Il castello spagnolo che incorpora tre navi pronte per partire alla ricerca del Nuovo Mondo

Il surrealismo come arte visuale, narrativa o poetica, è quella tecnica che tenta d’integrare panorami concettuali noti con creazioni mistiche o di fantasia, associazioni metaforiche mostrate al mondo nella più istintiva delle interpretazioni, quella nata dal disegno puro e limpido delle idee. “Castelli che danzano sul mare” ad esempio, può configurarsi come un valido riferimento al mondo della navigazione, ovvero quello in cui l’ingegneria sia trovi ad essere applicata alle necessità inerenti del principio di Archimede, fin da quando volgendo lo sguardo oltre l’orizzonte, ci si pose la domanda sulle terre che potessero persistere al di là del vasto spazio ove spariscono i continenti. Forse l’unico degno di nota, almeno fino alla creazione di un complesso tanto straordinario e fuori dagli schemi, come quello concepito originariamente nel 1987, da parte di un facoltoso medico ginecologo ormai prossimo alla pensione, che decise di trascorrerla rendendo omaggio a Colón. Non l’organo ma il grande esploratore Cristoforo, che qui chiamavano, per l’appunto, Cristóbal. Nella speranza rivelatosi poi vana, di riuscire a completare l’opera in tempo per il cinquecentenario della scoperta dell’America del 1992, missione destinata invece a realizzarsi con “appena” due anni di ritardo. Una tempistica da nulla quando si considera la complessità, e soprattutto le modalità di costruzione impiegate al fine di perseguirla. E guarda caso, il risultato… Capace di gettare la sua ombra intricatissima dinnanzi a quella strada provinciale andalusa, che costeggia il paesino di Benalmádena in provincia di Malaga, lungo cui il dottore di origini catalane in viaggio dagli Stati Uniti scelse di acquistare un vasto terreno dove scegliere finalmente di realizzare il suo sogno. Una svettante allegoria, la letterale manifestazione tangibile della Storia. In altri termini, il castello monumentale di Colomar.
Interpretazione a dire il vero piuttosto libera di quel concetto, vista la mancanza di effettive fortificazioni, che d’altronde a molto poco sarebbero servite in quest’epoca di assedi di tutt’altra natura, così come l’eventuale ponte levatoio, un salone principale o le vaste residenze del padrone di casa. Questo perché nel progetto fondamentale del Dr. D. Esteban Martín nessuno avrebbe dovuto effettivamente vivere all’interno del suo grande lascito, destinato piuttosto a costituire una visione ed un suggello, relativo al personaggio che più d’ogni altro seppe dare il proprio contributo alla passata egemonia spagnola sull’Europa e il mondo durante l’intero periodo rinascimentale. Alla destinazione di quel viaggio, compiuto grazie all’opera di caravelle che fatte non furono senz’altro in muratura. Eppure in questa guisa ricompaiono, con fedeltà d’intenti mentre volgono a Ponente, nella più straordinaria commistione d’influenze e allegorie composte a beneficio dei visitatori…

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L’imponente attrezzatura usata per forgiare un moderno albero di trasmissione navale

Mai sottovalutare l’incisività di un video nella promozione aziendale, specialmente quando si dispone di una fabbrica che sembra l’officina stessa del Dio Efesto, che arrossò la cima vulcanica dell’Etna nelle notti di lavoro ininterrotto per intere generazioni. Un colpo dopo l’altro, oppure… Sotto la pressione incalcolabile di una possente volontà manifesta. Perché plasmare il metallo non deve per forza richiedere, in maniera inerente, l’applicazione momentanea e ripetuta di una serie d’impatti, scaturiti dalla forza cinetica di un maglio. Quando risultati altrettanto validi possono essere ottenuti, per così dire, con le buone ovvero grazie all’uso del tocco “leggero” di una cara macchina, capace di veicolare una pressione pari o superiore alle 3.000 tonnellate per centimetro quadrato. Appena sufficiente per poter comprimere qualsiasi agglomerato d’atomi, inteso come il reticolo cristallino dell’acciaio riscaldato al calor arancione-rossastro (circa 870 gradi) così da essere perfettamente malleabile, morbido e cedevole dinnanzi al desiderio implicito di raggiungere uno Scopo finale. Ma indurre i semi della trasformazione a germogliare, ricercando il frutto originariamente richiesto dall’ignoto committente, non è sempre facile e per questo la sequenza, accompagnata in questo caso unicamente dai soli effetti sonori, senza musica o commenti fuori luogo, finisce per estendersi oltre i 12 minuti complessivi, offrendo una finestra siderurgica verso una delle industrie più spettacolari ed infuocate dei nostri giorni.
Un passo dopo l’altro, a partire dall’estrazione del billetto (blocco di metallo) ortogonale dalle profondità di una gigantesca fornace, che scopriamo presto appartenere alla compagnia tedesca di Remscheid, Dirostahl, grazie all’impiego di quella che può essere soltanto definita come una grande pinza motorizzata, simile a un muletto fuoriuscito dalla cinematografia della serie Terminator. Il cui passaggio, fino alla matrice di compressione, viene doverosamente seguito dalle telecamere, mentre il fluido che alimenta i macchinari si concentra nei condotti sovrastanti al macchinario principale dell’intera operazione. Ed è all’arrivo di un segnale del tutto inaudibile, sopra il frastuono dei motori e gli ingranaggi, che la cosa attentamente surriscaldata inizia ad essere premuta e poi girata, premuta e poi girata per un certo numero di volte. Ciascuna corrispondente alla creazione di una singola sfaccettatura del componente desiderato, che nel contempo continua imprescindibilmente ad allungarsi. È questo l’effettivo inizio, un colpo alla volta, di un procedimento in cui le tolleranze sono minime, così come le occasioni di distrarsi dall’esecuzione di un copione ben collaudato. Perché non è di sicuro facile creare un pezzo del peso di almeno 35 tonnellate, che dovrà ruotare vorticosamente a circa 250 giri al minuto…

