I treni che in Australia non richiedono binari

Road Train

La logica di un mondo proiettato verso innumerevoli punti di fuga, ciascuno logica, ed inevitabile conclusione di un particolare filo conduttore di ricerca: Internet, sei piena di caselli. E metodi di spostamento, differenti tra di loro quanto quelli fisici, con i semafori del mondo. In origine era il modem telefonico, ruggente, squillante scatola facente le funzioni della fila innanzi al varco, ciascuno per pagare l’obolo, prima di andare verso l’obiettivo. Mentre oggi, volando sulle bande larghe di altrettanti e veri jet di linea, viviamo un viaggio che al momento di partire, grossomodo, è già concluso. Ma questo non significa che manchi la motivazione della gente per approfondire, anzi! Giusto verso la metà della scorsa settimana, presso quel grande catalogo d’esperienze che è la board autogestita del portale Reddit, si è personalmente presentato l’individuo noto come Ozdriver, un camionista proveniente dalle lunghe, polverose strade degli antipodi, laggiù nel quinto continente. Ed a farlo ben volere tra l’utenza soprattutto americana, ci ha pensato il suo carico di foto, video e racconti da quello che è un mestiere assai diffuso in quasi ogni paese del pianeta (fanno eccezione i luoghi come il Principato del Liechtenstein, oppure il Vaticano) ma che varia in modo eccezionale in base al luogo, al tempo ed alle circostanze. E in nessun luogo il gesto del trasporto stradale devia dalla norma del senso comune, maggiormente che in Australia, dove le strade sono luu-unghe, diritte, totalmente prive di una qualsivoglia distrazione. Tranne quella, qui scopriamo, della fotocamera sopra il cruscotto, da usarsi per restare svegli tra una sosta e l’altra, se non altro con lo scopo di mostrare al mondo dei momenti..Straordinari, inaspettati. Testimonianze con finestre sul possibile. Di un mondo in cui l’unico limite è quell’orizzonte che si perde tra la nebbia e la foschia, mentre un migliaio di cavalli/macchina ti spingono, con il tuo carico, verso comunità che non esisterebbero nemmeno, dopo un paio di viaggi mancati dal Road Train.
Tutto ebbe inizio, almeno stando alla leggenda alquanto nebulosa, con l’idea dell’inventore e imprenditore Kurt Johansson di Alice Springs, nei Territori del Nord, la regione più disabitata dell’Australia. Nato nel 1915 e proveniente da una famiglia di noti autotrasportatori, che negli anni ’70 gestiva un’autorimessa e si occupava di condurre a destinazione gli animali dei suoi concittadini, tra l’una e l’altra tenuta di quei luoghi, poste a centinaia di chilometri di distanza. Finché non avvenne, successivamente alla consegna di alcuni tori da monta a 320 km dalla sua sede operativa, che si presentasse la necessità di riportare indietro non 10, né 20 capi di bestiame, ma bensì 200. Una missione semplicemente impossibile per un sol uomo, a meno che…Johansson, che aveva già fatto una parte della sua fortuna grazie all’invenzione di nuovi metodi di propulsione  a legna basati sul principio del biodiesel, oltre che con partecipazioni nell’industria di estrazione salina, non era un tipo da perdersi d’animo. E quando individuava il nesso di un problema, sapeva come affrontarlo con lo spirito risolutivo del pioniere: così, ricevuto un finanziamento di “alcune migliaia di sterline” (la fonte dell’aneddoto è un segmento documentaristico dell’ex-host di Top Gear Jeremy Clarkson) quest’uomo, che oggi è ritenuto l’inventore del Road Train moderno, si procurò in qualche maniera un camion dell’esercito americano, residuato della seconda guerra mondiale, subito ribattezzato Bertha, cui si avvicendò per abbinare due vagoni motorizzati di sua concezione, affinché l’insieme fosse in grado di superare le ripide salite sulla strada verso la destinazione di turno, con tutto il suo seguito di mugghianti, nitrenti passeggeri. La missione fu quindi compiuta, e con essa innumerevoli successive. Il presente nato da una simile trovata è davvero ben esemplificato dal video-racconto di Ozdriver. Le progressive evoluzioni del concetto del primo treno su pneumatici, che risultano a seconda dei casi estendibili a fino 30-40 metri di lunghezza, costituiscono ad oggi la colonna portante dei trasporti tra le comunità dell’outback australiano, dove la messa in opera di una vera e propria ferrovia non sarebbe pratico, né economicamente sensato data la bassa densità degli abitanti. Per simili veicoli, la somma della potenza dell motrice e quella dei motori con trasmissioni automatiche sui vagoni successivi supera facilmente i 1000 hp. La vita di chi si ritrova a guidarli, attraverso simili peripezie, dev’essere tremendamente interessante. E forse, appena un po’ ripetitiva?

