A Carnevale, quando il diavolo cammina tra le strade boliviane

Carnival de Oruro

Difficilmente sarebbe possibile trovare, nell’odierna tradizione popolare di ogni luogo, una migliore antonomasia del concetto dell’umanità in festa ed estasi pressoché totalizzante, piuttosto che nell’occasione delle celebrazioni tipiche del carnevale sudamericano, che spesso incorporano mitologie e credenze pre-esistenti, per creare un mondo di colori rutilanti e splendide sfilate variopinte, dagli eguali alti meriti, sia esteriori che spirituali. Una categoria a cui senz’altro appartiene, pur essendo relativamente poco noto qui da noi, la grande festa annuale che si svolge a partire dal sabato prima del mercoledì delle Ceneri, collocato come da prassi del calendario in una data variabile tra l’inizio di febbraio e la prima decade di marzo, presso la prosperosa cittadina boliviana di oltre 250.000 abitanti che ha il nome di Oruru, equidistante dai due centri ben più popolosi di Sucre e la Paz. Durante il quale, i diversi distretti si organizzano con magnifici ed esagerati costumi, appartenenti a gruppi di danza mirati a rappresentare, di volta in volta, alcuni momenti significativi della leggendaria storia cittadina. Tra cui…
La più grande battaglia di tutti i tempi, l’ultimo capitolo di un eterno conflitto tra il bene e il male, gli avversi princìpi che nel corso delle epoche si trovarono a confronto in molti luoghi differenti della Terra. Scenari come l’antica sede della tribù degli Uru-Uru, sita in prossimità dell’omonimo lago nella parte sud-occidentale del paese dell’entroterra che confina con Perù, Brasile e Paraguay. Fu un momento, stando alla memoria orale di coloro che riuscirono a superare la tremenda crisi, assolutamente critico, ed al tempo stesso magnifico e glorioso. E che potrebbe dirsi l’allegoria del destino di un intero continente, il quale a seguito di quel momento, abbandonò gli antichi dei per camminare assieme all’uomo cosiddetto “bianco”. Una transizione che il senso comune di oggi tende a considerare con un certo grado di diffidenza, ricordando il destino di tante genti che non seppero, né vollero accettare la dottrina e l’etica cristiana. Ma che in questo caso, non è davvero difficile capirlo, trovò terreno fertile ed un luogo pronto a convertirsi con imprescindibile entusiasmo. Fu una catarsi di proporzioni, a dire poco, bibliche.
Non c’è una data precisa attribuita a questo evento, come per ogni vero mito che si rispetti, ma è lecito collocare storicamente l’azione attorno all’inizio del XVII secolo, quando il conquistador Don Manuel Castro de Padilla, giunto sin qui dalla Spagna di Filippo III (il sovrano detto “il Pio”) ebbe l’iniziativa di fondare in questo luogo una piccola colonia mineraria, ispirato dalla presenza di alcuni corposi giacimenti di argento e stagno, siti a 3709 metri dal livello del mare. La situazione socio-culturale della regione, a quell’epoca, era piuttosto complessa: fin dall’ormai distante era pre-colombiana, infatti, nell’intera regione del Perù settentrionale si erano susseguiti una variegata serie di divinità e credenze, di volta in volta esportate dall’antica cultura costiera di Wari, quindi prese in prestito, o secondo alcuni, imposte, dalle propaggini meridionali del grande impero degli Inca. Ma nel momento in cui simili sistemi di valori raggiungevano terre tanto remote, tendevano immancabilmente a perdere coesione, sperimentando spesso un cambiamento di significati e ruolo. Avvenne così che agli antichi spiriti degli animali venerati in questi recessi montani, come il dio-lucertola Arankani, la vipera Quwak e il rospo Jampatuqullu, si fossero affiancati, a partire da un’epoca risalente grossomodo all’anno 1000, anche due figure antropomorfe di matrice straniera: la prima maschile e profondamente avversa all’umanità, di nome WariDesam, mentre l’altra femminile e benevola, Apus waka. All’arrivo degli occidentali, quindi, e con l’iniziare della conversione al cristianesimo, tali mistiche entità tutto scelsero, tranne che restare quietamente in silenzio, ricacciate dall’imago della croce dentro le caverne o tra le rocce dei massicci andini.

