La giungla nelle tenebre del sottosuolo vietnamita

“Attenzione ai dinosauri” recita la mappa fornita dalla compagnia di tour al gruppo di visitatori, nel punto in cui dovrebbe identificare il nome dell’ennesima dolina, abbastanza ampia da contenere un Boeing 747 in volo. Ci troviamo, dopo tutto, nella grotta più vasta del mondo, una scoperta particolarmente recente sotto il massiccio di Phong Nha Ke Bang, all’interno del’omonimo parco naturale. Non particolarmente accessibile: oltre chilometri e chilometri di giungla, tra pareti scoscese e significativi dislivelli, con l’accesso nascosto massicci alberi e tronchi caduti. Scrutando per qualche minuto lo scenario, non è difficile comprendere l’origine dell’annotazione semi-seria, offerta per la prima volta come termine identificativo da parte degli speleologi della British Cave Research Association, guidati fino a questo punto da uno scopritore locale nel 2009, il primo ed unico essere umano ad aver notato l’ingresso di questi luoghi quasi 20 anni prima di quella data. I membri del piccolo gruppo di spedizione, ciascuno dei quali aveva speso l’equivalente di circa 3.000 dollari per soli 5 giorni d’avventura, si trovavano ai piedi di un alto sperone di roccia, che a uno sguardo più approfondito si rivelava essere una stalagmite; alta, tuttavia, l’equivalente di un palazzo di 10 pieni. Altre torri simili sorgevano nel panorama visibile, perfettamente illuminato da quella che poteva essere definita solamente un’apertura nel tetto della caverna. I raggi di luce, penetrati fino a tale notevole profondità, illuminavano una scena senza precedenti: molte migliaia d’alberi, arbusti non dissimili da quelli della superficie, crescevano sul suolo friabile di questa città segreta della natura, spingendosi con la loro presenza fino ai pertugi periferici e l’ingresso delle gallerie. Al di sotto del bordo superiore, distante ed indistinto, alcuni accumuli vaporosi di condensa, sostanzialmente indistinguibili da vere e proprie nubi del cielo. Questo era, a tutti gli effetti tranne quello letterale, il Mondo Perduto di Arthur Conan Doyle, un luogo separato dalle comuni norme della logica e l’evoluzione, dove tutto appariva possibile, persino scorgere la testa crestata di un diplodoco tra le fronde, mentre uno pterodattilo lancia il suo stridulo richiamo. E benché la realtà faunistica del luogo sia comparabilmente piuttosto ordinaria, con uccelli, scimmie e serpenti nelle aree esposte alla luce del Sole, nonchépipistrelli, pesci e millepiedi albine nei pertugi più profondi ed oscuri di questo labirinto, è indubbio che qui ci si trovi di fronte a una sorta di capsula temporale, che dispone in maniera ordinata di fronte allo sguardo degli studiosi i processi geologici millenari che hanno portato, attraverso le generazioni, alla formazione paesaggistica della penisola vietnamita. Siamo ad Hang Sơn Đoòng, la caverna del fiume nella montagna; il più vasto complesso sotterraneo del mondo.
Di certo Hồ Khanh, che allora si guadagnava faticosamente da vivere come boscaiolo abusivo nell’area del parco, non aveva in un primo momento compreso la natura di ciò che si era trovato di fronte. Quando, nel 1991, si fece una nota mentale di questo pertugio misterioso, reso inaccessibile da un corso d’acqua che sgorgava possente durante la stagione dei Monsoni. Eppure per qualche ragione molti anni dopo, durante la visita del gruppo di esploratori inglesi, si ricordò di questo luogo, offrendosi di accompagnarli per documentare l’esempio precedentemente ignoto di carsismo in questa zona ricca di arenaria, in cui vasti ambienti sotterranei costituivano il viale d’accesso a conoscenze nuove. E di scoperte questo gruppo ne fece parecchie, con 11 grotte battezzate per la prima volta, di cui due dedicate a Hồ Khanh e sua figlia Thai Hoa. Ma per lo meno in un primo momento, la ricerca del misterioso luogo fu del tutto infruttuosa. Finché alla ripartenza degli stranieri, l’abitante della giungla riformato a guida turistica non s’inoltro per un’ultima volta, da solo, riuscendo fortunatamente a ritrovare quel pertugio: nel giro di pochi giorni, l’equipe guidata da Howard Limbert fece il suo precipitoso ritorno, inclusivo di trasferta in aereo e lunga camminata nella giungla fino al villaggio di Phong Nha. E da lì tra le montagne, per approcciarsi alla tenebra, questa volta, con attrezzatura d’avanguardia e provviste, pronti ad andare realmente a fondo nell’intera questione. Era il 14 aprile del 2010: nessuno sapeva, realmente, che cosa lo aspettava durante il viaggio nelle viscere del mondo.

