L’alveare umano alle porte di Hong Kong

Kowloon Walled City

L’essere umano: creatura sociale il cui pari, assai probabilmente, il mondo degli organismi complessi non aveva mai conosciuto. Perché i polipi del corallo, i sifonofori degli abissi che formano colonie simili a meduse, o le formiche ed api in superficie, possono aggregarsi tra di loro grazie ad una predisposizione genetica innata, ma non potrebbero mai sopravvivere in solitudine. Mentre noi bipedi dall’andatura dinoccolata, abbiamo la capacità di operare scelte in merito nelle nostre alterne vite, tali da permetterci, altrettanto facilmente, di essere come l’albero solitario del deserto del Teneré, oppure un elemento fra i tanti dell’eterno bosco di querce, distrutto e ricreato sul trascorrere dei secoli distanti. Quante persone è possibile stipare in un chilometro quadrato, senza che queste siano destinate ad prossimo un futuro di follia? 25.000 come a Delhi, la capitale del prolifico sub-continente indiano? Circa 26.000 come l’isola di Manhattan, dove l’articolata verticalizzazione ha sostituito spazi che lì non ci sono, non ci saranno mai? O addirittura 44.000, la cifra raggiunta da Manila nella Filippine, null’altro che la singola concentrazione di persone più densa del pianeta? Un caso limite, di quello che comunque già era e resta il singolo paese maggiormente sovrappopolato nel complesso situazionale convenzionalmente citato. Ma non c’è limite al peggio, così di sicuro, la parola chiave diventa “dignitosamente”. Giacché non è difficile immaginare un distante futuro, in cui la costruzione di svettanti arcologie possa permettere l’attigua coesistenza di dozzine di migliaia di piccoli appartamenti dotati di ogni comfort, eppur stipati l’uno sopra l’altro come scatole di sigarette in un container dei contrabbandieri. Talle situazione, tuttavia, non ha luogo ad essere nel nostro attuale quotidiano. Né tanto meno, in quello degli anni ’70 e ’80, periodo in cui si trovò l’apice nell’Estremo Oriente un particolare insediamento, detto la città murata di Kowloon, in cui fu raggiunta l’apparentemente assurda cifra di 1.255.000 anime per Km², con una popolazione totale di 33.000: in parole povere, qui viveva molto più di una persona al metro quadro. L’uno sull’altro, all’interno di circa 300 palazzi alti fino a 10-13 piani e non più di così, a causa dell’estrema vicinanza dell’aeroporto di Kai Tak, svincolo fondamentale per la città di Hong Kong. L’unità domestica di una famiglia tipo si aggirava attorno ai 23 m², talvolta ricavati da piattaforme sospese nel vuoto, balconate ricoperte o vere e proprie piccionaie, rivettate alla meglio nelle pareti cementizie degli edifici e pericolosamente dondolanti nel vento. Le strutture massicce di un simile luogo poi, giungevano a formare, incredibilmente, un’unica massa con fessure di pochi metri appena fra un gigante e l’altro, dalle quali erano state ricavate alcune delle strade più buie al mondo. Era sempre notte, al piano terra di Kowloon. Ciò detto, un visitatore intraprendente avrebbe potuto percorrere l’intero territorio da nord a sud, grazie ai numerosi ponti di attraversamento tra un palazzo e l’alto, senza mai doversi azzardare a toccare terra.
Molti termini sono stati usati, negli anni, per riferirsi a questo luogo senza pari nella storia: città dei sogni, della notte eterna, luogo incredibile, meravigliosa dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Ma la realtà è che si trattò, oltre ogni dubbio residuo, di un vero incubo terrificante. L’intero agglomerato disponeva unicamente di otto tubi dell’acquedotto municipale, con punti di recupero dove venivano, al tempo stesso, lavati i panni e prelevate le taniche di acqua potabile per i propri figli e nipotini. Anche se, secondo alcune teorie, la città disponeva di alcuni pozzi risalenti all’antichità, gelosamente custoditi all’interno di zone sotto il controllo dell’elite locale. Il crimine, come potrete facilmente immaginare, dilagava incontrollato, con alcune delle più potenti triadi (le “mafie” cinesi) che proprio qui avevano stabilito le proprie sedi operative, complete di una fiorente industria della droga, del gioco d’azzardo, della prostituzione. Era raro che la polizia si avventurasse in questi luoghi, e quando lo faceva, stava molto attenta a muoversi in gruppi estremamente numerosi. L’aria era umida e malsana, con le migliaia di condizionatori che riversavano la loro acqua a livello della strada in una sorta di torrente ininterrotto, mentre le serrande di negozi e luoghi di ristorazione si sollevavano a poca distanza da indescrivibili cumuli di spazzatura, quali la modernità, probabilmente, non aveva mai conosciuto prima. Ma prima di parlare del modo in cui giunse ad esistere un luogo allucinante come Kowloon, e della sua demolizione fortunata ed al tempo stesso ingloriosa portata a termine nel 1994, sarà opportuno porci una domanda carica di sottintesi. Non vi ricorda nulla, tutto ciò?

