituzionale del suo paese. Una sorta di egida metaforica, o protezione del popolo dalle gravose avversità, al punto da aver generato l’espressione idiomatica di trovarsi sotto la sua copertura sovrana. Alimentando un proficuo senso di autocompiacimento patriottico e fiducia nei confronti dello stato. Ma il suo significato metaforico, esemplificato dai numerosi archi che sostengono la forma di una stella a nove punte, allude nel contempo all’inclinazione di una società multiculturale, capace di unire le proprie forze al fine di sostenere qualcosa di grande. Come per l’appunto, la stanza dove si riunisce il governo monocamerale di questa particolare regione a statuto autonomo della Malesia, all’ottavo piano dell’abnorme edificio.
C’è d’altra parte una storia di fraternità tra i popoli nella vicenda collegata alla modernizzazione della principale città malese sull’isola del Borneo, con i suoi 723.000 abitanti dislocati in prossimità della foce del Sarawak. Nome di un fiume e di uno stato, fin da quando il Raja Muda Hashimit abdicò nel 1841 a favore dell’avventuriero britannico James Brooke, dopo che l’esercito privato di quest’ultimo lo aveva assistito nel sedare la cruenta ribellione dei popoli Land Dayak. Se non che nel giro di anni, se non mesi, la gente dell’entroterra isolano avrebbe imparato ad ammirare questo nuovo ed a quanto si dice saggio governante, costruttore di scuole, ospedali, strade ed un sistema fognario. Rendendogli l’onore, del tutto privo di precedenti fino a quel particolare momento storico, d’inviare i propri capi a presenziare le assemblee pubbliche all’interno del suo surau di legno, l’edificio amministrativo fatto costruire in base all’usanza tradizionale dei Minangkabau, costrutto architettonico comparabile alla zawiya araba, ovvero quella parte della moschea dedicata alla gestione degli affari comunitari. Fu tuttavia nell’anno stesso della sua morte, il 1868, che l’assemblea cresciuta eccessivamente nel numero dei propri membri cominciò quindi a diventare raminga, riunendosi dapprima nel forte militare lungo il fiume, quindi nella vicina villa del governatore, poi nell’edificio del tribunale ed infine nella Sala per lo sviluppo Tun Abdul Razak. Era ormai il 1976 quando lo Yang di-Pertuan Agong, il sovrano eletto costituzionalmente del paese, inaugurò finalmente un luogo dedicato a quello che si era dimostrato capace di diventare nel frattempo un vero e proprio parlamento. Il cuboide palazzo del Wisma Bapa Malaysia (Edificio Padre della Malesia) deliberatamente ispirato alla struttura dalle funzioni simili presente presso la capitale nazionale, Kuala Lumpur. Una soluzione destinata a durare questa volta ben 33 anni, almeno finché il numero dei parlamentari, ormai cresciuto esponenzialmente, non richiese l’ennesimo miglioramento delle sale a loro dedicate. E fu così che una titanica struttura sorse, nuovamente, lungo le sponde del sacro fiume…

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Gli alter ego dello pterodattilo capace di volare stabilmente in autonomia

In fondo, in campo ingegneristico, cos’è una coda? Nient’altro che la parte finale di un dispositivo aerodinamico, spesso corredata delle superfici di controllo necessarie a mantenerlo in assetto. Di sicuro una delle diverse soluzioni possibili, ma non per questo l’unica, o la migliore. Sono decollati nel corso della storia dei velivoli perfettamente funzionali, la cui stessa ragione d’esistenza pareva essere quella di sfidare il paradigma inveterato, proiettando i crismi progettuali oltre le vette della pura metafisica o teoria marginale. Alcuni di loro avevano tutti gli elementi dove ti saresti legittimamente aspettato di trovarli. Altri, invece…
Nel 1924 l’ormai quasi trentenne laureato capitano Geoffrey T. R. Hill era il tipo d’ingegnere che amava costruire in autonomia i propri modelli e molto spesso, pilotarli personalmente. Con una già fiorente carriera in qualità di pilota sperimentale della Royal Aircraft Factory dello Hampshire inglese (in seguito ribattezzata Estabilishment per non confondersi con “l’altra” RAF) in quel particolare momento della sua esistenza si trovò a decidere di averne avuto abbastanza. Del fatto di vedere tanti tra i suoi giovani colleghi e conoscenze professionali, per un singolo momento di distrazione, ritrovarsi a finire in stallo perdendo il controllo dei propri aeroplani, con l’unica possibile conseguenza di un rapido ed estemporaneo decesso. Come risolvere, tuttavia, un problema che c’era sempre stato fin dall’epoca dei fratelli Wright, come imprescindibile pericolo del volo a motore? Lui un’idea ce l’aveva e per quanto sovversiva, anche i mezzi creativi per riuscire a realizzarla: si sarebbe trattato del primo aereo inerentemente stabile della storia, ovvero un apparecchio in grado di tornare spontaneamente, se si fossero lasciati i comandi, in volo perfettamente stabile e livellato. E non stiamo parlando, per essere chiari, di una qualche forma di primitivo pilota automatico (troppo presto per questo) bensì una serie di forme e soluzioni costruttive basate sul bisogno, in ogni circostanza, di salvaguardare l’uomo in cabina prima che le prestazioni del suo falco di balsa e tela. Un ordinamento delle priorità che avremmo potuto definire, all’epoca, alquanto innovativo.
Ciò che in prima battuta fuoriuscì dal suo hangar, tuttavia, difficilmente avrebbe potuto essere definito come un “aeroplano”. Costruito con l’aiuto della moglie Minnie (!) e privo di un qualsiasi motore, esso costituiva per il momento un aliante finendo per assomigliare in più di un modo a quello che potremmo descrivere come un deltaplano moderno. Con le sue ali alte a freccia, l’elica spingente, la cabina compatta e la preannunciata, nonché determinante assenza di un retrotreno…

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