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I magnifici misteri della trascrizione giudiziaria

How to Steno 101

Ventisei studenti silenziosamente riuniti dentro a un’aula, mentre l’insegnante legge un brano dei Promessi Sposi, poi commenta. Sarebbe assai opportuno, no, persino necessario, annotare sul quaderno il nesso e il succo del discorso, che sicuramente si presenterà di nuovo, in forma di domanda, all’ora di verifica verso la fine del semestre. Ed è quindi certamente vero, che scrivendo e riassumendo il vasto eloquio, trasformandolo in un minerale nato dall’inchiostro e dalla cellulosa, costoro stiano facendo soprattutto un gran favore a loro stessi. Ma è altrettanto giusto, se vogliamo, ribaltare la questione in senso longitudinale. Per vederla soprattutto in questo modo: c’è qui un colui/colei che dall’intero scambio partecipativo, riesce a trarre un ben più significativo beneficio. Eccolo lì, che parla dalla cattedra, compunto. Perché parole pronunciate per premura, per preambolo o primaria premeditazione, è loro massima prerogativa, spariscono immediatamente come il fumo. Mentre scriverle, vuol dire conservarle. Quale onore, vostro… E non si tratta di una cosa cui si possa rinunciare, in determinati tipi di contesti ancor più delicati. Tra cui quello, antico e imprescindibile, in cui l’aula deputata è di un tutt’altro tipo. Dove c’è un giudice, chiamato per decidere del fato della gente. Dando un peso a ciò che viene detto, veramente, estremamente significativo.
È un meccanismo complesso che ormai conosciamo molto bene, soprattutto ad una ricca selezione di opere d’ingegno, quali film, romanzi, serie a medio budget per la Tv. La cui provenienza prevalentemente americana, persino qui da noi nella penisola distante, appare estremamente chiara dalla tipica struttura: l’uomo sull’alto scranno con il martelletto, posto innanzi a una giuria, rigorosamente scelta tra il popolo in maniera casuale. Due avvocati, l’accusa e la difesa, dall’eloquio particolarmente spigliato e accattivante. E mentre gli occhi vagano, irrimediabilmente attratti da quella figura in prima fila, l’imputato del processo, diviene facile da trascurare la figura dell’agente di trascrizione, un uomo o una donna (tradizionalmente, la seconda) che appare impegnata nel suonare una bizzarra quanto inaudibile sinfonia. Su uno scomodo sgabello o una seggiolina, rigorosamente priva di braccioli, mentre dinnanzi a lei, su di un rigido treppiede, si erge quella che potrebbe anche sembrare una piccola macchina da scrivere, se non fosse che vi sono troppi pochi tasti, nonché di natura estremamente poco chiara. Come nel Gibsoniano “deck da cavaliere del cyberspazio” (Neuromante – 1984) qui non servono caratteri numerici o figure delle lettere da premere con alcun fine. Ma soltanto quadratini plastici, ciascuno con la sua funzione bene impressa nella mente e nelle mani di chi dovrà premerli in sequenza, per…Scrivere, ovviamente. Che altro? Ma non un semplice discorso. Bensì molti, spesso in parallelo tra di loro, pronunciati a ritmi svelti o pacati, con inflessioni dialettali o specifici slang di quartiere. E a ragione per cui è possibile riuscire in una tale ardua missione, nonostante i duri presupposti, sono in egual misura merito della persona e della macchina, ovvero sarebbe a dire, di colui che quella cosa ebbe modo di progettarla tanto tempo fa, come espressione ingegneristica del suo particolare campo d’interessi. Ed è significativo notare come anche nella macchinetta da stenotipia del video di apertura, del tutto conforme all’originale progetto americano del Sig. Ward Stone Ireland, risalente al 1906, si riesca ad intravedere lo stesso progetto funzionale dell’italianissima Macchina Michela, costruita nel 1878 dall’insegnante ed inventore Antonio Michela Zucco, con la finalità specifica di essere impiegata per trascrivere le sessioni del Regio Senato Italiano, continuando poi ad essere impiegata con la sua rifondazione come Senato della Repubblica, a seguito del passaggio dell’Eroe dei Due Mondi. Giungendo infine, con poche significative modifiche, virtualmente identica fino ai nostri giorni. La stessa nota relativa a questo meccanismo riportata sul nostro sito istituzionale, si apre orgogliosamente con uno stralcio di missiva di Giuseppe Garibaldi scritta a Caprera il 16 dicembre 1877, contenente il semplice messaggio: “Desidero che l’utilissima scoperta del professor Michela sia messa in opera”. Ma cerchiamo di capire adesso, anche grazie al video esplicativo di apertura, la maniera in cui funzionino questi dispositivi.

