Anomalia orografica dell’enorme cumulo di abiti nel deserto dell’Atacama

Lui umile impiegato, lei casalinga. Tre figli. Nella vita quotidiana degli Anderson, la soluzione semplice della questione tessile di ogni famiglia. Per cui Benjamin, figlio maggiore, ricevette abiti nuovi ogni qual volta se ne presentava la necessità, indossandoli per tutto il corso della prima, seconda e terza elementare. Finché il bisogno condiviso a distanza di tempo dal più giovane Owen, non avrebbe portato i loro genitori ad acquistare una mera parte del suo vestiario, facendo affidamento sul principio secondo cui quello che andava bene per il fratello maggiore, poteva ancora servire al suo scopo nella vita del secondo. Gli avanzi, nel frattempo, troppo vecchi o rovinati, venivano dati in beneficienza. Ma sarebbe stato il più giovane abitante della casa, il fratellino Joseph, a pescare la pagliuzza meno conveniente in questa ruota ricorrente del Fato, potendo usare soltanto i golf natalizi, t-shirt della squadra del cuore, calzoni o giacche che entrambi i suoi fratelli, anni prima, avevano già portato. Egli non avrebbe mai potuto scegliere secondo la sua preferenza… Né mettere piede all’interno di un negozio d’abbigliamento. Così che, stanco infine di dover sottostare alla tirannica imposizione, iniziò a costituire un grande cumulo in giardino con le cose che non voleva. Anno dopo anno, il cumulo cresceva finché un giorno, esso diventò più alto della recinzione ai confini casa. Fu soltanto allora che la gente iniziò a notarlo e puntare il dito. “Irresponsabile! Non pensi all’ambiente? Sei come un paese in via di sviluppo del continente Sudamericano!”
Strano come la vita imiti… La vita ma su scala maggiore, evidenziando i corsi e ricorsi della Storia in questi strani giorni contemporanei; per cui l’unica ragione per produrre qualsiasi cosa, nell’imprescindibile realtà dei fatti, è trasformarla in occasione di profitto individuale e comunitario, preferibilmente a vantaggio di un’ampia quantità di persone. Pensate, per esempio, alla fiorente industria della moda rapida, per cui quello che compriamo al fine d’indossarlo dura appena 6 o 12 mesi, prima di essere del tutto soverchiato da nuove versioni degli stessi identici indumenti. Cos’è dopo tutto una scarpa, cosa un paio di jeans oppure una felpa con il cappuccio, se una trascurabile serie di presupposti, fatti convergere nella vincente commistione di necessità e virtù. La seconda intesa come il merito del tutto soggettivo di avere per il semplice gusto di avere, ovvero avere quello che permette di sentirsi in qualche modo superiori, o maggiormente benestanti, della moltitudine che circonda nell’umano progredire dei giorni. Perciò non vi è alcun dubbio, in merito all’identità dei tre fratelli: Benjamin è il primo mondo o l’attuale “blocco” al vertice della piramide, inteso come Europa Occidentale, Stati Uniti, le grandi città Australiane ed una piccola (relativamente?) parte d’Asia. Owen è la Russia, la Cina rurale, l’Indonesia… E Joseph, naturalmente, l’Africa ed il Sudamerica, volendo generalizzare. Per cui l’esatta posizione di quel cumulo, in effetti replicato in vari luoghi all’interno di tali due masse continentali, possiamo oggi ricondurla ad un notevole altipiano noto come Alto Hospicio, poco distante dalla città costiera di Iquique, nella parte settentrionale del paese. Dove le montagne un tempo aride che fanno da sfondo ad ogni inquadratura paesaggistica verso l’entroterra di quel paese, si colorano del più improbabile arcobaleno variopinto e fuori luogo, acceso, imprevedibile, spesso sbiadito dalla forza instancabile del Sole. Ma mai infranto o disgregato totalmente, in primo luogo perché qui non piove quasi mai. E secondariamente, perché c’è un grande ricambio dei suoi singoli elementi costituenti. Ciascuno derivante da una differente storia pregressa di produzione, acquisto, invecchiamento ed infine umile beneficienza. Per il più valido e apprezzato beneficio delle moltitudini… Eccome.