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La sfilata delle barche folli ed il Giardino che l’ha ispirata

Bosch Parade

Nell’opinione dei dottori medievali, all’interno del cranio umano era presente una piccola pietra. La quale, nel corso di una vita priva d’incidenti, rimaneva saldamente incastrata in un recesso particolare dello spazio cranico, senza interferire con l’elaborazione del pensiero. Poteva tuttavia capitare, in particolari sfortunate circostanze, che l’oggetto si mettesse di traverso, interrompendo connessioni logiche che noi diamo per scontate e creandone, al contempo, di nuove. Ed è quel punto che il soggetto iniziava, d’un tratto, a percepire questa musica carica d’inconoscibili significati! La strana vibrazione che percorre il mondo dell’arte e che da esso si propaga, colorando di scenari ucronistici la striscia attorcigliata del trascorrere delle ore, giorni e mesi. L’uno dopo l’altro, in ordine tutt’altro che sensato, finché non si giunga ad un’anniversario che non ha precedenti, né potrà ripetersi in futuro. Cinquecento anni esatti dalla morte di un uomo, la cui matrice culturale, l’educazione ricevuta, la storia di vita e la condizione psicologica di fondo, restano per molti versi misteriosi. Ma che nonostante l’ignoranza dei posteri, seppe lasciare un segno indelebile nella storia dell’arte, tale da permeare ancora oggi alcuni dei recessi più profondi della mistica contemporanea. E nello stesso tempo, molto più di questo… È una domanda che s’interpone, come la roccia tra i neuroni che il chirurgo-asino tentava di cavare con piglio praticamente dentistico, nell’opera convenzionalmente datata attorno al 1524, L’Estrazione della Pietra della Follia: voialtri, se doveste, come rendereste onore a Hieronymus Bosch? Il pittore olandese del XV-XVI secolo, che con le sue molte composizioni immediatamente riconoscibili, seppe prendere il gusto spesso insensato della miniatura antecedente all’invenzione della stampa, per renderlo il fondamento di una forma d’arte straordinariamente comunicativa e in qualche modo, ancora adesso rilevante. Una questione che definirei, difficile. Al punto che nel porsela a partire dal 2010, la città nativa dell’artista ‘s-Hertogenbosch nel Brabante (in italiano: Boscoducale) ha trovato una sua via decisamente attinente al tema. Una via, aggiungerei molto giustamente, fluviale, che prende il nome pienamente descrittivo di Bosch Parade, la parata di B. Siamo del resto nei Paesi Bassi, una nazione dove dune senza tempo vanno a perdersi nel mare, agendo come rampe di lancio verso i recessi più reconditi del globo. E in ogni luogo,  dalle coste all’entroterra, le imbarcazioni devono poter trovare un punto d’approdo, onde scaricare le preziose merci riportate in patria. Metalli duttili e splendenti gemme, oli, spezie profumate. Uova di creature ultramondane. Ed idee, che in molti non esiterebbero a chiamare, coraggiose.
È una visione certamente inaspettata. Un uomo siede sulla prua di una barca semi-sommersa, tentando di contrastare il propagarsi di un incendio. Ma le fiamme ardono, sotto i nostri occhi straordinariamente perplessi, presso le regioni della poppa che si trova sotto il livello dell’acqua. Così egli impiega un secchio per pescare lo strumento liquido della salvezza, lo lancia all’indirizzo dell’elemento che tutto consuma, poi lo riempie nuovamente, e se ne getta dietro il contenuto. Finché non si capisce più se stia ancora tentando di soffocare le ardenti lingue, oppure semplicemente, di svuotare lo scafo dal trasparente fluido clandestino, che così tanto rischia di farlo colare a picco. Ma le sue preoccupazioni appaiono più che mai superflue, quando ci si rende conto che l’intero battello è in realtà tenuto a galla da una vera e propria isola di spazzatura, aggregato di sacchi di plastica e altre scorie dei viventi. Ma non c’è tempo di riflettere su di una tale immagine, mentre già il suono del trombone a propulsione musicale, che aveva aperto la sfilata tra gli applausi dei presenti, si perde dietro l’ansa del canale, e viene sostituito da una chiatta con degli abitanti in calzamaglia blu, e un tubo svasato per nascondere i propri lineamenti. Seguìti, veramente straordinario! Da alcune sfere trasparenti con fanciulle al loro interno, molto giustamente inondate dalle pompe di alcuni vigili del fuoco. Io dico, invece di aiutare quell’altro, che ne aveva bisogno…Qui dev’esserci lo zampino di…Eccolo! Che arriva, sul suo cocchio da antico romano, la pelle rossa, un singolo cavallo fiammeggiante, 10 rematori in abito elegante. E chi potrebbe mai essere, costui, se non il Diavolo in persona. Giunto anche lui presso l’arcana circostanza, per ammirare i prossimi partecipanti della Bosch Parade…

