Lacrime di pioggia nello stadio abbandonato

Pontiac Silverdome

Le navi naufragano per un attimo di distrazione. Capitani poco coraggiosi, troppo dediti a trastulli socialiti, si schiantano su alte montagne bianche, iceberg persi nell’oceano sciagurato. Oppure incontrano bassi fondali, scogli affioranti e mai segnati sulle mappe. Intere città così spariscono nel nulla, in un attimo, sfrangiate fra le onde turbinanti. Meglio sarebbe stato…Costruire sopra fondamenta solide ed immote. Ma c’è un altro tipo di catastrofe, molto più lenta, altrettanto irrecuperabile. Quella della marcescenza. Non basta la memoria per tenere a galla luoghi di una tale caratura, serve l’utilizzo assiduo. E dopo il collasso, viene la rovina. Di un augusto mausoleo, ma che dico, cupola di argentovivo – piena d’acqua impietosa. Roba da archeologi, come gli avventurieri di Detroiturbex, il portale che fotografa abusivamente le vestigia della grande Crisi.
Pontiac non è solo un marchio di automobili, né il nome di un potente capo indiano, scomunicato dalle pagine statunitensi della storia. C’era e c’è una ridente cittadina, poco fuori Detroit, che si fregia di questo stesso appellativo fin dal remotissimo 1818, l’epoca di tardive colonie d’entroterra. Quindici soci di una grande compagnia, sotto la guida di Solomon Sibley, ne decretarono il successo urbano, creando magazzini, stabilimenti e posti di lavoro. Pionieri! Nacque giustappunto attorno ad una ricca industria, questa fervida comunità: fin da principio, in un tale luogo ricco di risorse naturali, si assemblavano strumenti di lavoro. Carri e carriole, catenacci e carrucole, titanici barili. Per un secolo durò una tale fama dei solerti costruttori, finché negli anni ’20 del XX, con gran sorpresa dell’intero mondo, non si scoprì che si poteva fare a meno del cavallo. Giunsero i motori, in generale, ed in particolare: la General Motors. Che qui fondò la prima fabbrica, nel bel mezzo di una penisola meridionale, tra le due del Michigan, stato di tempeste, nevi e piogge prepotenti.
Fu come un fuoco, un’esplosione. La neonata industria dei trasporti a motore, che qui ebbe da subito il suo polo nazionale, portò a un aumento vertiginoso di popolazione. Il volume degli affari era talmente grande, così preponderante, che si cercavano soluzioni nuove per l’investimento. Vie asfaltate oppure erbose, strade proprio come questa. Nel 1934, una cordata di facoltosi industriali decise che la regione si meritava una squadra di football, per il maggior prestigio dei presenti. Con i soldi della città intera dentro al portafoglio, molto presto la trovarono. Provenivano dall’Ohio, i Portsmouth Spartans, ed avevano una storia d’insuccessi e bancarotte. Con piglio scaramantico, i loro benefattori li ribattezzarono “I Leoni” o per meglio dire Detroit Lions, dando i giusti meriti alla città più forte, vasta e popolosa dei dintorni. Avevano dunque le belve, costoro, ma mancava ancora il giusto Colosseo. Si allenavano in principio, i malcapitati giocatori, nella spaziosa palestra della locale università. Poi ebbero qualche stadiuccio, in centro città, nulla di particolare. Finché non giunse un uomo, con un sogno ed un’idea: il suo nome era C. Don Davidson, atleta, soldato, architetto. Armato di una laurea conseguita presso la North Carolina State University, finanziata grazie ai meriti sportivi.

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Musica di rocce vietnamite

Litofono

A vedere questa ragazza vietnamita con due martelli, mentre suona il suo litofono ancestrale, sovvengono questioni stravaganti. Come questa: chi l’avrebbe mai detto, che rock è un genere, ma anche uno strumento! Nascosto nelle viscere magmatiche di questo mondo c’è un macigno così pesante, grosso e denso da resistere alle forze delle epoche trascorse. È lucido ma opaco, smussato ai bordi, eppure frastagliato. Nessuno l’ha mai visto, né sentito. Ha molti nomi e due pronomi, poiché racchiude Venere, femminea, ma anche Marte, il vigoroso. Tale roccia monolitica ed immota, se percossa col martello, produrrebbe un suono tanto preminente, così accattivante, da poter svegliare draghi ed unicorni. Per secoli e millenni la soave pietra, bella e maledetta, è stata al centro dei pensieri e delle gesta degli esploratori, armati della zappa, della corda del piccone. Mentre narratori e menestrelli, con la penna e con la cetra, l’hanno tratteggiata pure troppe volte, tramite parole dalla dissonanza sovversiva. Maledette malelingue. Cerca e scrivi, sfrega e stridi, siamo giunti a questa conclusione: questa qui è la Volta, il Paragone. Se davvero fosse mai trovata, tale stele, se qualcuno la suonasse, nascerebbe l’universo. Con un doppio tonfo sordo, in sovrapposizione a quello già esistente! Un disastro senza precedenti. Ciò che serve per la mente non è quella originale ma una copia, l’approssimazione.
Nulla si crea e niente si distrugge, tranne le note di una qualsiasi melodia. Termodinamica permettendo, certe vibrazioni sono figlie di due fonti ben distinte: una è la mente, l’altra l’energia. Non puoi contare i tuoi neuroni, da vivo. C’è un contenuto di pensieri che si aggiunge a quell’oscillazione di atomi e ossicini, dentro al tubo misterioso dell’orecchio umano. Giustappunto, furono i nostri antenati ad inventarla. La musica. Come il fuoco, acquisito per associazione dalla furia elettrica dei temporali, anche il suono armonico è stato ripreso dalle cose preesistenti. Che affioravano placidamente, sotto i piedi, senza voce ma ricche di precipue possibilità. Difficile intuire chi l’abbia capito prima, dietro a che confini, sotto quale sole. Però ebbene, in Vietnam, prima delle antiche civiltà, alcune culture montanare erano solite scavare delle pietre assai particolari…

