Archeologo scopre una sfera di pietra da 30 tonnellate

Stone Ball

Se n’erano già viste, ma raramente di una simile grandezza. In vari luoghi del mondo, con dei nomi molto diversi tra di loro: i macigni di Moeraki nell’Otago, in Nuova Zelanda; la spiaggia delle palle da bowling a Mendocino County, California; il parco delle rocce a fungo, nelle Smoky Hills del Kansas centrale… Persino su Marte, grazie alla missione rover telecomandato Opportunity, l’opinione pubblica era stata messa al corrente nel 2004 dell’improbabile esistenza d’infinite piccole sfere, disseminate nel deserto di un pianeta totalmente disabitato (per lo meno, allo stato attuale delle cose…)  Concrezioni come questa, ovvero formazioni mineralogiche che assumono naturalmente la forma di una sfera, tendono a prestarsi a molteplici interpretazioni. Forse per la loro forma “troppo” perfetta, oppure per il modo in cui ci ricordano che le leggi universali di conservazione dell’energia, plasmando il mondo degli oggetti fisici, lavorano per vie fin troppo simili alla mente umana. Possibile che si tratti sempre, in ogni luogo e contesto, solamente di una coincidenza? Sicuramente no, risponderebbe subito quest’uomo dall’inseparabile cappello in stile Panama ed il giubbotto di pelle, definito a più riprese l’Indiana Jones bosniaco, e non soltanto per le particolari, quanto riconoscibili scelte in materia d’abbigliamento. Semir Osmanagić è attualmente un cittadino ed uomo d’affari di Houston, Texas, negli Stati Uniti, con all’attivo una laurea e un dottorato in materia d’archeologia, che ha più volte fatto ritorno nella terra natìa per trovare prove a sostegno della sua teoria più discussa: l’esistenza non documentata, risalente a decine di migliaia di anni fa, di una civiltà tecnologicamente avanzata in terra d’Europa, che avesse addirittura costruito grandi piramidi simili a quelle degli Egizi.
E ancora una volta, a voler prendere in esame la prova che ci viene presentata con metodo apparentemente scientifico, quest’uomo carico di capacità dialettiche sembrerebbe aver colpito pienamente nel segno: ecco qui, infatti, un macigno perfetto. Fatto emergere dal suolo della foresta di Podubravlje, e sottoposto all’occhio delle telecamere in tutto il suo maestoso splendore. Dalla circonferenza di un metro e mezzo circa, e il peso di almeno 30 tonnellate. È indubbio che l’oggetto, di un colore marrone-rossiccio che sembrerebbe presupporre un contenuto minerale di ferro, sembri un qualcosa di assolutamente incredibile, come una capsula spaziale, una palla per giganti, un generatore d’energie positive…Come pure, è importante ricordarlo, che cose simili siano già state ritrovate e ampiamente motivate. Senza bisogno di scomodare antiche civiltà o mitologie. Ma in Bosnia del resto, come sa bene Osmanagić, simili ritrovamenti hanno avuto una lunga storia pregressa. Rocce di forma sferica furono trovate, a partire dagli anni ’30, tutto attorno alla città di  di Zavidovici, e tutt’ora restano un’attrattiva per un certo numero di visitatori appassionati di misteri e antichità. Ce n’erano, ci spiega lui stesso in un articolo sul sito del suo “Parco delle Piramidi Bosniache” circa 80 a partire dagli anni ’30, prima di andare progressivamente perdute a causa dell’incuria e di una radicata credenza locale, che affermava che al loro intero fosse nascosto dell’oro. Così, una decade dopo l’altra, le palle sono andate distrutte, tutte tranne una minima parte. Tra cui quelle citate dalla dottoressa Colette M. Dowell, sul suo sito di filosofia alternativa Circular Times, nel quale ci racconta di aver visitato nel 2007 i terreni presso Zavidovici di un anziano di nome Samir, regolarmente battuti ed abusati dai turisti. Tutto ciò perché, fra gli antichi alberi, qui fanno capolino tra le frasche circa una ventina di sfere ed ellissoidi di vario tipo, dal diametro massimo di circa 60 centimetri. Un qualcosa che, per quanto si tenti di spiegarlo in modo razionale, non sembrerebbe poter esulare dall’intervento di una o più mano umane. Oppure…Di arti d’altra provenienza? Strano a dirsi, alcuni sembrerebbero pensare proprio questo.
Sfere come queste, del resto, sono tutt’altro che sconosciute al resto del mondo. Ed almeno in un caso celebre geograficamente collocato in Costa Rica, sarebbero proprio il tanto desiderabile làscito di una civiltà dei precursori…

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Uomo assaggia una razione militare risalente al 1959