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Tre meraviglie pieghevoli di architettura Lego/giapponese

LEGO Himeji

È l’eterna lotta che si svolge in un ambito specifici della creatività: qual’è il modo migliore per ricostruire un grande monumento in scala? Si chiedono allo stesso tempo, l’uomo che piega la carta e quello che dispone i mattoncini. Alla ricerca di un qualcosa che sia solido e immanente, straordinariamente suggestivo. Ciascun approccio… Ha punti forti per distinguersi dall’altro. Un origami è semplice, rapido, praticamente pronto all’uso. Tutto ciò che occorre è un gran foglio di carta, bianca o colorata, cui dare una forma che ricordi la struttura ispiratrice dell’architettonica disfida. Come un tratto di pennello del sumi-e, l’arte pittorica d’Estremo Oriente che deriva dalla calligrafia, nel modo in cui riesce a catturare in pochi gesti la necessità espressiva. Mentre d’altra parte, mettersi all’opera con i più famosi strumenti per prefabbricati della Danimarca, concepiti per tirare su pareti non più alte di un bambino all’opera nella sua stanza dopo i compiti di scuola, richiede acquisti ripetuti e tempo a profusione. Simili creazioni, spesse volte, richiedono giorni, settimane o addirittura mesi (specie nei progetti degli adulti) diventando così simili agli affreschi di Raffaello e Michelangelo nei luoghi della Chiesa, il frutto d’infinite correzioni successive, verso il raggiungimento dell’estetica perfezionata. C’è quindi la questione addizionale dello spazio, tutt’altro che semplice da trascurare. Un modellino costruito in tre dimensioni mediante l’impiego di blocchetti che comunque, per loro implicita natura, hanno uno spessore non inferiore ai due centimetri, o comunque una larghezza ancor più significativa, non può che avere dimensioni minime commisurate alla sua implicita complessità. E certi edifici, sono complessi per definizione, giacché furono creati per gettare lo sconforto nelle fila del nemico, diventando un campo di battaglia verticale ed insidioso. Come mai avrebbe potuto fare, dunque, il maestro del settore Talapz, titolare di un rinomato canale su YouTube, per giungere a possedere finalmente la meravigliosa silhouette del bastione centrale di Himeji, struttura che domina lo skyline dell’omonima città nell’Honshu meridionale…Quando si sa molto bene che gli appartamenti giapponesi sono piccoli, tendenzialmente, e benché privi di mobilia superiore all’essenziale, estremamente razionali nell’impiego degli spazi…
Ma “Io non mi accontento della carta!” Sembra quasi di sentirlo dire: “Il mio soggetto merita ben Altro.” Mentre lo visualizziamo grazie all’occhio della mente, che dispone le sue arcane fondamenta, utili a creare il più incredibile, ed inaspettato degli effetti. Questo particolare castello, del resto, è il più grande ed il secondo più famoso del Giappone, dopo quello estremamente celebre di Osaka che resistette dieci lunghi anni al cambio di un Era, dopo la battaglia epica sulla piana di Sekigahara. E pensare che di quello che era il suo unico rivale nelle dimensioni, fatto costruire dal grande dittatore militare Toyotomi Hideyoshi nel ventennio precedente al 1600, oggi resta estremamente poco, con fortificazioni assai ridotte, ed un torrione integralmente ricostruito dalle ceneri della Restaurazione Meiji. Un’altro turbolento e fulgido minuto della Storia. Prendete invece, per comparazione, l’ispiratore di questo capolavoro fatto con i Lego: il castello di Himeji fu inizialmente concepito come una struttura difensiva scavata in collina nel 1333 da Akamatsu Norimura, uno dei fedeli servitori dell’Imperatore Go-Daigo, che scelse di ribellarsi all’illegittimo potere dei guerrieri di Kamakura, il clan degli shōgun Minamoto. Un sogno destinato ad infrangersi in catartiche battaglie campali, lasciando pienamente integre le rispettive fortificazioni e permettendo il trionfo di Ashikaga Takauji, l’uomo all’inizio di una nuova dinastia di sommi generali. Così la torre nacque e crebbe, da una generazione all’altra, acquisendo entro il 1346 il nome di Himeyama, da quello del rilievo del paesaggio che ospitava le sue fondamenta. Ma passarono due secoli prima che alcuni fedeli servitori dello stesso Hideyoshi, lo stratega convertito al Cristianesimo Kanbei Kuroda per primo, e l’amministratore esperto Ikeda Terumasa, talvolta noto come “lo shōgun del Giappone occidentale” per secondo, ad espandere la struttura nell’odierna meraviglia architettonica tra il 1601 ed il 1609, giungendo alla vetta di oltre 80 strutture indipendenti, e mura forti e candide che valsero all’edificio il soprannome di “Gru Bianca”. Che si diceva avrebbe un giorno spiccato il volo, ma che nessuno avrebbe mai creduto di vedere dispiegarsi dalle pagine di un libro in delicati mattoncini…

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Il dolce canto della donna che protegge gli elefanti

