Un mini cingolato che parcheggia il rimorchio nel tuo garage

È davvero una vita grama questa, in cui molte delle cose più divertenti comportano il fastidio della “preparazione”. Dipingere un quadro è impossibile, se prima non si appronta il cavalletto, tirano fuori i colori e trascorrono svariati appiccicosi minuti, nella preparazione della tavolozza cromatica da tenere in mano. Giocare a scacchi è sempre un piacere, a patto che si prenda la scacchiera, liberi il tavolo da pranzo e dispongano i pezzi uno per uno con grande cautela. E avete mai pensato, ad esempio, di andare a pescare in maniera naturale? Sarà meglio che abbiate qualche ora a disposizione, per andare a raccogliere le esche vive nel fango bene idratato. E persino tutto questo non è nulla, in confronto alla noia di rimettere tutto com’era. Quando il rush biochimico dello svago si trova agli sgoccioli, e senza endorfine, né aspettative immediate di ulteriore soddisfazione, dovete ancora affrontare il tormento del riordino, la domenica pomeriggio, con la mente già orientata al lavoro. Di certo ci sono alcuni, tra i più disordinati, che evitano semplicemente di farlo. Trascorrendo le proprie serate dei giorni feriali con la bicicletta in salotto, il puzzle in mezzo al tappeto, il windsurf di traverso nell’androne di casa. Dopo tutto, che cosa cambia? Ciò che importa è associare tutto questo, non tanto alla pigrizia, quanto ai piaceri passati e futuri dell’esistenza.
Ma vi sono cose che, per quanto ciò possa essere la nostra preferenza, semplicemente non possono essere lasciate a portata di mano. E una di queste è l’appartamento su ruote, la casa trainabile, ovvero quella che in molti chiamano, con pratico francesismo, la costosa e spaziosa roulotte (che poi, colmo dei colmi, nel paese del vino è definita caravane). Immaginate, se avete il tempo, la scena: trascorso il week-end al lago/in campagna/sulle pendici pedemontane, fate il vostro accesso nel vialetto di casa, pienamente consci di quanto sta per succedere: è giunta infatti, la più terribile delle ore, quella trascorsa nel parcheggiare l’attrezzo nel vostro garage. Ora, generalmente parlando, tutti conoscono la problematica d’incastrare una grossa automobile dentro un parallelepipedo poco più grande di lei, con all’interno, per di più, colori a tempera, scatole degli scacchi, canne da pesca disposte in giro… Che ci vuoi fare, non tutti dispongono della cantina! Ma ora provate a considerare le problematiche di fare lo stesso, con un “pezzo” attaccato dietro, ancor più grande del veicolo a quattro ruote in questione. Un’operazione che non è soltanto il doppio più difficile, ma una cifra moltiplicata più volte, poiché come saprete la retromarcia di due mezzi incatenati tra loro, inverte la direzione dei controlli per il primo vagone, ma lascia invariata quella del secondo. In altri termini, per il guidatore medio, simili operazioni richiedono quasi sempre l’aiuto di uno spotter (persona che guarda da fuori) e una lunga, paziente porzione di pomeriggio. Roba da sovrascrivere, nei propri ricordi, il gusto immediato di una piccola vacanza. O cercare soluzioni alternative, come l’impiego del nuovo Trailer Valet RVR, un aiuto tecnologico a disposizione di tutti coloro che hanno bisogno d’affrontare l’infelice questione. Ovvero la trasposizione di terra, ridotta di molte volte nelle dimensioni, del semplice concetto di una pilotina portuale telecomandata.
La portata della semplificazione appare evidente dalla pubblicità, girata con la consueta verve drammatica del marketing statunitense; scene sincopate, brevi, accompagnate da una grandinata d’esclamazioni. Sembrerebbe del resto trattarsi di un prodotto, a tutti gli effetti, utile ed innovativo. È un piccolo veicolo telecomandato a batteria, dal peso approssimativo di un cane di taglia media, ma una potenza sufficiente a trascinare, a seconda del modello, 1.588, 2.495 o 4.082 Kg. Ora, tutto questo non sarebbe neanche lontanamente altrettanto impressionante, se l’oggetto in questione non fosse anche dotato di un pratico telecomando, che sostanzialmente vi permette di agire come foste gli spotter di voi stessi. Il che in altri termini, non vi pone più al volante nella cabina di guida, mentre tentate nervosamente di acquisire coscienza degli spazi attraverso gli specchietti inadatti, bensì rilassati al livello del suolo, come veri figli del faraone, mentre osservate il problema che sembra, letteralmente, risolversi da solo. E i vicini che vi guardano, invidiosi, non possono fare a meno d’interrogarsi su come una cosa tanto piccola, possa vantare una simile potenza. Una questione che in effetti, troverebbe risposta nello stesso video promozionale…

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Il camion che non schiaccia la schiena del suo creatore