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L’emblema battagliero costruito per accogliere i tifosi del Qatar

Acciaio, vetro, cemento armato e la visibile realizzazione di un’idea: che il simbolo visuale di una nazione, trasferito nello spazio fisicamente visitabile di una costruzione urbana, possa trasformarsi nella prima cosa in grado di restare impressa nella mente di un eventuale turista straniero; perché è proprio in questo luogo, che si troverà ad aprire le sue valige, una volta messo piede nella stanza progettata per accogliere la sua presenza in uno dei 36 piani dei due edifici. Posta all’apice di quella che potremmo definire, in base alle apparenze, la più grande “scimitarra” del pianeta Terra. Una metafora, a volergli attribuire una definizione. Oppure la similitudine, di quello che potrebbe assomigliare, con soltanto un quantum d’ambizione immaginifica, allo stemma progettato nel 1976, dal gruppo di grafici selezionati dallo sceicco Ahmad bin Ali Al Thani. E a guardarlo bene, non manca proprio nulla: le palme quasi troppo perfette per essere reali; il mare increspato dalla brezza del Golfo Persico; una nave dalla caratteristica vela triangolare araba che prende il nome di Dhow? Immagino che possa anche passar di lì. E naturalmente, lui: il nuovo albergo noto come Katara Towers, i cui lavori ebbero inizio nell’ormai remoto 2013 per finire idealmente pochi anni dopo, se non che incontrati ostacoli di varia natura nel finanziamento, l’organizzazione e l’ottenimento dei permessi, ha finito per veder spostata innanzi la sua data di completamento ancora ed ancora. Fino a un’ipotetico ed ancora vago “2022”, giusto in tempo per i mondiali di calcio che coinvolgeranno a partire dal novembre prossimo proprio il cosiddetto Stadio Iconico di questa stessa Lusail City. E basterà un singolo sguardo, direi, per capire che stavolta ci siamo: ogni spazio definito, le facciate rifinite fino all’ultimo dettaglio. Manca solo di rimuovere, con la dovuta cura, le alte gru ed i macchinari mobili sfruttati per plasmare i materiali attraverso i lunghi anni di quest’opera alta esattamente 211 metri.
Spade curve e molto più leggere, rispetto a quelle utilizzate dai crociati medievali che si trovarono a combatterle, nel primo e turbolento incontro tra le contrapposte civilizzazioni dal diverso credo e un contrapposto stile di vita. Al punto che attraverso gli anni, la scimitarra sarebbe diventata un simbolo strettamente interconnesso alla natura del mondo arabo, tanto che portarla al fianco, ancora all’epoca di Shakespeare, costitutiva per gli attori di teatro un chiaro segno di stare interpretando un personaggio proveniente da quelle terre. Arma in realtà d’origine turca, successivamente diffusa a macchia d’olio nei paesi limitrofi per la sua brutale e comprovata efficienza, essa presentava un’ampia serie di vantaggi, a discapito di un solo, singolare punto debole: l’impossibilità di effettuare affondi all’indirizzo di un nemico appiedato. Ma una volta brandita dalla sella di una cavalcatura e usata di taglio, come nell’ideale originale del suo impiego, la sua curvatura permetteva di accentuare naturalmente il gesto di ciascun fendente, senza rimanere intrappolata nell’armatura o lo scudo del suo bersaglio. Abbastanza da creare la continuità di una leggenda, destinata a trasportarla negli attuali vessilli o sigilli di un’ampia serie di nazioni dell’attuale mondo mediorientale. Eppur forse nessuna, come il Qatar stesso, che ne fece dichiaratamente il proprio emblema successivamente all’indipendenza guadagnata dall’Inghilterra, in qualità di santuario pronto a difendere (con le armi, se necessario) i diritti dei propri abitanti di fede musulmana.
Fast-forward di qualche anno, e l’analisi di un mondo formalmente in pace, nonostante le differenze economiche e incompatibilità tra i paesi dai trascorsi storici radicalmente contrapposti, per trovare un Qatar capace di distinguersi nel suo profondo da quella stessa unione di emirati che oggi prende il nome di Arabia Saudita. Ma particolarmente incline, cionondimeno, a perseguire gli stessi fondamentali obiettivi. Incluso quello d’investire le finanze provenienti dal suo ricco patrimonio petrolifero, finché durano, all’interno dell’industria dell’intrattenimento e del turismo, ora più che mai. Il contesto all’interno del quale, essenzialmente, s’inserisce questo intero progetto del lungomare di Lusail, un sobborgo settentrionale della capitale Dohan. Autodefinitosi, con un certo innegabile diritto, come “Il più eccitante progetto di rinnovamento urbanistico attualmente in corso…”

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I magnifici colori dei serpenti rari che assediano l’aeroporto di San Francisco