MRE Info

Nelle botti piccole, questo è noto, c’è il vino migliore. E in quelle vecchie il più prezioso. Ma esistono bottiglie, a questo mondo, che tu non berresti mai, neppure in presenza di un’etichetta fra le più prestigiose, o con la garanzia che viene dal profondo di una celebre cantina. Semplicemente perché è il loro stesso aspetto, a renderle poco invitanti: quando persino lei, la più amata delle bevande alcoliche, è stata tenuta in condizioni di stoccaggio inadeguate, a una temperatura superiore a quella ideale, ed ha assunto quell’aspetto torbido di una coltura di batteri, che si accompagna al gusto metamorfizzato del volgare aceto…Ma ora immaginate, per mero esercizio comparativo, di essere degli enogastronomi consumati, con alle spalle una carriera vasta come il mare, e di ricevere all’improvviso la notizia che da oggi, sarà totalmente impossibile bere vino precedente all’anno 2000. Perché? Hanno scoperto, diciamo, che fa male. A quel punto, potreste davvero abbandonare la vostra passione, così di punto in bianco? (il rosso e il nero!) E dimenticare quella letterale montagna di aromi e sapori, potenzialmente sviluppati attraverso la ruota dei mesi, che derivavano dagli anni ed anni di sapiente attesa…
Ebbene, questa è sostanzialmente la situazione vissuta, quotidianamente, dagli appassionati di un particolare tipo di esperienza alimentare, che incorpora in se stessa un differente studio della storia, il gusto estremo di una prova di coraggio, addirittura, in un certo senso, il collezionismo propriamente detto, delle scatole o lattine di contorno. Persone come il qui presente Steve1989 MREinfo, che pratica occasionalmente la degustazione dei pasti pronti degli ambienti militari, le cosiddette razioni C, pensate per sostituire il cibo fresco (razione A) o quello confezionato e da cuocere (razione B) in tutti quei casi in cui ci sia una guerra da combattere, o ci si trovi in missione solitaria presso luoghi selvaggi e/o remoti – il Polo, l’Equatore, così via. Un vero e proprio hobby, che tuttavia richiede l’insolita capacità di mandare giù qualsiasi cosa, indifferentemente dall’aspetto e dalla provenienza. Questione chiaramente esemplificata dal suo recente video qui mostrato, relativo ad una rara MRE (Meal, Ready-to-Eat, in realtà un’antonomasia ripresa dal nome del prodotto americano) preparata originariamente nel 1959 per le forze aeree canadesi, e che almeno stando a quanto ci viene fatto notare, sembrerebbe aver subito condizioni di stoccaggio meno che ideali. Il sospetto viene già dal primo sguardo, dato all’affascinante lattina di un retrò verde oliva, chiusa con lo scotch per una spedizione più sicura, che appare ammaccata e scolorita, a causa degli anni trascorsi dentro a qualche derelitto magazzino. Una volta aperta, sotto un breve pamphlet con informazioni generiche di sopravvivenza, si realizza il primo shock estetico: tra due masse nerastre, di provenienza indefinibile, campeggia una doppia fila di quelle che sembrerebbero delle grosse e variopinte caramelle gelatinose, generalmente incluse nel menù per il semplice fatto che i carboidrati sono assimilabili dal nostro organismo con quantità d’acqua relativamente ridotte, e in più tali cibi si conservano anche molto, molto a lungo. Entrambi grossi vantaggi, nello specifico contesto qui descritto. Negli ambienti statunitensi esisterebbe tuttavia una diffusa diceria, secondo cui mangiare l’equivalente locale prodotto dalla compagnia Charms sarebbe un gesto latòre di sventura. Probabilmente una leggenda derivante dal sapore di detti dolciumi, che benché apprezzabili dai bambini, in condizioni di consumazione occasionale, così inseriti all’interno di un vero e proprio pasto con finalità di fare da contorno alla portata principale, tutto fanno, tranne che aiutare l’appetito. Di noi comuni mortali. Ma vogliamo parlare, dunque, di quest’ultima essenziale componente? Il cupo ammasso in corso di disfacimento (ma non maleodorante, un ottimo segno!) che Steve si trova a definire, a nostro beneficio, come l’approssimazione di un fruit cake! D’accordo, hai mordicchiato un dolcetto ormai diventato duro come il diamante, oppure due, ma di certo non oserai…

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La zucca ripescata dal baratro dell’estinzione

