Anche il porcellino d’India, nel suo piccolo, si da alla guerra

Guinea Pig Mail

Nella terra dei criceti soltanto un porcellino d’India può diventare re. Deve quindi vestirsi nel modo adeguato. Tra gli animali domestici, non è certo il più forte, il più resistente o temerario, eppure… Guardate, tanto per cominciare, il bianco e marrone Lucky. Pare un patuffolo militarizzato. Ricoperto del freddo acciaio di una splendida lorica squamata, realizzata sul modello delle armature impiegate nelle epoche più antiche, il suo aspetto da roditore appare infuso di un profondo senso di ardore e nobiltà. L’aguzzo morione, svettante elmetto di foggia spagnola, protegge il suo capo rotondo dai colpi del nemico, mentre il resto della panoplia lo rende più simile a un’impervio pangolino, il famoso formichiere corazzato dell’Africa e dell’Asia meridionale. In quante battaglie avrà trionfato…Secondo le superstizioni medievali, l’unico modo di attribuire una saggezza ulteriore agli animali era quello di considerarli un pericolo sovrannaturale. Il gatto si accompagnava alle streghe e il gallo nero era un seguace del demonio, mentre la civetta portava i messaggi del tristo mietitore. Come draghi o manticore in miniatura, tali esseri venivano maltrattati e allontanati dalle fattorie dell’uomo, senza nessuna possibilità di redenzione. Qualche tempo dopo il contadino, privato di un pur valido compagno e mezzo di sostentamento, non poteva che rammaricarsi del suo gesto sconsiderato. Secondo le regole della stregoneria apotropaica, simili questioni potevano tuttavia trovare una soluzione con altri approcci, meno dannosi: ricostruendo in piccolo gli scenari di un poema epico cavalleresco. In una sorta di rituale, l’eroe avrebbe allora galoppato sulle sue tozze zampette verso gli animali considerati maligni, vestito degli abiti di un vero guerriero. Non potendo però nuocergli, in assenza di armi o zanne acuminate, li avrebbe soltanto esorcizzati, liberandoli dalla diffidenza degli uomini. Questo doveva essere il ruolo del meraviglioso porcellino d’India corazzato. Peccato che sia nato soltanto in tempi più recenti. E già passato a miglior vita. Chi erediterà, dunque, la sua missione?

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I sassi d’Oriente che saziano la fame…Spirituale

Banchetto delle pietre
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L’arenaria tagliata a fettine, con il suo gusto corposo, costituisce un primo ideale, purché adeguatamente condita mediante l’impiego di graniti ignei metamorfici, riconoscibili da quel tipico retrogusto, lievemente piccante. Il cupo basalto afasico ricorda il pesce di fiume. Arricchitelo con preziose spezie di porfido, possibilmente della tipologia riolitica, insaporitelo quindi con pezzetti di feldspati e miche. Marmi e quarziti saranno il vostro dessert: illuminati di traverso dal sole splendente del Sichuan,  la loro superficie cristallina vi apparirà simile a quella di candide meringhe, dal cuore segreto ripieno di fluida e magmatica cioccolata. Che nessuno si azzardi, però, a mettere in bocca uno di questi durissimi manicaretti. A meno di avere un piano dentistico d’eccezione e anche allora… Soltanto un flipper potrebbe digerirli. Perché l’appetitosa tavola imbandita inquadrata nella foto, nonostante le apparenze, contiene del cibo materialmente indigesto. Si tratta del pezzo forte del museo delle pietre di Yinchuan, capitale della provincia del  Ningxia, che vorrebbe rappresentare il pantagruelico banchetto di Manhan Quanxi; un evento storico, risalente al XVII secolo, in cui si tentò l’approccio diplomatico più significativo tra la dinastia cinese dei Qing e i loro vicini del nord, i popoli Manciù. Secondo la leggenda, in tale occasione vennero serviti 108 piatti impareggiabili, con ingredienti raccolti da ogni angolo del paese. Ancora oggi, nelle grandi occasioni, è usanza servire un’approssimazione moderna di tale pasto divino, nonostante molti degli animali sul menù siano ormai a rischio di estinzione.  Naturalmente, non mancano le alternative. Questa di usare la pietra, contrariamente alle apparenze, non è un semplice scherzo fine a se stesso. Proviene anzi da un tempo molto lontano…

