L’impresa interminabile del Corgi rotativo

Corgi Carousel

È il cane, soprattutto, che può risolverci un problema. Quello che da sempre assilla il mondo dell’industria tecnologica moderna: energia infinita, pulita, senza controindicazioni. Funziona, pressapoco, come una turbina. Si prende il rossiccio rappresentante della razza inglese Corgi, nella variante ultra-intelligente del Pembroke. Una scelta che ha radici nel profondo: un gran danese, certamente, correrebbe più lontano. Ma sarebbe presto stanco per la mole. Un robusto cane da pastore tedesco, o il volenteroso Labrador, non passerebbero agilmente sotto le maniglie di metallo. Un bel problema! E qualsiasi cane piccolo, come un Chihuahua, oppure il Jack Russell Terrier, avrebbero una resa deludente. Solamente lui, con le sue zampe corte ma possenti…
Ergo, elettricità infinita. Basterà collegare un alternatore magnetico al mozzo centrale della ruota. Una turbina, però attentamente camuffata. Altrimenti, che noia. Deve sembrare, fra le innumerevoli possibilità, esattamente, niente meno che un enorme carillon; l’effetto è veramente straordinario. La resa, senza pari. Poiché il tempo vola quando ci si diverte, il compatto corridore inizierà a girare. Per lunghi minuti, forse quasi un’ora. Giorni, mesi, anni e secoli infiniti. Ovviamente, occorrerà avere almeno due o tre cani per ciascun impianto, affinché possano darsi il cambio quando è l’ora di mangiare. Quindi, tanto meglio cominciare la spassosa procedura d’indottrinamento. Nell’originale video di Carter Grebbien, risalente al 2011, tutto partiva da una fortunata contingenza. Il padre del giovane, restauratore di reperti metropolitani, aveva acquisito in qualche maniera misteriosa una giostrina da giardino. Di quelle tipiche dei parchi per bambini, senza nessun tipo di motore, spinta innanzi unicamente dalla forza centrifuga e dai muscoli dei conducenti. Per metterla lì, davanti casa. E che passeggeri! Dopo un breve periodo di adattamento, oltre al ragazzo sopra c’è salito Meatball (Polpetta) questo fulmine peloso. Perché in breve tempo, dentro di lui si era risvegliato un vecchio istinto. Le origini del Corgi, dopo tutto, non sono estremamente chiare.
Esistono dei manoscritti gallesi, risalenti all’undicesimo secolo, in cui si parla di un minuto cane da pastore, ben distinto dai suoi colleghi del profondo sud. Del suo naso a punta e delle orecchie triangolari, della macchia bianca sulla schiena. Dovuta, secondo le leggende al tocco delle fate. Servitrici del re occulto del crepuscolo lunare.

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La ragazza con un pescegatto nella gamba

Catfish girl

Quel tipico momento, in una giornata d’estate un po’ noiosa, quando trovi un animale morto sulla spiaggia e lo usi per passare il tempo con la tua migliore amica. È un gioco da ragazze, nulla più. Nessuna raccoglierebbe con le proprie mani una creatura potenzialmente pericolosa! Nessuna lo userebbe come uno scudiscio sul sedere!  Nessuna prenderebbe quella cosa maleodorante, facendola roteare sulla sabbia granulosa, prendendo attentamente la mira e…Il fatto è questo. Un cane di grosse dimensioni può anche incutere timore, specie quando non conosci la sua Razza (dicono che alcune siano velenose); per non parlare della Manta, che fluttua incombente tra le acque ombrose dell’Oceano sconfinato. Mentre un gatto, come bestia, è sempre facile da accarezzare. Ispira simpatia, persino nella sua versione senza scaglie, né peli, con due soli e lunghi baffi tubolari. Come un pesce, il pesce soprattutto, l’arma imprevedibile ed involontaria di un guerra tra la gioia e la natura.
Questo video, risalente al 2012, è stato probabilmente girato tra l’arcipelago delle Florida Keys ed il Golfo del Messico, gli unici luoghi al mondo dove al tempo stesso: A- Vive l’Ariopsis felis, o pescegatto testadura e B- Vengono i giovani in vacanza. Dando luogo a potenziali situazioni come questa, davvero complicata da potare a un gradevole coronamento. Perché non è tutto un gioco, questo. Nossignore, mio capitano. E lei non sta fingendo: è alquanto difficile, una volta che ci si ritrova a tiro del vendicativo siluroide ormai defunto, uscirne senza almeno una sgradita cicatrice. Molti pescigatto posseggono infatti, in corrispondenza delle pinne dorsali e pettorali, lunghe spine ricoperte di muco velenoso, in grado di bucare facilmente anche la suola di una comune scarpa da ginnastica. Figuriamoci, dunque, la sottile quanto dolorosa scorza della pelle umana. Già la rimozione del solo aculeo, in situazioni analoghe, richiede quasi sempre l’intervento di personale medico specializzato. Per non parlare poi della necessità di contrastare il rischio d’infezione, sempre in agguato, visti gli ambienti del basso fondale in cui amano ruzzare questi amichevoli spazzini.
È interessante notare come l’atmosfera divertita della scena cambi tono gradualmente. Per prima, a salvare la giornata ci prova l’amica e causa del problema. “Caspita!” Paiono pensare tutti: “Com’è possibile che il pesce non si stacchi dalla gamba” Ma tira e rigira, nulla viene via. Allora giungono due astanti di genere maschile, apparentemente esterni al gruppo, che si posizionano attentamente per avere un quadro chiaro della scena. Uno fa le foto col telefonino, l’altro regge il pesce e se la ride. Lei, la ragazza, sembra prenderla con stoicismo e notevole filosofia.
È possibile, in effetti, che sia ancora sostenuta dall’adrenalina in circolo nel sangue, non riuscendo ancora a concepire l’entità del “breve” inconveniente. Verso la fine dei 3 minuti e 39 secondi, finalmente si adagia cautamente al suolo; fiduciosa nel concetto per il quale se due menti sono meglio di una, allora dieci, venti sono ancora più efficaci. Allora inizia la consultazione…