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Tre spade inusitate per sancire l’unione millenaria della Norvegia

Una quantità sproporzionata di conflitti assolutamente determinanti per il corso della storia umana furono del tipo in grado di coinvolgere una o più navi, una baia, un golfo, un fiordo marino. Quale miglior modo è possibile immaginare, del resto, per riunire assieme grandi quantità di uomini, potenzialmente armati fino ai denti, in spazi stretti ed agguerriti, sotto l’autorità di un singolo ammiraglio, che issare una bandiera personale sulla tolda di multipli vascelli… Poco prima di orientarne le prue all’indirizzo del nemico, come fossero altrettante punte di lancia pronte a spargerne il prezioso sangue tra l’onde. Sale, fuoco, ferro ed ambizione, furono i principi in grado di guidare tali condottieri e i loro equipaggi, contro moltitudini altrettanto convinte di essere nel giusto. Ma soltanto uno dei rispettivi schieramenti, in ciascun’ora del conflitto, avrebbe avuto l’occasione di lasciare il proprio nome a lettere cubitali nelle cronache indirizzate alla posterità. Figure tanto imponenti, persino colossali, da sfidare l’immaginazione.
Ma non l’arte: vedi l’imponente spada del primo re Harald Bellachioma riconoscibile per l’elsa con l’effige incoronata, piantata saldamente nelle rocce sulla riva dello Hafrsfjord per svettare verso il cielo assieme a quella dei suoi due ultimi e più tenaci nemici, importante baia della penisola di Stavanger, punto d’approdo alla partenza ed al ritorno per innumerevoli spedizioni da parte del temuto popolo dei Vichinghi. Siamo nell’anno del Signore 872, oppure 880, o addirittura 890, in base a quale saga nordica vogliamo usare come fonte ragionevolmente affidabile in materia, quando il suddetto sovrano, figlio del grande capo regionale Halfdan il Nero nonché uno dei possibili scopritori dell’Islanda, essendo giunto a controllare l’intera parte orientale del territorio oggi appartenente alla nazione norvegese, assieme alla parte dell’attuale Svezia chiamata Värmland, potrebbe essersi trovato ad affrontare una coalizione formata da coloro che ancora resistevano al suo potere, guidata dai due capi Eiríkr di Hordaland e Súlki di Rogaland, assieme ad altre figure di primo piano tra cui i fratelli Hróaldr e Haddr di Telemark e re Kjötvi di Agder. La ragione per cui utilizzo il condizionale in merito ad eventi di una simile importanza è che per quanto ci è dato comprendere dalla loro frequente divergenza d’opinioni, non tutti gli autori delle opere letterarie coéve mantenevano un’aderenza pressoché totale alla realtà dei fatti, preferendo favorire nelle proprie narrazioni i rispettivi potenziali mecenati, protettori o semplici possibili ricercatori di soddisfazione per la possibile offesa percepita nelle loro parole. Così la principale cronaca su cui tende a basarsi ogni resoconto possibile della battaglia in questione, la Egils Saga Skallagrímssonar, possibilmente scritta dall’importante figura di Snorri Sturluson (1178-1241) parla di figure spropositate e i loro significativi atti di eroismo, che si muovono accompagnate dalle gesta di una quantità stimabile di fino 250 navi. Corrispondenti, grossomodo, a 10.000 uomini complessivi, il che sarebbe ampiamente bastato a farne uno dei conflitti armati più monumentali della storia nazionale fino a quel momento, se non dell’intero periodo dell’Alto Medioevo, da cui sarebbe emerso un paese forte e indivisibile, capace di resistere per molti secoli a venire. Aggiungete a tutto questo la maniera in cui al concludersi delle ostilità, gli sconfitti sarebbero scappati via per terra e per mare, così da giungere a colonizzare tra gli altri luoghi la più famosa isola vulcanica dell’Atlantico, per comprendere come potremmo trovarci di fronte ad uno dei più importanti punti di svolta nella storia dei paesi del Nord.
Abbastanza da giustificare, e in qualche modo motivare, la costruzione di un così pregno e affascinante monumento. Quello che parrebbe derivare, in maniera tangibile sebbene surreale, dal gesto topico di uno o più giganti, finalmente soddisfatti dei traguardi raggiunti, al punto da potersi liberare del peso significativo delle armi. La famosa metafora della “spada nello scoglio” che non sembra conoscere confini culturali né limiti d’applicazione per l’imprescindibile chiarezza del messaggio contenuto in essa…