Lek Chailert

Note amorevoli, una voce rasserenante, l’armonia delle migliori ninna nanne. Lei che l’abbraccia all’altezza delle grosse zampe, quindi la colpisce delicatamente con un panno, in un gesto forse concepito per assomigliare a una carezza. È del resto assai probabile che con una pelle spessa 2 cm e mezzo, un lieve tocco possa risultare facilmente inadeguato. Quindi, finalmente, le parole misteriose della nenia di Sangduen “Lek” Chailert iniziano a sortire l’effetto desiderato, con la controparte che un poco alla volta si sdraia per terra, stando estremamente attenta a non stritolare l’amica per l’effetto della sua massa considerevole, quindi chiude gli occhi e…Sogna?
C’è molto di umano nel comportamento di Faa Mai, la pachiderma di 7 anni che per prima rappresenta una generazione successiva degli animali custoditi presso l’ENP di Chiang Mai, Thailandia, il più singolare e notevole santuario per la riabilitazione del maggiore animale di terra del pianeta. Perché proprio una creatura simile, in forza del suo metabolismo relativamente lento, può raggiungere tranquillamente i 70 anni di vita, e ciò nonostante una massa potenziale di 4,5 tonnellate (5 se si fosse trattato di un maschio). Non è quindi troppo irragionevole, per la gigantessa buona il cui nome per inciso significa “Un Nuovo Giorno” immaginare un lungo periodo d’infanzia e prima adolescenza, che potrà portarla, come del resto abbiamo fatto noi, a comprendere i suoi genitori e diventare, almeno in parte, simile a loro. Ed è in tale aspetto che la vita di questa creatura si profila come originale, perché di modelli femminili nella vita, lei ne ha almeno due: da una parte la madre biologica Mae Bua Tong, nata attorno agli anni ’70 e tratta in salvo da una triste vita passata al servizio dei turisti, cavalieri spesso ingrati e quel che è peggio, inconsapevoli dei duri metodi che vengono impiegati per addestrare gli elefanti in certi luoghi dell’Estremo Oriente. E dall’altra, una persona con due piedi e totalmente priva di proboscide.Ovvero un essere umano in carne ed ossa, pienamente consapevole di ciò che fa. Perché l’eroina famosa su scala internazionale con il solo soprannome di Lek Chailert, più volte premiata dal National Geographic, dalla Ford Foundation, dalla Humane Society… Ha avuto una vita certamente complessa e travagliata. Ma sempre dedita ad un singolo, fondamentale obiettivo: permettere a questi grandi animali di condurre un’esistenza placida ed amena, nonostante i traumi spesso subìti, e di raggiungere uno stato ideale di realizzazione psichica dell’individuo. Che tale certamente resta, in forza di una sofisticata filosofia e una capacità d’introspezione, forse meno palesi delle nostre, ma comunque notevolmente cariche di significato.
