Struttura magnifica lunga un centinaio di metri, leggiadra pur essendo fatta di metallo, volante sopra le acque che lambiscono gli argini antistanti. Una meraviglia apparentemente priva di peso, lampeggiante alla maniera di un cielo stellato, sospesa come un ritaglio di seta trasportato casualmente dal vento. Benché altri sembrino aver preferito, attraverso l’ultima decade e mezzo, una classe di definizioni maggiormente prosaiche per l’inusitato e un po’ superfluo “orpello” urbano…
In un tragitto lungo più di 6.400 chilometri non può avere un singolo “centro” ma diversi snodi, o punti significativi, dove il flusso di coloro che riuscivano a percorrerlo sostavano o cercavano ristoro, definendo le coordinate di una mappa al pari dei profondi solchi attraversati per l’intero estendersi della Via della Seta. Uno di questi era senz’altro un particolare attraversamento del fiume Kura, situato alle pendici meridionali delle montagne del Caucaso, geometricamente al centro tra le due grandi masse d’acqua del Caspio ed il Mar Nero. Così qualche tempo dopo il V secolo d.C, quando tale territorio venne definito come capitale del regno di Vakhtang I di Iberia, l’insediamento noto come Tbilisi (la “Calda”, per la prossimità a sorgenti termali di rilievo) continuò a crescere in maniera esponenziale, trasformandosi in un importante centro di scambio, e successivamente il nodo da risolvere sul territorio estremo di molteplici imperi. Fino al XIX secolo degli zar quando, pur successivamente all’introduzione di molti altri percorsi di scambio internazionale, la costruzione di attraversamenti di un simile corso d’acqua continuò a mantenere il significato simbolico di un tempo. Lo sapeva il governatore della Nuova Russia Michail Voroncov, quando nel 1846 richiese all’architetto padovano Giovanni Scudieri il progetto per il ponte ad arco di pietra oggi chiamato Mshrali Khidi (“Secco” nel senso di privo di acqua) ed allo stesso modo ne era cosciente il giovane presidente di epoca contemporanea Mikheil Saak’ashvili nel fatidico 2010 del suo secondo mandato, quando si fece committente per mano di un altro architetto italiano, il fiorentino Michele De Lucchi, di un secondo approccio ingegneristico, carico di pathos ed un’importante sotto-testo politico, per far spostare gli abitanti da una sponda all’altra della maggiore città georgiana. Mshvidobis Khidi sarebbe stato chiamato o “Ponte della Pace” data la sua costruzione in un periodo in cui questo paese dalla difficile storia pregressa sembrava aprirsi a nuove speranze per il futuro, successivamente alla Rivoluzione delle Rose, che aveva portato alla deposizione forzata del precedente capo di stato, il non democraticamente eletto Eduard Shevardnadze, procedendo nel contempo a riallineare la Georgia dall’Ex Unione Sovietica ai paesi dell’Europa Occidentale. Un cambiamento senz’altro non facile da portare a termine, che in ultima analisi avrebbe portato al fallimento del progetto politico e successivo arresto di Saak’ashvili, supportando l’insorgere di pari passo di una critica piuttosto accesa nei confronti delle molte opere pubbliche create dal suo governo. Tra cui il ponte di De Lucchi che, riprendendo un famoso articolo del quotidiano statunitense Guardian, i locali cominciarono a chiamare “l’assorbente volante”…
La fortezza millenaria costruita per la api tra le vette dell’Arabia Saudita
Ogni civiltà, ciascun insediamento umano è la collettiva conseguenza di un processo, l’elaborazione di un sistema che funziona grazie a un qualche tipo di motore. Un’industria, una versatile risorsa, la capacità di acquisire ricchezze grazie all’operato di altri. O altre… Creature. Può in effetti capitare, in determinati luoghi e periodi storici, che l’impianto tecno-pratico in questione possa emettere un ronzio, non del tutto dissimile da quello di un mezzo elettrico moderno, sebbene moltiplicato per centinaia, migliaia di volte. È il verso prototipico degli imenotteri, le api tradizionalmente messe sopra un piedistallo per il massimo profitto, e inesauribile vantaggio dell’umanità. Sfruttate per quanto possibile fin dall’epoca del Bronzo, essendo stata un’importante fonte di cibo per i sudditi dei