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Mille miglia e neanche l’ombra di un timoniere: il grande viaggio autonomo della Nellie Bly

Il cervello positronico di bordo fece lampeggiare per due volte le sue sinapsi autonome, mentre definiva il passaggio ideale in mezzo al traffico del porto di Copenaghen. “Persone a dritta, persone a babordo. Persone a bordo, persone a bordo”. Quali sono gli ordini del capitano, Nellie Bly? Con un rapido segnale d’impedenza, veicolato lungo le autostrade in fibra ottica che percorrevano le intercapedini dello scafo color giallo paglierino, ogni alternativa e contingenza temporale coincidente vennero congiunte, sovrapposte e confrontate. “Io… Signore, non c’è nessun ordine. Tranne quello di ottenersi al piano di navigazione.” E fu allora che due possenti eliche di poppa, lentamente, cominciarono a girare. Amburgo, amore mio urbanistico presso la foce dell’Elba. Aspettami, che sto compiendo il mio ritorno da te. Naturalmente ogni dialogo è del tutto metaforico. Poiché l’unico effettivo ruolo rivestito dall’equipaggio a bordo della piccola e compatta imbarcazione, è quello di osservare ed annotare, controllare e (molto) eventualmente, sovrascrivere l’operato di un computer. Ma forse sarebbe ancor più giusto definirlo robot. Che poi è la forma più immediatamente utile, di un tale concetto tanto caro alla moderna civiltà tecnologica: per oltre un secolo ci hanno descritto i tipici esseri meccanici artificiali come creature prettamente antropomorfe, idealmente indistinguibili da noi, o per lo meno dotate di quattro arti ed una testa, fibre muscolari e una completa ed assoluta propensione all’obbedienza. Laddove l’unico tratto che fosse realmente necessario, tra i tre aspetti di riferimento, era in effetti il terzo; e chi ha bisogno, veramente, di un servile maggiordomo, quando la casa può pulirsi e rassettarsi da sola? Chi vuole un autista per una vettura che sa guidare se stessa? E a cosa serve un nostromo, su uno scafo che possiede il sublime segreto del sistema di posizionamento globale, capace d’individuare il luogo esatto grazie al segnale dei satelliti situati in orbita geostazionaria. Che poi un simile approccio tecnologico, a pensarci bene, non è così lontano dalle logiche di una totale autonomia operativa. Poiché cosa manca a chi conosce il proprio luogo esatto e quello dove intende essere, per poter compiere effettivamente il tragitto? Se non il gesto, e la parola. Ovvero in altri termini, l’effettiva manifestazione della Volontà.
E forse non sarebbe del tutto opportuno sollevare formalmente la questione dell’intelligenza artificiale (difficilmente, questa barca riuscirebbe a superare il test di Turing) benché il modo in cui riesce a completare i propri compiti lasci presumere un precipuo senso di ribellione, verso il concetto universale di essere soltanto una “mera” cosa, priva di quella scintilla che è l’imprescindibile dimostrazione della coscienza di se. Mentre porta gloriosamente a termine, verso l’inizio della scorsa settimana, il compito per cui era stata creata: stabilire un nuovo record in campo ingegneristico, del più lungo viaggio portato interamente a termine da una barca senza l’intervento diretto di alcun tipo di mano umana. E questo sia da parte dei suoi passeggeri, che i supervisori e controllori dell’operazione siti all’altro lato del globo, presso un silenzioso ufficio nella città statunitense di Boston. Il che non ha precluso agli occhi degli incaricati, ed ai loro molteplici livelli di precauzioni, di estendersi come tentacoli o fittoni fino alla radice stessa dell’intera faccenda, ovvero il tronco encefalico di un vero e proprio personaggio, destinato a rimanere celebre nella futura storia retroattiva dei veri e puri esseri artificiali, intesi come prossime creature dominanti del nostro intero… Pianeta… Sistema Solare… Dove vogliamo fermarci? Dopo tutto, è stato più volte ripetuto che viaggiare per mare è un po’ come colmare l’ampio spazio vuoto tra i corpi celesti. Ed ogni barca o sommergibile è un po’ un’astronave, fatte le dovute distinzioni di scala. Ciò benché la Nellie Bly in questione, formidabile creazione della compagnia multinazionale Sea Machines Robotics, assomigli piuttosto ad un perfetto mezzo di trasporto per un racconto a fumetti di Topolino. Questo perché trattasi, nello specifico, di una tipica nave pilota per l’utilizzo portuale, con la forma compatta e tondeggiante, la cabina sopraelevata, un cerchio protettivo attorno alle murate del piccolo ponte di navigazione su tratti in genere piuttosto brevi. Ma i limiti d’impiego programmatici tendono naturalmente a decadere, quando c’è un’infallibile e instancabile macchinario, ad occuparsi di far muovere i comandi ed il timone…

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