Il bruco che squittisce quando disturbato

Usutabiga

Il grido d’imbarazzo della giovane larva di Rhodinia fugax, la falena pelosa del Giappone, risuona del pathos dell’effimero e del senso dell’impermanenza di ogni cosa. Lei era lì, sul suo ramo, quando quella grezza mano umana si stringeva, con presunzione, sul suo splendido didietro. Un altro tipo di bruco, al suo posto, si sarebbe vendicato con propaggini pilifere urticanti. Non lei. Sottoposta alla molestia delle virginali e candide pudenda, come da prerogativa della sua disarmata specie, si è invece limitata a strofinare le mandibole d’insetto tra di loro, producendo un suono non dissimile da quello di un giocattolo per cani, quando masticato. Facile riesce immaginare quanti gufi affamati, cornacchie avide, batraci famelici e altri esseri carnivori, sottoposti a un tale suono tremebondo, siano scappati, nei secoli, letteralmente a due centimetri, oppure quattro di distanza. Probabilmente, nessuno. Gustando l’agognato pasto, al massimo, si saranno chiesti come mai quel bruco, in particolare, squittisse come un topo. Talvolta, ed è questo il caso, gli strumenti di difesa evolutiva finiscono per trasformarsi in semplice prerogativa ornamentale. La Natura funziona come una corsa agli armamenti. Mossa e contromossa, preda e predatore, lascia che ciascuno sviluppi gli strumenti adatti a prosperare, a discapito di altri. E il suono emesso da quel bruco, dal punto di vista della sopravvivenza, oggi ci pare così fine a se stesso. Se non per un fatto, in particolare: quello di renderlo assolutamente adorabile. Tutto considerato, niente affatto un brutto affare! Negli stretti di Shimonoseki c’è una tipologia di granchi, gli heikegani, che secondo una leggenda sarebbero la reincarnazione dei samurai sconfitti di un antico clan. Sul loro ventre, a guardarli, si può scorgere l’immagine di un volto. Si dice che quelli che ne hanno uno più marcato, vivido e somigliante, vengano risparmiati dai pescatori, come forma di rispetto per la Storia. Nell’epoca moderna, affascinare gli uomini può bastare per giungere, tutti interi, al giorno dell’accoppiamento.

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La fiaba russa degli idraulici schianta cinghiali

RussianBoar

Ciclica è la storia, reciproco il cimento. Dentro al bosco, come sul cemento. Per le strade della Russia corre un bestio nero, classico bersaglio dell’ardite lance, di freccia e di distinte lame, luculliano pasto delle focose brame. Fuoriuscito da un blasone nobiliare, il zannuto, l’irascibile cinghiale.
Guidando l’auto verso sera, i fari spenti, con cielo plumbeo per via dell’incipiente finir della giornata, questi due giovani hanno sperimentato il più sincero significato del termine “sorpresa”. E molti, al posto loro, sarebbero fuggiti, o per lo meno avrebbero tirato dritto, senza batter ciglio…Disdegnando di mostrare quel coraggio, in grado di far di porcellana, l’arme. Un lampo bianco, fra l’erba, solo per un singolo secondo; facente segno di un pesante tondo, da schiantare sulla testa dell’immondo. Un cagnolino, che rischiava di essere incornato, ringrazia. Nel frattempo, come spesso capita in quei luoghi, la telecamera di bordo, l’optional più irrinunciabile di tutta l’Est Europa, è stata testimone. Meno male! Altrimenti ci saremmo persi questa scena, davvero singolare. Costoro stavano giusto parcheggiando, infatti, quando d’improvviso gli si para innanzi un rabbioso mammifero selvatico, della possente specie sus scrofa, quell’essere tanto temuto, così pericoloso, che ancor’oggi si caccia con cautela, sia pure disponendo di fucili di grosso calibro ed altri avanzati strumenti venatòri. Il problema è che, dal punto di vista evolutivo, i suini sono fin troppo ben riusciti, vere e proprie macchine da procreazione, perfettamente in grado di difendere se stessi e la loro numerosa prole. Diffuso è il caso di maiali rinselvatichiti, oppure, come in questo caso, veri e propri cinghiali, che anno dopo anno si spingono sempre più vicini all’uomo, invadono i suoi spazi e ne fanno l’abusivo habitat d’elezione. Si protegge il beneamato lupo, splendida creatura naturale, purché resti una visione teorica e lontana, ben divisa dalla protetta civiltà. Però chiedete al contadino delle steppe, la cui pecora rischia di continuo l’uccisione, che ne farebbe del carnivoro quadrupede per eccellenza, l’ululante terrore della notte. In quel caso, se non altro, ci sarebbe un mediatore.  Cane, lupo? Quasi la stessa cosa, purché gli si faccia una piccola carezza. Diverso è il caso del maiale cingolato, pardon, cinghialuto.