Faraoni d’Egitto, come testimoniato da pitture parietali nei templi, e in Mesopotamia come narrato sulla stele reale della regione di Suhum. Con i primi esempi di alveari costruiti dall’uomo databili al 900 a.C, fabbricati con argilla e paglia nella valle del fiume Giordano. Concettualmente non dissimili dai kawarah, contenitori per le api ancora in uso nel Mondo Arabo medievale, un termine che significa letteralmente “abitazione di fango e/o giunchi”. Non che tutti in quel particolare contesto storico fossero simili praticare l’apicoltura grazie all’uso degli stessi spazi deputati, come reso particolarmente esplicito da una serie di fotografie scattate presso il governatorato a sud-est del paese di Maysan, lungo l’alta cordigliera della montagne del Sarawat. E pubblicate con un breve articolo d’accompagnamento a fine luglio dalla testata digitale Arab News, che identificava tale scene come appartenenti al villaggio montano lungamente abbandonato di Kharfi. Una prova architettonica di quanto fosse importante e ben custodita la produzione del miele per i lunghi secoli trascorsi, considerata l’edificazione di un tale monumentale complesso scolpito nella pietra. Da ogni aspetto rilevante una versione su scala ridotta (meno di quanto si potrebbe pensare) di un moderno condominio multipiano, in cui ogni singola “finestra” è tuttavia un pertugio, dove originariamente le fedeli api produttrici dell’insediamento risiedevano, doverosamente sorvegliate da una torre d’avvistamento posta in posizione di preminenza, da cui ogni eventuale assalitore o ladro potesse essere ragione di dare l’allarme. Un tipo di fortezza, perché innegabilmente di ciò si tratta, che i limitati dati disponibili in materia attribuiscono a una singola famiglia intenta a tramandarsi il mestiere attraverso le generazioni, così come l’importante ruolo di proteggere il fondamentale pilastro agricolo delle proprie genti. Impresa dolorosamente andata incontro al fallimento, in qualche minuto pregresso del lungo corso della Storia, se è vero che oggi solo il vento, e qualche ape selvatica soltanto di passaggio continuano a risuonare negli oscuri pertugi dell’antica roccia scolpita dall’uomo…
I dinosauri che si baciano sull’autostrada, massiccio monumento ai confini del Gobi
Di miraggi mentre ci si spinge oltre le dune abbiamo molti resoconti, che siano appartenenti all’epoca moderna o quelle che l’hanno precorsa nell’ultimo giro della ruota del tempo. Occorre tuttavia percorrere a ritroso molti dei suoi raggi, oltrepassando gli stessi limiti della vicenda storica umana, al fine di raggiungere l’ispirazione della porta principale dedicata ai visitatori di Erenhot (alias Erlitan) città cinese situata nella regione autonoma della Mongolia Interna. Un’elevata meraviglia, una svettante antonomasia, una dimostrazione di creatività, una coppia di realistiche (?) rappresentazioni in acciaio color verde rame del secondo dinosauro più grande mai scoperto al mondo, il Brachiosaurus altithorax del Giurassico Superiore. Il che sarebbe stato già abbastanza stupefacente, anche senza entrare nel merito della scena rappresentata: gli abnormi rettili, di un’altezza di 19 metri e lunghi 34, sembrano impegnati nell’attività tipicamente umana di un bacio appassionato, all’incontro delle loro teste perpendicolare al centro esatto di una grande strada di scorrimento. Niente meno che l’arteria stessa che permette di raggiungere quel centro cittadino, intenzionato a evidenziare in questo modo valori come armonia, amicizia e fraternità. Nonché ricordare, ai suoi visitatori più o meno turistici, di essersi attribuito ormai da tempo il prestigioso titolo di “Capitale Mondiale dei Dinosauri”, onore soggettivo ma non del tutto privo di una base logica, visto il posizionamento di tale luogo sopra la faglia geologica di Erlitan-Hegenshan, ai margini esterni della placca continentale siberiana. Corrispondenti ad un fenomeno di parziale scioglimento del mantello terrestre iniziato 250 milioni di anni fa, dando inizio a una significativa e duratura fuoriuscita di magma acido, tale da causare l’affioramento a ondate di minerali come quarzo, mica, feldspato. Ma anche permettendo la conservazione, attraverso