Dalla cabina di pilotaggio del grande aereo di linea, sotto la luce intensa di una luna marezzata al centro di quel cielo sgombro del colore di una divisa da steward degli anni d’oro della compagnia di bandiera, la Città d’Oro dimostrava chiaramente la ragione del suo soprannome: lo scintillante aspetto di una collettività perennemente sveglia ed operosa, intenta a correre ed a svolgere le miriadi di mansioni previste dalle norme della civilizzazione moderna. Ma di fronte alla linea chiaramente illuminata della pista di atterraggio, sospesa presso il punto in cui l’asfalto si perdeva e trasformava nelle acque riflettenti della baia di San Francisco, ed in effetti perpendicolarmente ad essa, campeggiava casualmente un’area larga e tenebrosa, attraversata unicamente da un certo numero di strade sopraelevate. Mentre controllava attentamente i suoi strumenti di riferimento, il co-pilota rivolse un rapido sguardo all’indirizzo di quell’intero isolato verde scuro, venendo notato con la coda dell’occhio dal suo capitano. “Ah, quello?” Disse l’uomo, la barba bianca increspata dall’accenno di un sorriso. “Non farci caso, a quest’ora dormiranno tutti… Hic sunt serpentes. Ah, ah, ah! Non andare corto con l’atterraggio, mi raccomando!” Una vibrazione lieve percorse la carlinga del velivolo; il carrello era abbassato e tutto era pronto per toccare terra, appena qualche decina di metri dopo la versione contemporanea della buca vichinga per l’esecuzione dei condannati, la temibile Ormegård. E fu allora che al copilota, nonostante l’assenza pressoché totale di nubi, sembrò chiaramente di sentire il rombo di un tuono distante, al di sopra dei quattro motori del potente jet.
Fossa dei serpenti, affilano quei denti. Attendono il proprio momento, senza sentimenti. O almeno questo è quello che sarebbe lecito aspettarsi, mentre ci si appresta ad attraversare una delle più notevoli menagerie situate all’interno di un grande centro urbano statunitense. Quella venuta a costituirsi un po’ per caso, ma soprattutto grazie all’aiuto dei naturalisti ed altri praticanti esperti delle tecniche di conservazione animale, nel luogo che fondamentalmente era sempre appartenuto a un simile animale: Thamnophis sirtalis tetrataenia, la “corda bungee vivente” o per usare un’espressione maggiormente descrittiva e meno metaforica, quello che in molti chiamano il serpente più magnifico dell’intero territorio statunitense. Una vera gemma oblunga e sinuosa, dai colori nero, verde acqua ed arancione intenso, intervallati in una serie di strisce parallele accentuate dal rilievo delle sue scaglie. Che potreste forse riconoscere quando chiamato con il termine d’uso comune di serpente giarrettiera, nonostante la limitata somiglianza con il più iconico indumento di biancheria intima utilizzato fino all’inizio del secolo scorso, il cui scioglimento era considerato un simbolo dell’inizio della vita matrimoniale. Dopo tutto chi porrebbe in tale posizione delicata un rettile come questo, nelle parole stesse dell’unica vera sovrana di questo regno, la biologa dell’USGS (Servizio Geologico) Natalie Reeder, “Una delle categorie maggiormente incomprese ed ingiustamente odiate tra gli animali di questo mondo.” Soprattutto quando si considera la natura per lo più innocua dei suoi protetti, dotati di un veleno innocuo per gli umani e inoculato unicamente tramite l’impiego di una saliva lievemente tossica prodotta dalle gengive nella parte più retrograda della bocca. Il che potrebbe d’altra parte essere considerato come un problema di entità piuttosto significativa, quando si considera l’apprezzamento dimostrato attraverso gli anni da parte d’innumerevoli estimatori e collezionisti, così tipicamente inclini a catturare esemplari di questa notevole creatura, almeno fino alla proclamazione dell’Atto di Conservazione delle Specie a Rischio del 1966, il cui testo includeva il diritto per il Dipartimento Agricolo Statunitense di requisire terreni di particolare importanza strategica per assicurare la continuità di specie eccezionalmente rare. Una prerogativa forse mai esercitata in maniera tanto eclatante, quanto quella che avrebbe portato alla segregazione tramite installazione di un alto recinto di un appezzamento tanto esteso nella zona maggiormente popolosa di una delle città più significative dell’intera costa Ovest del paese…

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L’ampliamento esponenziale dell’isola più sovrappopolata d’Oriente