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Beato il cane al sushi bar

SushiDog

Coco è una labrador davvero fortunata. Ad ogni compleanno, come da tradizione familiare, riceve l’onore di un grande pranzo preparato dal suo padrone, Gajyumaru. Giorno dopo giorno, vivendo insieme a un animale, si stabilisce con lui un lessico fatto di gesti, simboli e parole. E se pure Coco non saprà mai, davvero, cosa siano cookies, sasami e splendidi nigiri, già ne assapora il gusto mentre, rispettosamente seduta, attende il suo momento. L’apoteosi del gourmet. Questa scena, tanto gradevole e compunta, è simpatica, ma pure affascinante. La festeggiata prende posto di fronte a un piattino piuttosto originale, oblungo e frastagliato. Tutto intorno, gli strumenti del mestiere. Pare un tipico scenario da ristorante giapponese: da una parte il cuoco, esperto affettatore di pesci e materia vegetale, che produce con la sua sapienza quel momento irripetibile, non soltanto fatto di sapori, ma anche di spettacolo e atmosfera. Dall’altra…Noi. Perché non c’è figura più autorevole con cui identificarsi, come neofiti di quel mondo culinario, rispetto a quella dell’amico cane. Coco sono io, siamo tutti noi. E non importa quante volte siete stati a Tokyo…Le portate di quel particolare evento, vi assicuro, saranno nuove anche per voi.
Lo chef presenta il suo menù, tracciato a penna sopra un semplice foglio di carta (tutto è semplicità, modestia) con ottima calligrafia, va detto. “È un po’ che non ci vediamo, signora, davvero vuole dirmi che oggi è il suo compleanno?” Già dagli ingredienti si capisce la particolare attenzione utilizzata, nel proporre un pasto su misura: ci sono carne e pesce naturalmente, e molte altre delizie, ma soltanto cose adatte a un cane. Con lungo coltello alla mano, si comincia. Apre il pasto un biscottino per cani avvolto nell’alga nori, servito insieme al riso bianco (sumeshi). *GULP* Sparito! Quindi arriva il primo piatto, un rotolo (maki) di cavolo, ripieno di riso, carote e verdurine. La pietanza è costruita con l’aiuto del tradizionale tappeto di bambù, poi tagliata a fette, come la versione per bipedi parlanti. Coco apprezza, talmente tanto che manda giù tutto, senza nemmeno masticare. Al momento di bere, riceve con gioia la sua ciotolina da saké, riempita, per l’occasione, con del più consono latte di mucca (gyuunyuu). Un colpo di lingua sfortunato, ondata tellurica imprevista, ne rovescia parte del contenuto, fra le risate dei presenti. Ma niente paura. Gajyumaru, giocosamente, di nuovo tratta il cane come se fosse una persona: “Signora, che succede, si è già ubriacata?” Poi, rapido, pulisce. Lo spettacolo deve continuare.

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Pescatore, non mettergli la mano nella bocca…

Monkfish

…Se vuoi riaverla indietro. Fra le acque dei mari del Nord nuota un pesce così mostruoso, tanto cattivo e brutto che mai nessuno, fin dai tempi antichi, aveva pensato di mangiarlo. Sembra un rospo con la bocca di una tartaruga, la coda di aragosta e gli occhi tondi di un tenero cucciolo di foca. Potevano chiamarlo in tanti modi: sgorbio, dragozzo, mozzicatopi oppure sgargamella. Ma siccome la fantasia popolare segue strane vie, l’hanno invece battezzato prete. Anzi, (pesce) monaco, dicesi monkfish. Lo strano ragionamento, a pensarci bene, potrebbe avere un suo perché. A differenza della maggior parte degli esseri marini, infatti, questo mostriciattolo ha entrambi gli occhi nella parte frontale della testa e una protuberanza ossea sopra la bocca, che pare quasi un naso: potrebbe a stento ricordare, quindi, un volto umano. E poi merita rispetto, come un vescovo o cardinale, questo temibile lophius. Pare infatti che la bestia abbia un riflesso inconsulto, praticamente automatico, che la porta a chiudere di scatto le sue forti fauci quando qualcosa, guarda caso, finisce per trovarcisi davanti. Come un pesciolino delle profondità, attratto suo malgrado dagli invitanti filamenti bioluminescenti che spuntano dal dorso del suo divoratore. Oppure, come una mano: questa, per esempio, che appartiene a uno sventurato pescatore russo, trasportato assai lontano dai forti venti del suo mestiere, addirittura presso la splendida regione di Rogaland, nella Norvegia occidentale. Questo luogo, pieno di fiordi, vaste spiagge e isole maestose, può vantare il più basso livello di disoccupazione di tutta l’Europa settentrionale: appena l’1,1%. I suoi musei, le feste di paese e i festival musicali ne fanno una meta preferita dal turismo internazionale. I fondali, ricchi di fauna rara e prelibata, sono altrettanto amati dalle reti a strascico dei pescherecci, che ne traggono tesori da rivendere successivamente, a peso d’oro. Il problema è quando, come dicevamo, in mezzo al bottino ci trovi questo coso qui, il monkfish. Allora chi chiamerai, ghostbuster?

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