gli eoni successivi, delle schiere letterali di resti appartenuti alle più celebri e imponenti creature degli albori dei continenti, esseri capaci d’instillare nella gente di ogni paese un senso istintivo di terrore e meraviglia. Per oltre 50 anni prima di oggi dunque, spostandoci a ritroso nell’asse temporale, possiamo verificare l’intercorsa costituzione di numerosi siti di scavo e spedizioni scientifiche, nei dintorni aridi ed irti di pendii a questo possibile confine della civiltà. Fino a un’episodio destinato ad essere inserito negli annali, relativo alla scoperta nel giugno del 2005, durante l’Iniziativa di Protezione del Patrimonio Geologico istituita direttamente dal partito al governo, di una creatura precedentemente del tutto ignota alla scienza. Sto parlando del Gigantoraptor erlianensis, un dinosauro rapitore di uova (o “raptor”) vissuto nel Cretaceo Superiore con la propria altezza significativa di 8 metri, tale da aver fatto scambiare inizialmente le sue ossa per quelle di un tipico tirannosauro dei perduti lidi. Fino a studi maggiormente approfonditi e quella che potremmo definire, per intercessione dell’amministrazione urbana locale, una vera coincidenza illuminata dalla fortuna…
Pseudorca dei mari profondi: lo sguardo sornione di un falso assassino
E i loro versi risuoneranno dell’infinito senso d’inquietudine reale o percepita, il vuoto inconoscibile dei più profondi abissi marini. Di un popolo pensante, con cui comunicare non è sempre facile. Ma MAI del tutto impossibile, trattandosi da ogni di punto di vista rilevante, di esponenti particolarmente affusolati dello stesso ramo dell’evoluzione che ci appartiene. Mammiferi di un tipo più “evoluto”, persino di noialtri, volendo collegare tale caratteristica all’effettiva distanza percorsa, nel mutamento dei fenotipi, dalla loro forma primordiale terrestre. E tra tutti, soprattutto quei delfinidi, non più antichi del Miocene superiore in grado di costituire la risposta alla domanda implicita di quanto sia possibile inseguire strutture di ragionamento e/o mentalità complessa, in un ambiente ove non è concesso l’utilizzo di mani prensili o strumenti artificiali che rispondono al bisogno di manipolare la natura. Così creature assai diverse, per la propria discendenza e patrimonio genetico, tendono a vivere tutte nella stessa maniera. Si assomigliano, persino, per quanto le loro storie pregresse possano risultare distanti. Questo essere non è una balena nonostante la lunghezza di fino a 6 metri ed un peso massimo di 2.300 Kg. Né costituisce un tipico esempio di delfino, con la sua colorazione tendente al nero ed un muso tondeggiante privo di un lungo rostro che amplifica le particolarità della sua gestualità espressiva. Ragion per cui appare almeno in linea di principio comprensibile, l’errore inizialmente commesso dal naturalista britannico Richard Owen nel 1846, che trovandosi al cospetto del teschio di uno di questi esseri, lo classificò inizialmente come un tipico esempio di orca, il più intelligente, scaltro, per certi versi terrificante predatore dei sette mari. Che tuttavia o proprio per questo non ha mai attaccato l’uomo, una caratteristica del tutto condivisa anche da quella che lui stesso avrebbe battezzato in seguito col termine binomiale di Pseudorca crassidens. Benché la dentatura, muscolatura ed aggressività inerenti di questo animale, senza dubbio, lo avrebbero quanto meno predisposto a tale attività ecologicamente auto-distruttiva. Siamo qui al cospetto, a tal proposito, di un carnivoro la cui reputazione potrebbe essere decisamente peggiore, se soltanto un maggior numero di persone ne conoscessero la forma ed aspetto esteriore. Un letterale alieno xenomorfo, nero, lucido e dotato di una serie impressionante di 44 denti usati per cacciare pesci, seppie o delfini più piccoli, con funzione ed aspetto non così distante dallo stereotipo associato agli squali. Ma forse è proprio la suddetta e persistente rarità dei contatti con l’uomo, attualmente, a connotarne in modo significativo le circostanze. Perché se quasi nessuno può affermare di averne incontrata una, quante pseudorche possono effettivamente rimanere in vita, attualmente?