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Le due armi più importanti della storia d’Inghilterra

Kevin Hicks

Vivere il respiro dell’antico è un gesto innato, perché tutto quello ciò che siamo, abbiamo e visitiamo nel corso della nostra stessa vita, non è altro che l’espressione di un’eredità investita, la risultanza del trapasso di chi c’era prima. Eppure, persino con un tale approccio alla questione, non è facile comprendere i diversi stati d’animo, il senso logico e la provenienza di quell’ampio ventaglio di genti che costruirono, popolarono e colonizzarono le terre di un paese, almeno senza mettersi, metaforicamente o ancor meglio nei fatti, all’interno delle loro scarpe ed abiti, soprabiti o armature. Kevin Hicks, l’ex soldato veterano e poliziotto inglese fondatore dell’associazione culturale The History Squad, si presenta come un vero specialista in questo. Come certamente appare allo spettatore, nel guardarlo, mentre è all’opera nell’utilizzo estremamente abile di quello strumento semplice e letale, che si costituisce unicamente di un lungo listello di legno di tasso ricavato dall’esterno della pianta, affinché la parte esterna della stessa avesse modo di esprimere tutta la sua innata flessibilità, mentre quella interna, la resistenza. Coadiuvato da un filo di lino, usato per…Sarebbe davvero attraente, adesso esattamente come allora, attribuire la responsabilità delle maggior svolte storiche del Regno (che tale era e poi così è rimasto) al forte braccio dei pochi ed alle loro armi leggendarie: Gáe Bolg, la lancia del mitico eroe d’Irlanda Cú Chulainn, ricavata dalla costola di un mostro marino. O Excalibur, strale d’acciaio meteoritico misticamente risorto dalle acque di un lago. Per non parlare della spada Durendal del paladino bretone Roland, forgiata dal fabbro Waylander a partire dai denti e dai capelli degli stessi santi della cristianità. Con fiero ciglio, ed alto petto, il corpo esposto per colpire pericolosamente il pieno volto del nemico! Ma che può fare dopo tutto, persino il più forte dei guerrieri, per proteggersi da un singolo contadino che scagli ne suo cuore un dardo di metallo, da egli gettato in mezzo al pieno flusso degli eventi? Nulla, tranne perire. Lasciando il passo all’incedere dell’implacabile modernità.
24 ottobre del 1415, nella regione del Nord-Passo di Calais. Il nuovo sovrano d’Inghilterra, salito sul trono all’età di 26 anni, decide che è giunto il momento d’imporre la parola fine sul terribile conflitto sanguinoso, più volte interrotto e poi ripreso, che find dall’epoca di Edoardo III (1312-1377) stava sconvolgendo le terre al confine con la Francia. La nome di quel re, Enrico V. La sua impresa più famosa, una vittoria militare che avrebbe permesso ai suoi uomini di controllare a lungo termine quell’intera regione peninsulare con affaccio sulla manica, per un tempo che si sarebbe esteso fino al 1558, ben dopo la fine dell’interminabile guerra dei cent’anni. Stiamo parlando di Azincourt, la sua battaglia, e soprattutto per inferenza, di quello stesso strumento per uccidere che Mr. Hicks stava impiegando, con classe e spirito divulgativo d’eccezione, impiegava per colpire dritto nel bersaglio posto nel cortile del castello di Bolsover. A quei tempi, in effetti, non era semplicemente possibile pensare che un esercito, per quanto dotato di abili ufficiali, potesse marciare in terra straniera senza la presenza del proprio fiero condottiero per volere divino, in cui veniva proiettata nella sua interezza la responsabilità politica, militare ed allegorica del regno. E fu così che Enrico, affidato il compito di governare al fratello Giovanni, Duca di Beford, era partito con 1500 vascelli per la Normandia, scegliendo di approdare in quel punto storico di tutte le invasioni dell’Europa continentale, presente, passata e futura, ovvero le coste nei dintorni di Le Havre. Verso la fine dell’estate, con i suoi circa 15.000 uomini aveva assediato e conquistato Harfleur, e per evitare un disastro logistico stava già iniziando a dirigersi verso il porto francese di Calais, da cui imbarcarsi per fare ritorno in Inghilterra. Se non che fu allora che dinnanzi a lui, nel bel mezzo del terreno fangoso della campagna di Piccardia presso la località di Azincourt, incontrò una grande armata al comando di Carlo I d’Albret, luogotenente diretto del corrente re dei Valois, Carlo VI. La cui unica missione era sbarrargli la strada, con tutta l’autorità offerta da 50.000 armigeri pesantemente armati, inclusi circa 4.000 temutissimi balestrieri genovesi, nonché lo stesso stendardo reale della mitica Oriflamme, un drappo che si diceva intriso del sangue di San Dionigi e sotto la cui egida, l’armata di Francia non aveva mai perso un confronto in campo aperto. Così la sua campagna apparve, d’un tratto, in bilico sul ciglio del disastro…

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Lutto in Vietnam: è morta la tartaruga sacra di Hanoi