Cool Old Squash

Una storia…Possibile. Aprire l’equivalente americano di una tomba etrusca, nei territori di un’antica riserva, e ritrovare in mezzo ai resti un piccolo vaso di ceramica, attentamente sigillato e risalente al tempo trascurabile di circa 800 anni fa. Per poi scuoterlo, e sentire che al suo interno c’era qualcosa. Che si muove-va. Certo, di fronte all’ampia corsa delle ruota dei secoli e millenni, un simile intervallo cronologico inferiore a un soffio di drago può sembrare relativamente poco significativo, ma pensate a quante specie di animali e piante, in un simile periodo, hanno trovato il modo per estinguersi, privandoci per sempre della loro vista e/o sapore. A fronte di simili considerazioni, quale sarebbe la cosa migliore da trovare dentro a un tale misterioso recipiente, se non semi, semi belli grossi e ancora pronti a fare quello per cui erano nati. Esattamente come il giorno della loro sepoltura, all’altro lato di una siepe metaforica così tremendamente alta, quanto ardua da potare.
Nella serie di romanzi e film Jurassic Park, gli scienziati ricreavano gli antichi mostri preistorici a partire da minuscole quantità di sangue, ritrovate all’interno dell’ambra assieme alle zanzare. Ora, questo approccio nella realtà dei fatti non potrebbe funzionare, per diverse quanto valide ragioni. Punto primo: alla morte di una cellula, questa inizia a disgregarsi. Microbi ed enzimi, lavorando alacremente, si assicurano che ogni minima parte costituente venga riciclata nella progressione naturale delle cose, lasciando ben poco di integro ed utilizzabile per una clonazione. Punto secondo: anche se si riuscisse nell’improbabile impresa, resterebbe il problema di far sviluppare l’embrione all’interno di un uovo, le cui caratteristiche biologiche restano tutt’ora largamente ignote. Non è certamente percorribile, ad esempio, la strada del trapiantare un embrione di coccodrillo all’interno di un guscio di gallina, o viceversa; troppo diversi risultano, nei fatti, i nutrienti contenuti all’interno delle rispettive micro-camere d’incubazione. A meno di praticare l’alchimia, ottenendo qualche chimerica creatura, che forse sarebbe stato meglio riservare alle cronache e i bestiari risalenti al Medioevo. Morire, ibernarsi e prepararsi a superare i secoli, attraverso l’impiego di una forma simile ad un minerale. Per tornare, un giorno, a popolare le distese erbose del pianeta? Non importa quanto sia affascinante in teoria un simile proposito, le forme di vita appartenenti al regno animale (e superiori a qualche micron di stazza) semplicemente, non funzionano così. Il che implica inevitabilmente, leggendo tra le righe, che nel caso in cui dovesse sopraggiungere un qualche tipo di nuova catastrofe ecologica planetaria, le uniche creature che potremo portare con noi oltre la soglia dell’apocalisse saranno quelle in grado di sopravvivere contando sulle proprie forze, ovvero tutte quelle risorse passive che vengono guadagnate grazie al succulento frutto dell’evoluzione. Lungamente, faticosamente maturato, esattamente come quello della Cucurbita Maxima, una pianta che noi definiamo, nella sua versione per così dire addomesticata, con il termine generico di “zucca”. Ma ce n’erano di molti tipi, prima che le leggi del mercato imponessero la sopravvivenza di soltanto quelle particolari varianti in grado di dimostrarsi più gustose, resilienti e prolifiche nei campi. In particolare questo nobile vegetale, che proviene dalla Cucurbita andreana del Sudamerica, fu trasportato in epoca pre-colombiana attraverso molteplici scambi commerciali, fino a giungere nei territori degli odierni Stati Uniti e Canada. Dove le diverse tribù native, tra cui gli Arikara del North Dakota, i Naticoke del Delaware, i Menominee del Wisconsin… Ne selezionarono particolari esemplari, ottenendone nei rispettivi territori una versione specifica e personalizzata per i propri gusti e le necessità locali. Ma mentre l’erba cresce, i contesti mutano i propri presupposti, e quelle che erano delle tribù del tutto indipendenti finiscono per integrarsi, dando vita a nuove stratificate realtà sociali. Il che può dirsi spesso positivo, tranne che per un piccolissimo dettaglio: a tendenza delle rispettive zucche ad ibridarsi tra di loro, se soltanto i coltivatori dimostrano l’ardire, o l’impudenza, di piantarle a meno di un chilometro di distanza. Poco male? Come si dice, panta rei: tutto scorre. Ma è indubbio che se in un luogo un tempo c’erano due piante, e adesso sopravvive unicamente la risultanza del loro accoppiamento, qualche cosa è andato irrimediabilmente perso. A meno che non si verifichi un mirabolante colpo di fortuna…

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A pesca di carri armati negli acquitrini della Russia