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Un castello samurai fatto di cartone

Upunushu

Quanti giorni di assedio potrà mai sopportare un castello alto 40 cm? Probabilmente moltissimi, purché si tratti della precisa riproduzione di una delle più famose fortezze dell’epoca Sengoku (1478-1605), quel turbolento periodo al termine del quale la moderna nazione giapponese emerse dalle polveri di oltre un secolo di scontri tra i diversi clan samurai, attraverso guerre civili e difficili alleanze. Il castello di Matsumoto, anche detto bastione del corvo, venne costruito nel 1504 ed è ormai da tempo considerato un tesoro nazionale per i suoi notevoli meriti estetici e funzionali. Oggi eccolo lì, come se niente fosse, sul tavolo da pranzo di Upunushu, ragazza straordinariamente abile nel campo dei pepakura (modellini di carta incollata). Svettante, con tutte le sue feritoie yazama e teppozama al posto giusto, pronte ad ospitare rispettivamente gli arcieri e i fucilieri del clan Ogasawara, coloro che all’epoca regnavano nella regione dello Shinano. Un territorio decisamente difficile da difendere, tanto che la loro splendida residenza fortificata, piuttosto che sorgere in cima ad un colle impervio o in altri luoghi inaccessibili al nemico, era stata collocata nel mezzo di una palude, rientrando nel genere di castelli detti hirajiro, ovvero di pianura. Ma per compensare a tale inerente limitazione, poteva contare su alcuni significativi punti a suo vantaggio: tre vasti fossati pieni d’acqua, ovviamente assenti nella versione ridotta di Upunushu (gli si sarebbe squagliato il bastione). Una ricca dotazione dei cannoni lunghi Hazama, recentemente importati dai mercanti europei. Mura spesse e resistenti, percorse da vasti corridoi periferici, adatti al passaggio veloce dell’intera guarnigione in armatura, ulteriormente appesantita dalle armi e dalle insegne del clan che l’aveva edificato. Uno dei molti, purtroppo, destinati a perdersi tra le accidentate vie della storia.

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La saga degli scheletri scintillanti

Scheletri ingioiellati
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C’è stato un tempo in cui gli scheletri passavano in processione per le vie della Roma, si vestivano d’oro e partivano all’indirizzo di chiese lontane. Altro che fuga di cervelli! Era il XVII secolo, quando la città eterna rappresentava il centro nevralgico della cultura e delle molte filosofie d’Europa. Ad essa, con le sue cupole e cattedrali, accorrevano le principali menti pensanti, le più abili mani d’artista e gli ambasciatori di ogni repubblica o regno, per quanto potenti, orgogliosi e remoti. Eppure, all’ombra di tale incontrastata maestosità, germogliavano i primi semi dello scontento. A pochi passi dai grandi teatri e dalle basiliche dei potenti, dilagavano i drammi della miseria e della malattia. I mendicanti morivano di fame, fra mille predicatori e medici ciarlatani. Si viveva nel costante terrore della peste, grande sterminatore dei popoli urbani dal Medioevo in poi. E al tempo stesso imperversava, a nord, lo spettro dell’eresia. Molte cose erano cambiate dal tempo dalle 95 tesi di Martin Lutero, fatalmente affisse alla porta della chiesa di Wittenberg, e una dinastia straniera poteva fregiarsi del titolo di Re dei Romani, con grande dispiacere dei potenti in Vaticano e di colui che in persona, volta per volta, occupava il seggio di Pietro. Il papa, tuttavia, per riacquistare il prestigio dei secoli passati poteva sfruttare un’arma davvero significativa: la cultura delle immagini. A quei tempi, ovviamente, non c’erano mezzi di comunicazione, come la radio o la tv, e dunque mancavano vere forme popolari d’intrattenimento. Al posto di esse una valida alternativa: le splendide chiese barocche. Si andava a messa per salvare la propria anima, si, ma anche per sperimentare il fascino di quella ritualità, per apprezzare lo splendore decorativo racchiuso fra tali mura e soprattutto, più di ogni altra cosa, per poter dire di aver conosciuto un santo. Questi erano ovunque e si presentavano in molti modi, talvolta strani e stupefacenti. Certo, non era proprio come incontrarli in carne ed ossa….Al massimo, qualche volta, c’erano tutte le ossa.

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