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Le date in cui spariscono le ombre dei pali

Una foto può essere bella perché inspiegabile, però diventa ancor più memorabile, quando la sua stranezza approda nel porto sicuro della scienza astronomica, trovando il nesso e il senso della sua stessa esistenza. Questa è la scena: dal candido asfalto di una strada dell’isola di Oahu, quattro estrusioni metalliche gialle, del tipo generalmente collocato per agire come deterrente contro gli automobilisti maleducati, disegnano una linea immaginaria trasversale rispetto all’angolo di ripresa. Impossibilmente, essi sembrano fluttuare in corrispondenza di un punto indeterminato del pavimento. Perché… Non hanno ombra. Gli oggetti non presentano alcun tipo di ombra! Eppure, non si tratta di un’immagine elaborata al Photoshop, né lo screenshot di un videogioco con i dettagli grafici al minimo (anche se sembra entrambe le cose) soprattutto una volta considerato come un’automobile ed un distributore di bibite, ripresi ai margini dell’inquadratura, presentino la regolare zona scura al di sotto della loro tangibile opacità. La svista o stregoneria, miracolo o anomalia che dir si voglia, sembra ledere soltanto le convenzioni in materia di cose dritte, verticali e possibilmente, gialle. Tutto vero tranne l’ultimo punto e tutto dovuto, neanche a dirlo, alla grande lampada che risiede nel cielo. Il giallo, accecante Sole, sferoide fiammeggiante al di là del tempo iperboreo, che determina i giorni in funzione del movimento meccanico di un sistema. L’orologio cosmico dei pianeti di cui noi siamo, da un certo punto di vista, il fulcro pensante in questo piccolo angolo di cielo. Non le balene, con la loro saggezza profonda e la flemma delle epoche sommerse ed oscure; non le rapide scimmie, alla costante ricerca di soddisfazione immediata; e di certo neppure i corvi ed i pappagalli più introspettivi, benché essi completino la carrellata delle specie animali pensanti sul nostro pianeta. Soltanto gli appartenenti alla genìa degli umani, attraverso determinati passaggi della Storia, furono in grado di acquisire il segreto dell’occulta, eppure palese realtà.