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La forca e la feluca, la spada e il mare

Messina spada

Sopra l’onde turbolente gridano i gabbiani mentre sotto, silenziosamente, si agita la pinna di un temibile guerriero. Le conchiglie giacciono dimenticate, filtrando l’acque di quel dolce plankton che le nutre. Tutto scorre fin dall’epoca delle quadrate vele, strumento degli antichi marinai. Così facevano i Fenici. Ne cantò l’insigne Omero. E i nonni dei nostri trisavoli, allo stesso modo, muovevano quei lunghi remi. Solo il motore nautico poteva cambiarla e l’ha cambiata, la caccia messinese al pesce spada. Una praxis che si rimescola e dà nuove genesi dal brodo cosmico del tempo: Panta Rei, dicevano i filosofi, osservando la tendenza divergente delle opposte cose, perennemente sottoposte ad infinite mutazioni. Questo non significa che il vasto mare sia del tutto privo di strettoie, angoli ciechi, passaggi dalle insidie occulte, intramontabili e perverse. Dove convergono le anime perdute.
Ogni anno, tra maggio ed agosto, decine di migliaia di creature argentate si avventurano tra Scilla e Cariddi, in cerca di una valida compagna. Sono costoro gli Xiphias gladius, imponenti abitatori di ogni mare temperato del pianeta, con la coda a mezzaluna, la pinna in forma di falce e il naso lungo, aculeato, non dissimile ad un’arma penetrante. Come una lancia, il fioretto degli abissi. Uno strumento che li nobilita e caratterizza, ma che allo stesso tempo, fin dall’alba delle umane civiltà, li rende magnifici e desiderati. Condizione rara per una bestia, nonché di sicuro, tutt’altro che vantaggiosa. Giacché non è per niente insolito, nel corso della loro spedizione, d’incontrare una maestosa ombra, udendo in lontananza un rombo e le parole in greco di un’antico incantesimo di mistiche poesie. Finché d’un tratto, al solenne grido “Viva San Marco” non appare innanzi ai loro grandi occhi il simbolo supremo della Fine: un’asta lunga, con tre più corte nell’estremità anteriore. Il ferro del piscatore, approssimazione ragionevole della fiocina del baleniere. Se pure di Achab ce n’è solo uno, questo non significa che la balena bianca sia insostituibile, nei nostri piatti. Anzi! Già Archestrato di Gela, poeta siceliota del IV secolo, definiva questa carne come cibo degli Dei. Cartesio affermava, raccomandandola agli stomaci delicati, che “[…] Si squaglia in bocca come un’alga e suscita pensieri sia casti che d’amore allo stesso tempo”. E se ancora oggi abbiamo il privilegio di gustarla, in tanti piatti tradizionali ed altre specialità della Sicilia, il merito anche di questa tecnica ereditata dai nostri avi. Basata soprattutto sulla calma e l’abbandono, un apparente tipo di disinteresse che conduce alla vittoria.
Oggi, la caccia si svolge a questo modo: la barca veloce, della tipologia snella ed elegante che viene definita feluca, viene bardata di due interessanti, quanto originali strutture. La prima è un’antenna metallica, alta anche 25 metri, sopra la quale trova posto una vedetta. La seconda è una lunga passerella, leggera e rastremata, al termine della quale sta in agguato un coraggioso cacciatore. Il ragionamento è molto semplice: se tu vedi il pesce, puoi colpirlo. Se lui non ti vede, resta fermo. Che l’uomo possa precedere la propria barca di una distanza equivalente allo scafo stesso, alla natura non potrà essere mai chiaro; a questo modo, dunque, egli scaglia la sua lancia triforcuta verso il basso. E colpisce, molto spesso, proprio quello che voleva. Il seguito è fin troppo chiaro. Trapassato dalle punte a senso unico, da cui è impossibile fuggire, il pesce tenta invano di salvarsi. Più e più volte si inabissa, venendo per ciascuna ritirato in alto. Finché alla fine, con un ultimo colpo di coda, soccombe. Tratto al di fuori del suo ambiente con gli onori normalmente riservati ad un eroe sconfitto, lo spada viene adagiato sopra il ponte dell’imbarcazione. Qui, almeno secondo l’antica usanza, i suoi catturatori tracceranno in prossimità della branchia destra il doppio segno perpendicolare della “caddata dà cruci”, prima di coprire il pesce con un telo, per proteggerlo dal sole. O dagli sguardi lucubranti. Questa antica tecnica di pesca, così lontana dal sentire pratico dei nostri tempi, viene considerata preferibile all’uso delle reti a strascico e degli altri metodi moderni. Prima di tutto, perché non danneggia i preziosi fondali sopra cui si svolge, gemme inestimabili del Mediterraneo. E secondariamente, in quanto lascia alla vittima un piccolo barlume di speranza. Che gli possa in qualche modo, nel momento della verità, scansarsi un po’ di lato. Evitare il proiettile, per nuotare innanzi verso l’orizzonte.