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Il ritorno del ruggito più pericoloso su pellicola

ROAR

ROAR, il grande squillo d’allarme, il suono e l’espressione della belva che ci affascina e che suscita l’orrore primordiale. Nella storia del cinema come in quella di ogni altra arte visuale, ci sono immagini che hanno un senso predeterminato. Sono quelle che ricorrono, a partire da un’antonomasia, nell’iconografia della cultura letteraria, religiosa e mistica dell’insieme d’esperienze valido a comporre l’odierno senso comune. Giustizia, fortezza, temperanza. Sapienza, scienza ed intelletto? Ciascuna, per sua massima prerogativa, ben rappresentata nella sua particolare essenza, da un oggetto, una maschera, un animale. E non ci sono mai stati particolari dubbi, in merito al senso, al verso ed alla suggestione del leone. Creatura maestosa per eccellenza, pericoloso predatore, imponente approssimazione di ciò che potrebbe essere un gatto domestico, se soltanto noi guardassimo il mondo con gli occhi dell’inerme topo. Usata, da chi ricerchi l’utilità delle metafore, per simboleggiare non la semplice imponenza fisica, quanto piuttosto un senso di possenza trascendente, la capacità d’imporsi sulle cose prive di sostanza. “Meglio un giorno da…Che cento da pecora!” Esclama il detto rilevante, benché sia il caso spesso di considerare che: si, la pecora sarà pur pallida e incolore. Ma non potrà mai morderti alla giugulare. Strano. Ed improbabile, nevvero, quanto questa iniziativa delle due case indipendenti Drafthouse Films ed Olive Films, di andare a prendere da sotto il tappeto di Hollywood uno dei suoi ciméli maggiormente polverosi e prossimi dal completo oblìo, un film così tremendamente problematico, tanto conduttivo a una sequela di ricordi lugubri, che persino i suoi interpreti, ben 24 anni dopo, non vogliono aver nulla a che fare con tale restauro e conseguente re-release. Interpreti come una giovane Melanie Griffith (allora poco più che ventenne) e sua madre Nathalie Kay “Tippi” Hedren, la donna che notoriamente seppe affascinare a tal punto l’indimenticabile regista Hitchcock, da diventare la futura musa ispiratrice in alcuni dei suoi film degli anni ’60 e ’70, spesso con ruoli da protagonista perturbata dagli eventi. Forse la ricorderete come la fanciulla sfortunata dell’abitazione assediata da Gli uccelli, vittima di una delle scene più ansiogene della storia del cinema, con gabbiani, corvi e cornacchie assetati di sangue, misteriosamente entrati da una finestra infranta, che tentano di ghermirla spietatamente al volto. E un senso di puro terrore che, ci narrano le cronache del tempo, fu tutt’altro che simulato “Non ti preoccupare ‘Tippi’, useremo soltanto uccelli meccanici.” Si, come no. Talmente irrealistici, per dire, che le zampe di uno di essi giunsero a recarle un profondo graffio sulla guancia, a pochi centimetri dall’occhio destro. Le riprese dovettero essere fermate per un’intera settimana, tra le proteste dell’insigne regista. Ma è difficile fargliene una colpa; questo fa, in fondo, l’arte. Si trasforma e contamina te stesso, essere umano, rendendoti uno schiavo della sua realizzazione, spesso anche a discapito del senso universale d’empatia. Notoriamente e come viene raccontato in diverse biografie, Hitchcock e la Hedren ebbero una duratura relazione amorosa, con lui che riuscì a trasformarla nella sua donna ideale, vestita sempre in un determinato modo, attenta al cibo ed all’immagine offerta al suo pubblico dei fans appassionati. Ma ecco quello che l’attrice, all’epoca sempre più infastidita dalle ossessioni di controllo del maestro del brivido, ancora non sapeva: il suo futuro gli avrebbe riservato sorprese professionali anche peggiori e interazioni con ben altri tipi d’animali, dovute alla sua successiva stima per un personaggio che la critica è stata assai più rapida a dimenticare.
Il 22 settembre del 1964, Tippi sposa il suo agente Noel Marshall, fascinoso e splendido, persino tra i molti scopritori di talenti della California. Il loro matrimonio prosegue senza intoppi per almeno dieci anni di convivenza e reciproci successi, con loro che organizzano, finanziano e producono assieme diverse valide pellicole, tra cui Mr. Kingstreet’s War e The Harrad Experiment (entrambi del 1973 e con la stessa Hedren come principale attrice femminile). Finché, nel 1973, non arriva il colpo di fortuna: lui che crede fermamente, fin dalla prima stesura del progetto, nella trasposizione cinematografica di un racconto orrorifico di William Peter Blatty sulla regia di William Friedkin, ovvero quello che sarebbe diventato il film da antologia de L’esorcista. Un opus con un budget relativamente ridotto (12 milioni di dollari) ma che riuscì ad incassare ai botteghini, secondo la stima odierna, un capitale approssimativo di ben 36 volte quella cifra e comunque largamente al di sopra dei 400 milioni, dei quali una significativa fetta fu incassata dalla celebre coppia di creativi. E se l’arte può cambiarti, come del resto pure i soldi, ciò che giungono a fare le due cose assieme fuoriesce dal sensibile, per entrare nella sfera della pura e incalcolabile immaginazione. Perché a quel punto, i pezzi erano in posizione, il contesto pronto e fertile per la follia. Così venne l’epoca di ROAR.