Certo all’epoca di Eratostene (filosofo greco, terzo secolo a.C.) nessuno usava chiamarlo “mezzogiorno di Lahaina” per il semplice fatto che la parola Lahaina, per quanto ne sappiamo, ancora non apparteneva ancora al linguaggio comune di alcun popolo noto. Né kau ka la i ka lolo, che in lingua hawaiana significa “il Sole che batte sopra il cervello” eppure il fenomeno era noto, e annotato con grande attenzione dall’intero popolo di chi aveva un sufficiente spirito d’osservazione. Tanto che a lui, bibliotecario presso la grande collezione libraria della città di Alessandria, capitò di leggere un resoconto, proveniente dalla città di Syene 5.000 stadia (800 Km) più a meridione, in prossimità delle coste del Mar Rosso, in cui si parlava di uno strano fenomeno visuale. Quando, due volte l’anno in periodi dall’estrema regolarità, in prossimità del solstizio d’estate, tutte le ombre delle colonne del tempio sembravano scomparire, assieme a quelle degli obelischi e le altre strutture verticali, mentre la luce penetrava all’interno dei pozzi, illuminandone il fondo in maniera palese. Questo perché, benché non fosse ancora possibile determinarlo, Alessandria e Syene si trovavano rispettivamente al di sopra e al di sotto di quella linea immaginaria, che oggi prende il nome di tropico del Cancro. Che poi sarebbe l’esatta definizione geografica, assieme al sottostante tropico del Capricorno, dell’area entro cui il sole può trovarsi esattamente allo zenith, in funzione dell’inclinazione a 23,5° dell’asse di rotazione terrestre. O per usare un termine anglofono spesso frainteso, il cosiddetto high noon, che non è come spesso viene tradotto, semplicemente il mezzodì. Ne ciò che ha finito per indicare, tramite il fenomeno dello slittamento semantico coadiuvato da stereotipo cinematografico, ovvero l’ora fiammeggiante in cui si sfidavano a duello i feroci pistoleri del Far West. Bensì quello specifico momento, che capita esattamente due volte l’anno, in cui ci si trova nell’esatto punto sub-solare, e tutte le ombre cadono in maniera perfettamente verticale al di sotto dei nostri piedi. È perfettamente geometrico, un’esperienza quasi trasformativa: le persone vengono stampate in maniera esatta, con persino la forma del naso visibile sul pavimento. Gli animali quadrupedi, come i cani, appaiono a guisa di lucertole o insoliti coccodrilli. E i pali…Beh. Immaginate voi, di avere una forma perfettamente regolare, e una base d’appoggio larga più o meno quanto la sommità. La prova non è difficile da fare, neppure in casa: prendete una lampada mobile e puntatela sopra una penna, precedentemente disposta in equilibrio sulla superficie piana del suo cappuccio. Non ci metterete molto, a replicare il mirabolante fenomeno della sparizione dell’ombra di Peter Pan. Ma su scala maggiore, tutto appare assai più significativo e ricco d’implicazioni ulteriori. Non soltanto quelle dei benedetti cow-boys sanguinari, che in effetti aspiravano a un tale momento, per quanto possibile al di sopra dei tropici, allo scopo di raggiungere l’assoluta parità d’illuminazione, mirando…

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L’intelligenza artificiale del drone anti-squalo

Immaginate uno scenario in cui qualcuno è stato incaricato di premere un pulsante. Non a intervalli regolari, come nel bunker del telefilm Lost, bensì con uno scopo e metodologia precisa: ogniqualvolta il pulsante viene premuto, una vita umana sarà salvata dall’assoluto baratro della dannazione. Questa persona, coperta di una simile assurda responsabilità, dovrà osservare la specifica comparsa di uno spettro affusolato nel mare. E soltanto al riconoscimento di tale diabolica essenza, intervenire. Per le prime settimane o mesi, volendo presumere di trovarci di fronte ad un individuo dall’alto tenore professionale ed equilibrato, tutto procederebbe speditamente. Ma dopo il primo inevitabile errore, costato la vita ad un innocente, il guardiaspiaggia inizierebbe ad irrigidirsi; il giorno a seguire, inizierebbe a premere il pulsante anche in momenti erronei, con conseguente dispendio d’interventi superflui di salvataggio; e dopo la prima serie di errori, inizierebbe a mancare la trascurare segni evidenti dello spettro, causando ulteriori incidenti. La sua vita, ancor più di quella delle vittime, diventerebbe un inferno. Qualcosa di simile è stato scoperto negli ultimi due anni dall’amministrazione regionale del NSW (Nuovo Galles del Sud, Australia) secondo luogo al mondo per vittime degli squali dopo la Florida, capitale mondiale dei bagnanti assaggiati “erroneamente” dal pesce carnivoro per assoluta eccellenza. Da quando, nel 2015, dando il via libera ad un progetto per ridurre simili casi nel luogo che ne ha visti ben 295 a partire dal 1990, di cui 122 fatali, il governo di Sydney ha stanziato i fondi per attivare il più sofisticato sistema multi-canale nella storia dei sette mari. Con reti a ridosso delle spiagge, boe di rilevamento, esche avvelenate, una app per le notifiche sul cellulare e droni, dozzine di droni, prodotti in parte dalla compagnia Little Ripper, con sede a Belrose, non più di 25 Km a nord della grande città di Sydney . La quale, avendo creato anche una scuola per l’addestramento e la preparazione sul campo degli addetti al pilotaggio e rilevamento, ha avuto modo di rilevare come l’accuratezza delle vedette a distanza fosse sorprendentemente bassa, nell’ordine del 20-30% di squali avvistati correttamente, senza fare confusione con delfini, balene o grossi pesci di vario tipo. Il che ha portato, negli ultimi tempi, alla ricerca di una soluzione alternativa: e se fossero i computer ad occuparsi di questa mansione?