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Puma che cattura un bradipo arrampicatore

Sloth Puma

Sorge l’alba, come il Sole, sopra gli alberi delle giungle mesoamericane.  A salutare l’astro, dall’intreccio di quei rami aggrovigliati, una creatura silenziosa. Il bradipo tridattilo, Bradypodidae, non emette versi. E nemmeno lo possiede, guarda caso, un verso definito. Muovendosi a ritmo di generazioni imponderabili, egli può trovarsi una mattina con la testa in alto oppure in basso, anche di lato. Ciò non turba la sua placida tranquillità. È un’arma evolutiva ben precisa, questa propensione, finalizzata alla conquista del totale mimetismo: sono infatti innumerevoli, i predatori del suo ambiente ultra-vitale. Ma tra questi, molto pochi quelli che si affannano per catturarlo. Con degli ottimi motivi. Tanto per cominciare, la paciosa bestia vive in alto, saldamente avviluppata ai muschiosi fusti delle piante più svettanti e inaccessibili, oltre il regno dei primati e delle protoscimmie. Dove soltanto gli uccelli, normalmente, posano le loro zampe. Oppur talvolta, chi ha un senso particolarmente atletico dell’ora di cena, ovvero il Puma concolor, principale felino del Cile, dell’Argentina, della Bolivia e del Paraguay. Benché geograficamente, in questo specifico caso, dove siamo non è chiaro.
Però nel presente video, pubblicato su YouTube presso il canale di Anar Abbasov, si assiste alle gesta che può compiere il signore della foresta (pluviale) se ha una fame pari al ritmo delle sue giornate. Sincopate, frenetiche, alla continua caccia di qualcosa; proprio come dovrebbe essere, secondo prassi naturale, il quotidiano vivere di un cosiddetto apex predator, il super-predatore. Ovvero la belva principale del suo ambiente, posta sulla cima dell’imprescindibile catena alimentare. Che divora, lui/lei soltanto, senza mai finire nella pancia o tra le fauci di nessuno. Un tipo di essere, questo, tra i maggiormente celebrati nell’immaginario umano. Perché forte, furbo, rapido, spietato. In grado di irrompere oltre le dighe, considerate invalicabili, dei primordiali presupposti. Quanti, anni, secoli o millenni, sono passati prima che il proto-bradipo salisse in cima a un albero? Scoprendo gradualmente, ad un livello inconscio, che questo era il metodo per garantirsi una continuativa discendenza. Almeno, statisticamente.
Ma un conto sono i grandi numeri, un altro i casi del momento. Fu così questo scaltro felino, tanto premurosamente definito dal commentatore con l’appellativo: Khan (ah, la spettacolarizzazione di una simile disavventura!) Vince una battaglia veramente rara. All’angolo opposto, metaforicamente parlando, di questa povera “Luana”. Senza neanche una liana a cui aggrapparsi! L’equivalente, nel terribile, fin troppo reale caso, di Beep Bepp l’uccello corridore, Titty il canarino e così via…Allo stesso modo in cui le fiabe preparavano i ragazzi alla morale degli adulti di una volta, fino a poco tempo fa c’era il cartoon. Oggi, invece, abbiamo la nuova documentaristica d’impianto emozionale. Utile, per il modo in cui permette di comprendere alcuni cupi presupposti del pianeta in cui viviamo. Però triste nel mostrarli in questo modo: quando un grosso gatto, facendosi le unghie, può andare sempre un po’ più in alto. Fino a che…

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