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La casa sulla roccia a Narragansett Bay

Clingtone 0
Via

Il sole infuoca il braccio di mare prospiciente il porticciolo di Jamestown, mentre un’altra lunga giornata si conclude tra le mura della Clingstone House. Un luogo per staccare dalle fatiche e le preoccupazioni della vita urbana, si, ma lavorando. Finestre da pulire. Tegole da rimettere in posizione. La legna da portare faticosamente, su dal proprio scafo, fino al gran camino della stanza principale al primo piano. Fosse settiche da svuotare nel piccolo “giardino”, reso quasi verticale dalla forma digradante dell’unica via d’accesso alla magione. C’è sempre da fare, nell’abitazione centenaria costruita sopra il mitico dumpling (gnocco, raviolo) di roccia, parte della costellazione d’isolotti e scogli del frastagliato Rhode Island che un tempo preoccupavano i migliori marinai, di arrivo dalle terre di un distante continente. Ma che adesso più che mai, è diventato una parte inscindibile del paesaggio marino, un punto di riferimento beneamato per chiunque si ritrovi a percorrere quelle acque, per svago, per lavoro, da o verso il confine galleggiante con lo stato di New York. E chi può, davvero, contare i suoi abitanti? C’è Mr Henry Wood, ovviamente, l’architetto di Boston che famosamente, con un colpo di mano estremamente significativo, riuscì ad acquistare la casa nel 1961, per la cifra trascurabile di appena 3.600 dollari (“Ne avevo offerti 3.500” racconta “Ma dissero che era troppo poco”) con sua moglie e i figli, di ritorno puntualmente per quella che si è trasformata in una vera istituzione familiare, il Clingstone Work Weekend. Ci devi credere, per trarne beneficio? Di questi tempi, in quelle sale corre una costellazione di nipoti, l’intera nuova generazione familiare, destinata a ereditare un giorno l’edificio che fu il sogno dei suoi innumerevoli restauratori, spesso stipendiati unicamente col piacere di esserci, mangiare tutti assieme, bere e dare feste sregolate. Difficile pensare che Nettuno, un giorno, possa venire a lamentarsi! Ma nello spirito, se non nei fatti, in quell’edificio resistente, costruito come quello di un mulino, albergano anche i costruttori originari: quel J. S. Lovering Wharton, socialita, industriale e finanziere, che alle soglie del 1900 era stato scacciato, suo malgrado, dalla residenza estiva costruita presso Fort Wetherill, a Jamestown Sud, per un progetto governativo d’ampliamento della vicina base militare. E che quindi si ritrovò a promettere a se stesso: “Costruirò la mia prossima casa il più vicino possibile, ma in un luogo tanto isolato da non permettere a nessuno di mai venirmi a disturbare!” Cosa che in un certo senso, estremamente letterale, riuscì a realizzare, forse più di chiunque altro prima di quel giorno. Perché fu allora che chiamò il suo amico William Trost Richards, pittore paesaggista di Philadelphia una certa fama, ed assieme a lui mise a punto il progetto di una tale meraviglia: una lunga serie d’inquadrature, sostanzialmente, ciascuna corrispondente ad una diversa facciata del maniero sopra il mare. 360 gradi d’acqua e nulla più; tre piani, 65 finestre e pareti costruite per durare, ricoperte di pannelli sovrapposti in legno (shingles, letteralmente tegole verticali) sulla parte esterna come pure in quella interna, a far da complemento insolito allo stile strutturale. Alcuni dissero che l’insolita trovata fosse dovuta alla prossimità del terribile fortino, i cui cannoni tendevano a crepare l’intonaco delle case costruite secondo i metodi convenzionali. Ma c’è ben poco di affine alla normalità, nell’approssimazione architettonica di questo incredibile natante, perennemente immobile fra tante vele e motori di passaggio, stolido ed eternamente resistente alle intemperie, nonostante tutto il resto.