T-34

Un nuovo brivido percorre i freddi spazi tra le case del villaggio di Malakhovo vicino Pskov, nella Russia europea settentrionale. “Sono arrivati, finalmente! Gli Ariyergard stanno per immergersi nella palude!” Come, chi? Quelli “della Retroguardia” un gruppo di appassionati cercatori, ex-militari in congedo, sportivi ed archeologi in erba, forniti di tutte le risorse necessarie, sia in termini di know-how che dal punto di vista più prosaicamente finanziario, per ripescare un tipo assai particolare di ponderoso dinosauro, che caplestava queste stesse lande circa una sessantina di anni fà. La Preistoria: uno stato mentale, ancora più che un’epoca cronologicamente definita. Basta, dopo tutto, un periodo di feroce barbarismo, in cui l’uomo ridiventa la creatura in lotta per il territorio, contro agenti ostili provenienti da quell’altra parte, perché si frapponga un muro divisorio tra quello che era, ciò che sopravvive limpido e indefesso. Ciò dicevano gli anziani dell’oblast, a chiunque transitasse nel remoto Malakhovo. Insieme a un’altra storia, così strana, e al tempo stesso stranamente tipica di questi luoghi. Recitata in modo enfatico dal vecchio Vasiliy, oppure Boris, o ancora quel vulcano di Anatoly: “Le tracce, le ricordo molto bene. Segni di cingoli, vicino al bassopiano paludoso, che avanzavano sicuri verso il tratto più pericoloso. Dove le nostre capre vanno a scomparire, risucchiate via nel buio dell’oblio. Il segno di qualcosa di grosso che…Entrava. Per non uscire mai più. E poi, le bollicine d’aria. Proprio lì, per circa un mese, quando andavo a fare scampagnate da ragazzo; come di un grande recipiente gradualmente intento a riempirsi…” Indubbiamente, molto strano. Per quello che sappiamo dei dinosauri sommersi, fuoriusciti ad esempio dai pozzi di catrame di Rancho Las Breas vicino Los Angeles, della loro forma sopravvive sempre molto poco. Appena qualche osso sbiancato dalle epoche, che difficilmente potrebbe contenere l’aria sufficiente a far le bolle per diverse settimane. Nè del resto, qui stiamo parlando di creature come le altre. Un portavoce storico della Prima Divisione Carristi della Turingia, successivamente alle dure avventure vissute verso la seconda metà del 1941, scriveva in questo modo: “Quei [carri armati russi] erano davvero qualcosa di mai visto prima. La nostra compagnia fece fuoco alla distanza di 700 metri, senza ottenere nessun risultato. In breve tempo, ci ritrovammo a 100 metri, continuando a mandargli contro tutto quello che avevamo. Ma le nostre migliori munizioni non facevano che rimbalzare contro quelle solide armature! Il nemico ci stava oltrepassando senza nessun tipo di problema, puntando dritto contro la fanteria, del tutto inerme ed indifesa.”
Proprio così. In nessun altro momento della storia dell’uomo, dei mostri (meccanici) sono stati tanto prevalenti come quando le fabbriche sovietiche sfornavano a regime uno scafo dopo l’altro di pesanti ed economici T-34 o gli inamovibili titani d’acciaio della serie KV. Tanto che l’esercito della Wehrmacht tedesca, impegnato nella fallimentare operazione Barbarossa, pur essendo pienamente cosciente della propria superiorità strategica ed operativa, trovandosi di fronte a tali cingoli sapeva di doversi ritirare o tentare vie d’approccio alternative: il tipo di armi montate a bordo dei Panzer III e IV semplicemente non sortivano effetti di alcun tipo. Ed è quindi davvero comprensibile, come per i nostalgici (a torto o a ragione) di quella che oggi viene in certi ambienti definiti la Grande Guerra Patriottica, il ritrovamento di una queste creature sia un’occasione entusiasmante, meritevole di grande impegno personale. Per citare il più avventuroso degli archeologi, con frusta e cappello come accessori: “Quel [carro armato] dovrebbe stare in un museo!” E se mai c’è qualcuno che aveva preso in particolare antipatia il nazionalismo tedesco di allora…Oltre ai serpenti, s’intende?!
È una scena piuttosto epica, complice la colonna sonora, e davvero coinvolgente: il sommozzatore degli Ariyergard riemerge dalla fangosa propaggine del Lago dei Ciudi, confermando la testimonianza dei locali. A questo punto, giunge sulla scena il fido trattore dell’organizzazione, un potente bulldozer Komatsu D375A-2, occasionalmente preso in affitto dalla compagnia AS Eesti Polevkivi. Si stendono ed assicurano i cavi, inizia il rombo dei motori. Gradualmente, qualcosa si comincia a intravedere…

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