Fa il suo ingresso in scena, a questo punto della tragedia, il team di ricerca del Prof. Michael Blumenstein, direttore della scuola di software nel dipartimento di scienze informatiche dell’Università Tecnologica di Sydney. Figura attiva nel campo dell’intelligenza artificiale, ma sopratutto, nell’ultima nuova branca di questo ambito, le reti neurali. Coadiuvato tra gli altri da un’altro ricercatore di origini indiane, il Dr. Dr Nabin Sharma, già produttore di algoritmi simili per il riconoscimento delle grafie orientali.  Fino a poco tempo fa, eravamo abituati a considerare lo strumento delle entità frutto della programmazione umana come ottimo per gestire i numeri, mediano con le parole, e pessimo per quanto concerneva l’interpretazione delle vere e proprie immagini, attività totalmente ingestibile senza possedere la preziosa fiamma del ragionamento autonomo, puro appannaggio del regno animale. Questa situazione, con gli ultimi progressi nella rapidità di calcolo e lo spazio d’immagazzinamento dati, è stata negli ultimi tempi notevolmente mitigata. E questo soprattutto grazie alla metodologia dell’apprendimento profondo, codificata nella prima volta nel 2006, ad opera degli scienziati Hinton e Salakhutdinov, che hanno scoperto come l’intelligenza artificiale potesse essere suddivisa in strati, e ciascuno di essi addestrato come una macchina stocastica di Boltzmann priva di supervisione. Il che significava, in parole povere, sottoporgli come possibile scenario di utilizzo una quantità spropositata di interpretazioni dello stesso soggetto, concetto o immagine, finché il computer non diventasse in grado di riconoscerlo ed interpretarlo in totale autonomi. In quello che si potrebbe definire, non senza un certo timore reverenziale, la vera scintilla della vita creata in laboratorio. Macchine che possono salvarci oppure distruggerci, dunque, come profetizza più di qualcuno, ma che soprattutto nel frattempo, possono agire per semplificarci notevolmente la vita. Ed in qualche caso risparmiarci l’incontro con belve feroci del più mordente tipo…

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Questa mosca nera salverà il mondo

Nello studio del ciclo vitale di un insetto, c’è sempre il momento in cui ci si trova di fronte all’affermazione: “Quindi la femmina depone le uova e si ricomincia da capo.” Bruco, farfalla, bruco. Libellula, larva, libellula. Niente può fermare o rallentare il bisogno funzionale di riprodursi né la pulsione a trovare un luogo idoneo a farlo. Ma per noi esseri umani è diverso. Poiché preponderante è in noi la necessità di raggiungere lo stato di benessere, le nostre priorità sono differenti. Piuttosto che preservare, consumiamo, invece che osservare le inviolabili norme della natura, le calpestiamo ricercando metodi per aggirarle. L’essere umano, allo stato attuale dei fatti, ha drammaticamente bisogno di aiuto, principalmente perché ha perso la capacità di occupare un raggio della grande ruota del cosmo. Ma piuttosto pretende di guidare il carro, puntandolo dritto verso il più profondo baratro dell’entropia. E chi potrebbe mai darcelo, se non i nostri amici artropodi, che per secoli interminabili abbiamo scacciato, bruciato, avvelenato ed odiato qualora invasivi, velenosi o sporchi… Eppure sentite a me, senza mai andare incontro ad un fato terribile, come quello che potrebbe aspettarli nelle prossime generazioni. Adesso che chi di dovere ha capito, finalmente, che essi possono essere prevedibili ed efficaci come una macchina che non si guasta mai. Soprattutto quando mangiano la spazzatura.