Voglio dire, basta osservarle all’opera. Non appare forse chiaro che la gioia dell’elefantessa, così straordinariamente cosciente della sua situazione lieta e dell’attimo di pace assoluta che stava vivendo nel momento qui raffigurato, si rifletteva pienamente nello stato momentaneo della sua seconda madre (adottiva) in un continuo feedback di ritorno valido a costituire l’assoluta gioia ed assenza di perturbazioni…. Una sorta di stato di grazia, sostanzialmente sconosciuto a molti di noi. Si potrebbe persino definire, questo lungo momento, come la ricompensa di coloro che amano gli animali, e dall’incontro con essi traggono dei benefici perfettamente commisurati al servizio che stanno rendendo all’Universo. Un elefante dopo tutto, ci spiega la Chailert orgogliosamente sul suo sito ufficiale, ha un olfatto più sviluppato del nostro, ed ha l’udito probabilmente più sensibile tra tutti gli animali della Terra, riuscendo quindi a vivere sotto diversi aspetti puramente fisici, più intensamente di noi. E se non domina incontrastato nel suo regno del selvaggio, l’unica responsabilità è la nostra, di uomini che gli hanno anteposto un mondo carico di costrizioni, doveri, limiti situazionali. Stiamo del resto parlando di un paese, la Thailandia, in cui la storia dell’uomo è strettamente legata a quella del suo fratello più imponente, al punto che nell’antichità questi esseri costituivano cavalcature regali, doni degni di un’ambasceria di pregio, macchine agricole o da usarsi per la raccolta di materiali… Quando nel 1989, in forza di un eccessivo disboscamento del paese rilevato dagli esperti provenienti da ogni parte del mondo, il governo nazionale impose severe limitazioni all’industria privata del legname, molti elefanti si ritrovarono immediatamente senza lavoro. Colossali bocche da sfamare, ingombranti e problematiche, che sempre più spesso i vecchi proprietari tendevano a vedere come grosse riserve di carne ambulante, da macellare in base alle necessità. E fu allora che Lek, all’epoca un’imprenditrice dal rispettabile successo con un negozio a suo nome, decise che avrebbe dovuto fare qualcosa per salvarli. Pena la perdita del contatto stesso con la sua realtà, ciò che davvero sentiva nel profondo dell’anima e l’obiettivo che desiderava conseguire nella vita.

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