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Lettera d’あmore dal Giappone

Kenta Watashima

Come abbaìno, abbruciacchiato, allofono ed affranto. Chi ha avuto, ha avuto, aha, voluto. Mai dato, solo ricevuto. AAAaah come Arduino d’Ivrea, coraggioso Re d’Italia verso il primo volgere di un’era millenaria. Che rivive casualmente nell’idea, oltremodo interessante, di un’artista d’altre terre, d’altromondo: Kenta Watashima, programmatore. Vuoi scoprire la ragione? Sarà un lungo viaggio. Per prima cosa, traccia il segno della croce sopra un foglio, però inclina il tratto verticale verso destra. Quindi, muovi il tuo pennello in una virgola parecchio generosa, che giunga lietamente fino alle sue estreme conseguenze. Tonda come il sole, vasta quanto il mare. Possa ricordare un’alfa col cimiero, questo simbolo che viene dal Giappone. Ma non è un grecismo, nossignore: così comincia una scrittura fatta dalle foglie. Metti che un popolo guerriero proveniente dalle steppe della grande Asia, avesse costruito dei tumuli sull’arcipelago del regno di Yamato. Pieni di tesori nazionali. E diciamo pure che costoro, stanchi di dover tracciare gli ardui simboli di un alfabeto troppo arcano, per ipotesi, avessero deciso di semplificarli. Quando questo avvenne, non è chiaro: forse intorno al quinto secolo, oppure poco dopo. La risposta è tutta nella datazione di una spada. L’arma del guerriero Wowake, che gli amici usavano chiamare, per far prima: Ōhatsuse-wakatakeru-no-mikoto. Altro che: “d’Ivrea”.
Costui ebbe a ricevere un bellissimo sepolcro presso l’odierna prefettura di Saitama, con il beneplacito del gran signore Waka Takiru, uno dei protagonisti degli annali mitici del Nihon Shoki. Sia chiaro come fossero, tali testi coévi, tutti scritti nella lingua classica importata dalla Cina. Così era l’usanza, nulla più. Finché proprio quel guerriero, giusto sul volgere di un grande giorno, ricevette in dono un’arma in ferro e magnetite meteoritica, la spada che oggi chiamano col nome del suo tumulo: Inaryama. Che fu scavato solamente nel recente ’68, scoprendo, con somma meraviglia, come sulla lama fosse inciso un lungo testo descrittivo. Scritto in lingua puramente giapponese (infine!) Con un metodo che viene detto: man’yōgana. Tale sistema corsivo, basato sempre sui caratteri del continente, li allegeriva però dal significato originario. Dunque, alla dicotomia di un carattere=una parola, a partire da quel giorno, se ne affiancò un’altra; in cui una lettera, da sola, poteva voler richiamare: una sillaba soltanto. Ah! Ah!

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Napoleone prima dell’epoca di Excel

Charles Minard

Che l’avanzata del progresso sia stata tracciata dai fermi propositi dei grandi personaggi, piuttosto che dalle gesta dei popoli sospinti dal bisogno, è tra le maggiori questioni a carico della storiografia moderna. Tuttavia, almeno questo è certo: la vicenda umana è fatta con i numeri. Un crogiolo di cifre soggette ad infinite connessioni, l’estrapolazione di un fondamentale database che, proprio in quanto tale, può riassumersi attraverso infinite metodologie di visualizzazione. Siamo tutti dei computer, soprattutto dinnanzi agli occhi stocastici della sociologia. 1869, appena 56 anni dopo l’ingloriosa conclusione della campagna russa di Napoleone: Charles Joseph Minard, ingegnere civile francese della École nationale des ponts et chaussées, disegna la sua infografica migliore. Forse la più celebre di sempre, un disegno annotato in poche linee, con appena due colori, attraverso cui ricompaiono i passaggi progressivi di una terribile tragedia generazionale, la marcia che costò la vita ad oltre 400.000 giovani soldati di un’Europa in guerra. E chissà quanti altri fra civili russi, contadini, artigiani moscoviti e spettatori intrappolati ingiustamente tra le serpeggianti spire degli eventi.
Come per il quadro di Jacques-Louis David, Napoleone al Gran San Bernardo, in cui lo splendido condottiero sovrasta le Alpi dalla sella del suo immancabile destriero bianco, il diagramma di Minard possiede una forza espressiva che colpisce gli occhi al primo sguardo e poi, lentamente, riempie la mente di nozioni, valide ad interpretare l’epoca e il suo formidabile protagonista. È un logotipo precursivo, la prima manifestazione di un metodo dialettico senza termini di paragone coévi. Ci sono vari modi per avvicinarsi ai classici dell’arte, sia questa l’opera di un pittore, poetica e idealizzata, oppure quella tecnica ed ingegneristica, di chi analizza i fatti per il tramite di quote, vettori e punti cartesiani. Eccone uno interessante: nel video di apertura, creato dallo YouTuber Brady Haran, traspare un certo grado di spontaneità, l’entusiasmo di un appassionato numerologo che si applica ad una branca trasversale, questo studio geometrico dell’epocale sconfitta di Napoleone. Perché sua è la consapevolezza di un vantaggio implicito della sua scienza: purché i dati di partenza siano giusti, ciò che ne deriva è pura verità.

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