Cu Rua Turtle

Immaginate una situazione in cui il lago di Loch Ness, invece che trovarsi tra le verdeggianti valli delle Highlands Scozzesi, fosse collocato nel pieno centro storico di una città da tre milioni e mezzo di abitanti. E che non soltanto il suo occupante rettiliano più famoso fosse vero, lungo appena due metri e dotato di un guscio morbido e cedevole al tatto, ma collegato ad una serie di leggende non dissimili da quelle della leggendaria lama di Re Artù: proprio così. Nell’Hoan Kiem, il Lago della Spada Restituita, fino al recente 19 gennaio del 2016, viveva una tartaruga. Dell’età di almeno 100 anni. Dal riverito nome di Cụ Rùa, che significa letteralmente “bis-nonna tartaruga”. Collegata famosamente, attraverso il filo diretto delle reincarnazioni buddhiste, alla vicenda del nobile comandante Lê Lợi, che scelse di farsi imperatore nel 1428 dopo aver scacciato i tirannici usurpatori della dinastia cinese dei Ming. Grazie all’aiuto di niente meno che Kim Qui, il Dio-Tartaruga d’Oro, e dell’arma ricevuta in dono per sua intercessione dal Re Drago Long Vương. Ma esiste almeno un altro mito, altrettanto importante, sulle gesta della tartaruga del lago di Hanoi. Dallo sguardo di questo gruppo di curiosi, che nel 2010 accorsero per ammirare Cụ Rùa che era riemersa in superficie mostrandosi per una volta al mondo, un evento raro, ben si capisce l’importanza avuta da queste vicende semi-storiche nella cultura popolare vietnamita, ed altrettanto chiaramente, del probabile dispiacere avuto dalla popolazione cittadina alla notizia che il grande animale, per cause tutt’ora largamente ignote (ma si sospetta la vecchiaia) avesse infine lasciato questo mondo, in una mattina di gennaio all’apparenza priva di significanza allegorica o particolari prodigi. E dire che difficilmente, fra tutte le nazioni della Terra, poteva dirsi esistere una creatura in grado d’influenzare a un tale punto le registrazioni degli eventi storici e l’antica mitologia…
Tutto iniziò intorno al 200 a.C, quando il re An Dương Vương, unificate le tribù del vasto territorio di Âu Việt (l’odierno Vietnam) aveva costruito una cittadella imprendibile con la forma di una spirale, denominata Cổ Loa, presso l’attuale periferia della capitale di Hanoi. E da qui egli ebbe modo di regnare indisturbato, ponendo le basi per una grande e duratura prosperità, finché a partire dal 206 a.C, con l’inizio in Cina della grande dinastia degli Han, non sopraggiunse la necessità di difendersi strenuamente dal generale in fuga Zhao Tuo, che avendo servito i precedenti governanti, adesso era in fuga, e cercava nuove terre in cui far stabilire le sue armate più fedeli, sfidando gli stati vassalli del distante meridione. Ma si dice che la fortezza stessa del re del Vietnam fosse magica, e che egli, dopo aver fallito per più volte nella sua costruzione, avesse pregato e bruciato incenso per molti giorni e molte notti, finché al suo cospetto non giunse a palesarsi proprio lei, la tartaruga Kim Qui, che gli offrì assieme alla propria benedizione un artiglio della zampa, che sarebbe stato usato per costruire un’arma invincibile da parte di qualunque aspirante invasore. Si trattava di una balestra magica, in grado di far fuoco a ripetizione. Usando quindi l’imprendibilità delle sue alte mura, assieme alla forza di una tale arma tecnologicamente avanzata, An Dương Vương riuscì a respingere gli invasori cinesi per un lungo periodo di 10 anni, finché la situazione non fu capovolta grazie ad uno stratagemma. Il sovrano infatti aveva una figlia, la principessa Mỵ Châu, che si era innamorata dell’erede stesso del capo nemico, Trọng Thủy e che, per benevola intercessione dei rispettivi genitori, gli venne promesso in matrimonio. Ora costei, secondo il mito, si dimostrò tanto ingenua, o intenzionalmente traditrice, da parlare durante un incontro con Zhao Tuo in persona dell’esistenza della balestra magica, in modo che quest’ultimo, tramando nell’ombra, potesse far entrare delle spie nell’imprendibile cittadella di Cổ Loa, per sostituirla con un’arma più comune. E la missione riuscì. Nel corso del successivo assalto, trovandosi all’improvviso privo del suo aiuto sovrannaturale, il re non fu più in grado di proteggere il suo popolo, e fu costretto ad una fuga precipitosa dalla porta sul retro, assieme a tutta la sua famiglia, inclusa Mỵ Châu. Secondo alcune versioni del mito, mentre i due si trovavano a cavallo nei dintorni di un fiume, il dio rettile Kim Qui riemerse all’improvviso dalle acque, soltanto per pronunciare all’indirizzo del re queste precise parole: “La tua unica vera nemica… Si trova dietro a te, in questo momento!” Comprendendo finalmente cosa fosse realmente successo, con un solo fluido colpo di spada, il sovrano decapitò la sua stessa figlia, poi si gettò nelle acque dove scomparve, assieme alla tartaruga. Nessuno l’avrebbe più visto fra i mortali.

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