La mosca soldato nera (Hermetia illucens) diffuso in tutto il mondo nell’area tropicale e sub-tropicale, è un dittero piuttosto atipico, poiché una volta raggiunta l’età adulta non può più mangiare. La sua bocca viene rimpiazzata da una struttura ad uncino, che usa per fuoriuscire dal substrato e spiccare il volo, per un lungo periodo di due settimane durante le quali, salvo particolari sfortune, dovrebbe riuscire a trovare la sua compagna. In funzione principalmente di questo, la forma adulta dell’insetto (imago) non è infestante, né viene naturalmente attratta dalle abitazioni e dagli insediamenti umani. Nel caso in cui dovesse entrarti accidentalmente in casa, poi, non ha i riflessi straordinariamente rapidi delle mosche nostrane, non punge e può essere facilmente raccolta e lanciata fuori da una finestra. Una volta completato l’accoppiamento, quindi, la femmina va in cerca di una certa quantità di materia marcescente, che può essere di origine vegetale o animale, dove deporrà le sue uova. Poco dopo, muore. La sua numerosa prole, una volta emersa nel mondo a distanza di quattro giorni, avrà un aspetto e uno stile di vita molto diverso: piccole larve biancastre simili a vermi, create esclusivamente per mangiare e diventare più grossi, diventare il più grossi possibile nel giro di poco tempo. Chiunque conosca la leggendaria voracità dei pirañha, connessa all’immagine tipica (ma esagerata) della carcassa di mucca gettata nel fiume e fatta sparire nel giro di pochi minuti, ancora non potrà facilmente prevedere la velocità con cui le BSF (Black Soldier Fly) effettuano il loro lavoro di acquisizione e stoccaggio dell’energia. Nel tempo necessario a maturare, un metro quadrato delle loro larve consumerà 15 Kg giornalieri di materiale organico, qualunque sia la sua provenienza. A questo punto, capite di cosa stiamo parlando? Siamo dinnanzi a una risorsa potenzialmente fondamentale per il nostro futuro.
È naturale che nell’attuale scenario della spazzatura prodotta dal consumismo, questo tipo di rifiuti non occupi il primo posto tra le nostre preoccupazioni. Dopo tutto, gli scarti di cibo, le bucce della frutta e gli avanzi sono naturalmente biodegradabili, giusto? Beh, fino ad un certo punto. Benché i microbi presenti nell’atmosfera possano riuscire a scorporare molte di queste cose, in effetti, essi non riusciranno a farlo quando la maleodorante materia si trova pressata contro se stessa in situazione anaerobica all’interno una discarica, dove tenderà a decomporsi in maniera straordinariamente lenta. Generando, conseguentemente, ingenti quantità di gas metano, uno degli agenti più pericolosi nel riscaldamento terrestre. Così per eliminare il pattume ancora ricco di nutrienti, alcuni paesi si sono rivolti storicamente al suino. Ma i maiali richiedono spazio, lavoro ed attenzioni assolutamente non comparabili a quelle di un’ammasso di larve di mosche. E questo senza considerare il nesso finale della questione: alla fine, senza falla, vengono mangiati da noi. E chi vorrebbe mai consumare una carne che ha nutrito se stessa in siffatta maniera… Anche se, cosa forse piuttosto sorprendente, anche le larve di potranno entrare, in maniera indiretta, a fare parte della nostra dieta. Ne è la prova uno studio prototipico messo in atto dalla EAWAG, l’ente svizzero per lo studio e lo sfruttamento dell’acqua, nel distante arcipelago indonesiano…

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