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La montagna senza sale ricomincia a camminare

Quick clay

Pare l’effetto speciale di un film catastrofico, oppure in alternativa, il risveglio di un mostruoso Leviatano. Eppure si tratta di un fenomeno scientifico chiaramente dimostrabile, che pur appartenendo alla sfera della geologia, parte da una reazione chimica così semplice e basilare da potersi configurare come l’ultima pagina di un libro di ricette: la Peppina fa il caffè. Che nella canzone, fra tutti gli ingredienti menzionati, mancava il più classico collante usato dai bambini che vogliono fare i cuochi svalvolati: la comune terra raccolta ai giardinetti, un ammasso granulare, grossomodo solido, che può cambiare da uno stato all’altro sulla base dell’aggiunta fluidificatrice d’acqua, trasparente rito di passaggio verso la più metaforicamente gustosa, ma nei fatti del tutto imbevibile, conseguenza della moka posta sopra quei fornelli plasticosi. Ma non c’è nulla di simulato, nella scena qui catturata grazie all’uso del cellulare d’ordinanza ad opera di Alexander Giniyatullin, abitante della cittadina ad accesso limitato Zarechny, nell’Oblast di Penza, Russia sud-occidentale. Un luogo che si trova, allo stato dei fatti attuale, estremamente lontano dalle coste di qualsiasi specchio d’acqua significativo. Eppure in parte poggia, come del resto buona parte dei paesi europei ed americani al di sopra di una certa latitudine, presso delle terre che diecimila anni fa, durante l’ultima grande glaciazione, furono del tutto ricoperte dalle acque degli oceani sconfinati. Immaginate, volendo mantenere il termine di paragone culinario, il peso specifico di un cubetto di ghiaccio dentro a una bevanda. Finché integro, appena estratto dal surgelatore, tale elemento resterà saldamente collocato presso il fondo del bicchiere. Per poi sciogliersi gradualmente, diminuendo la sua massa ed iniziando infine a galleggiare. Ora, è grossomodo questo ciò che accadde su scala planetaria, per il lungo periodo, destinato ad esaurirsi solamente attorno ai primi timidi passi della civiltà egizia, quando ancora i mammut camminavano sul suolo dei paesi della Scandinavia giusto all’altro lato dello spazio geografico d’allora. Territorio cge riusciva a presentarsi in uno stato alquanto differente dal presente: perché il peso di una calotta artica notevolmente più estesa rispetto ad oggi, in tardivo corso di scioglimento, favoriva il fenomeno della depressione isostatica, ovvero l’effettivo abbassamento delle terre emerse, finché il mare poté ricoprirle, modificando la composizione chimica del suolo. Un mutamento significativo e duraturo, eppure tutt’altro che eterno. Nulla, del resto, può davvero dirsi tale.
Così ci ritroviamo, in questa scena risalente al primo del mese, presso una strada non meglio definita di quello che fu uno dei principali centri nevralgici industriali dell’Unione Sovietica. Un luogo pieno di fabbriche, centrali nucleari ed addirittura, secondo credenze piuttosto diffuse, gli stessi stabilimenti presso cui venivano assemblate le armi atomiche durante tutto il periodo della guerra fredda. Che scenario…Consigliabile, per una frana! E che strano esempio, questo, di una tale cosa…Pare di assistervi direttamente assieme al giovane testimone improvvisato. L’intera collina che lentamente si mette in moto, con fare placido dapprima, poi maggiormente rapido e virulento. La lieve pendenza del paesaggio, tutt’altro che significativa, non fa che enfatizzare il moto surreale di un simile sommovimento, tutt’altro che rapido e frutto di cause che possano dirsi chiare. Una valanga, in quanto tale, non è ardua da comprendere: la neve sta su, finché gli pare. Nessuno avrebbe alcun dubbio: un’improvvisa vibrazione può bastare a mettere in moto le masse biancastre verso il fondovalle, per il semplice effetto della gravità contingente.
Mentre, che differenza. Ecco qui una massa di terra all’apparenza millenaria, che lì era rimasta attraverso innumerevoli cicli stagionali, senza mai mostrare l’intenzione di tradire l’uomo. Addirittura vi poggiavano i pali della luce, che all’improvviso rimettersi in moto delle circostanze, diventano come stuzzicadenti sovradimensionati, stritolati dalle fauci incomparabili della natura.

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