In una delle storie più famose sull’origine dell’isola di Bungin, il più giovane di dodici fratelli venne preso in trappola durante una battuta di pesca dai pirati di Johor, nell’epoca di poco antecedente alla grande eruzione del vulcano Tambora dell’anno 1800. Il suo nome era Mbo Salina e si trattava di uno scaltro negoziatore ed abile guerriero. Se non che, convinti i suoi rapitori che li avrebbe aiutati contro il popolo della terra ferma che oggi corrisponde alla provincia di Sunda, li convinse a lasciarlo andare senza chiedere nessun riscatto, per poi diventare il loro più pericoloso avversario. Una nuova comunità addestrata ed attrezzata dalla sua famiglia per difendersi, a quel punto, sorse presso la scogliera dove fino a quel momento i pescatori portavano ad asciugare le reti, ampliata grazie all’uso di rocce di corallo morte prelevate dal fondale dell’Oceano Indiano. E ad ogni scorribanda proveniente da Johor, gli abitanti rispondevano col fuoco e l’unità di coloro che sapevano bene come proteggere i propri territori. Si narra tuttavia che all’arrivo dei coloni Olandesi, prevedibilmente interessati ad allargare il proprio impero commerciale, il ruolo e le intenzioni di Mbo Salina vennero completamente fraintesi. Così che pensando che potesse essere un connivente degli stessi fuorilegge che per tanto tempo aveva combattuto, lo fecero prigioniero ed impiccarono sulla pubblica piazza. Un epilogo senz’altro infelice, che tuttavia non avrebbe impedito alla sua gremita comunità di continuare a prosperare, composta primariamente da appartenenti a quello che oggi prende il nome di popolo dei Sama-Bajau, spesso soprannominati gli zingari del mare. Benché non siano tutti vagabondi, e certamente non lo furono costoro, che attraverso le generazioni perpetrarono l’usanza così eccezionalmente caratteristica della reggenza (Comune) di Sumbawa, al punto da esser giunta a costituire la principale attrazione turistica dell’intera regione. Per essere una comunità abitativa super-affollata e priva di regolamenti edilizi, l’isola di Bungin oggi occupata da 5.025 abitanti in poco più di 21 acri (densità: 59.100 persone al Km quadrato) appare infatti sorprendentemente pulita, sicura ed accogliente nei confronti degli stranieri. Nonché ragionevolmente priva di quelle implicazioni di sofferenza e disagio sociale che sembrano inscindibili da luoghi simili in altre parti del mondo, nonostante l’evidente assenza di risorse pecuniarie. Il che in un’epoca come la nostra e un paese come l’Indonesia, può anche essere un punto di forza, capace d’incrementare ulteriormente i presupposti d’indipendenza che da sempre caratterizzano e ricompensano le scelte di vita di questa gente: solidarietà, coordinazione e comunione d’intenti, ai margini di una società mutevole e del tutto indifferente alla precorsa evoluzione degli eventi. Difficile immaginare, d’altra parte, un luogo simile senza l’usanza tipicamente indonesiana del gotong-royong o lavoro comunitario (letteralmente “portare il peso sulla spalla d’altri”) consistente nell’assistenza fornita spontaneamente da un gruppo familiare nei confronti di un altro, in tutti quei momenti in cui dovesse presentarne l’immediata ed evidente necessità. Come quello, tutt’altro che infrequente da queste parti, della costruzione di una nuova abitazione successivamente all’unione in matrimonio, fondata su una serie di passaggi estremamente caratteristici e tradizionali. Ciò perché l’abituale dimora sulle palafitte dei Sama-Bajau, oggi giorno, può trovare posto solamente ad est e ad ovest della terra ferma, in corrispondenza di un fondale ormai troppo profondo per poter poggiare direttamente. Così che si è fatto ritorno all’antica metodologia, già utilizzata nel XIX secolo, di costruire terrapieni riempiti con corallo ed altre pietre calcaree, trasportate faticosamente con le barche a remi e usate per costituire le fondamenta. Sopra un tale zoccolo, conseguentemente, verrà in seguito edificata la struttura lignea della capanna, con una coordinazione collettiva che ricorda vagamente quella degli Amish americani.
Nient’altro che il passaggio maggiormente rappresentativo, di uno stile di vita organizzato su ritmi e presupposti drasticamente distintivi, con il principio basilare individuabile nell’imprescindibile interdipedenza di questa gente nei confronti del vasto mare. Pur potendo disporre, d’altra parte, delle vaste e largamente disabitate terre dell’arcipelago di Sunda direttamente a meridione dell’insediamento, per quale ragione costoro avrebbero dovuto decidere di ricavarsi uno spazio acquistando il potenziale terreno agricolo dai proprietari dell’entroterra, per poi dover combattere la marea ogni volta che intendevano uscire a pesca? Molto più logico continuare a fare ciò che avevano sempre preferito i loro antenati. A costo di rinunciare a piccoli “dettagli” come la privacy, lo spazio vitale, magari un piccolo giardino sull’uscio di casa…

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