Breve storia nordamericana: all’inizio del secolo scorso, c’era l’Alaska. La distesa della tundra verdeggiante totalmente intonsa, nel corso dell’estate, poi coperta di candida neve, dalla quale riemergeva ancor più splendida e perfetta dell’anno prima. Quindi arrivarono, in un giorno particolarmente avverso, loro due: il gabbiano e la volpe. Non che fossero del tutto assenti, in precedenza: gruppi limitrofi delle rispettive popolazioni, sparuti a causa dell’assenza di fonti di cibo, comparivano qui e là nel territorio. Cosa era cambiato, dunque? Noialtri uomini avevamo trovato il petrolio. E i siti d’estrazione, le compagnie di scavo, i piccoli villaggi degli operai, avevano scatenato su questa terra un fascino precedentemente mai considerato. L’attrazione esercitata, su tutti gli animali, dalla divina spazzatura. Gli uccelli candidi volarono, e i mammiferi carnivori accorsero, presso questi luoghi a più riprese, disperdendosi una volta sazi attraverso il vasto vuoto circostante.  Dove iniziarono a modificare pesantemente l’ecologia, con le loro prede sempre più decimate e le uova di altre specie volatili letteralmente fatte scomparire, a un ritmo superiore di quanto potessero essere deposte. Mentre malattie precedentemente ignote, come la rabbia, si diffondevano a macchia d’olio. I sottili equilibri faunistici della natura erano stati sovvertiti. E per quanto riguardava la flora, le cose non andavano affatto meglio. I pesanti mezzi usati dalla nuova e fiorente industria, infatti, con un peso minimo di varie tonnellate, distruggevano con il loro passaggio lo strato sottostante di vegetazione, che in seguito riusciva a ricrescere soltanto dopo molti anni, con una varietà biologica inferiore. Finché a qualcuno non venne in mente di gettare grandi quantità d’acqua lungo i percorsi più battuti, creando strade di ghiaccio in grado di resistere fino alla successiva primavera. E… Poi? L’industria moderna e contemporanea, come è noto, tutto può fare tranne scegliere tranquillamente di fermarsi, al volgere di una particolare stagione, rinunciando ad ottime prospettive di guadagno fino ai grandi freddi successivi. Così il dramma continuò imperterrito, fino all’opera tutt’ora mantenuta in alta considerazione dell’insegnante di scuola, trasformatosi in imprenditore, William Hamilton Albee.
Costui, persona di cui le cronache non ci trasmettono parecchie informazioni, si era trasferito intorno al 1930 presso la zona dello stretto di Bering, dove amava compiere delle escursioni per andare a pesca in compagnia dei popoli Yupik, comunemente ed erroneamente definiti con il termine di eschimesi. Fu allora che gli capitò di vedere, per un puro caso, la scena che avrebbe profondamente modificato il corso della sua vita. Un gruppo di abitanti del villaggio infatti, di ritorno da un’escursione in mare, si trovavano allora in procinto di tirare a riva la grande imbarcazione, carica del pesante e prezioso pescato della giornata. E proprio mentre l’uomo proveniente dal meridione si chiedeva come avrebbero potuto costoro smuovere un simile peso, specialmente con le pesanti bardature e l’equipaggiamento artico di cui ciascuno di loro era dotato, li vide tirare fuori da una bisaccia alcune pelle di foca gonfiate soltanto parzialmente con l’aria. Le quali, una volta disposte sotto lo scafo, rotolavano facendolo avanzare, inglobando letteralmente qualsiasi ostacolo dovesse frapporsi sulla via. “Eppur si muove!” Esclamò allora. Oppure, “Eureka!” Fatto sta che in quel preciso istante, decise che sarebbe ritornato nella sua nativa California. Dove mettere immediatamente a frutto la portata della sua idea. Tuttavia, la vita gioca strani scherzi. E lui non sarebbe riuscito a dare seguito al progetto prima di altri 16 anni. L’impresa che mise finalmente in piedi, a partire dal 1951 ed investendo tutti suoi risparmi, prese il nome di Rolligon Company, sotto il cui nome si affrettò a brevettare quanto aveva precedentemente ideato. Quindi, si recò presso gli scettici produttori di pneumatici statunitensi, finché non trovò presso la Goodyear orecchie pronte ad ascoltarlo, nonché una filiera che fosse in grado di produrre ciò che adesso desiderava più di ogni altra cosa: ruote, o per meglio dire dei grossi sacchi flessibili, da usare come metodo di locomozione adatto a tutti i terreni. Il primo veicolo Rolligon, a quel punto, prese forma materiale. Si trattava essenzialmente di una sorta di triciclo, spinto innanzi da un sistema di rulli motorizzati privi di trasmissione o semiassi, un’altra innovazione di Albee, totalmente incapace di sprofondare, non importava quanto fosse morbido il terreno d’impiego. Non possiamo realmente dire, in quella fase, quanto la coscienza ecologica facesse parte del sentire di questo grande inventore del ‘900. Ma l’utilità del suo specifico approccio veicolare colpì subito almeno due importanti clienti: l’industria petrolifera e l’Esercito degli Stati Uniti. Strane scene, a quel punto, iniziarono a comparire nei cinegiornali…

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Le sospensioni e il rimbalzo mediatico dei Super Truck

Qui dev’esserci, certamente, un errore: qualcuno sembra aver disposto molteplici rampe lungo il corso del tracciato! Cos’è questo, un flipper, o una gara? C’è un tale senso di creatività motoristica e furibonda leggiadrìa, il rombo dei cavalli che s’imbizzarriscono al di sopra dei confini pre-determinati, in questo giro finale della corsa d’inizio mese presso il circuito di Adelaide in Australia, così perfettamente in linea con la presunta propensione anglosassone alla ricerca del divertimento in pista. Una spontaneità beffarda, del tipo che possiamo ritrovare negli “eventi speciali” americani, organizzati nei periodi privi di campionati importanti, come i destruction derby, le corse con gli scuolabus, le rischiose piste con pianta a forma di 8. Eppure a ben pensarci, più la posta si fa alta, maggiormente questa è una mentalità che porta a una sublimazione degli elementi di contorno, fino all’estrema semplicità della tipica corsa NASCAR: circa quaranta auto di serie, solamente curve a sinistra, infiniti e prevedibili sorpassi sull’asfalto rettilineo dell’ovale. Laddove questa mirabolante sequenza, proveniente dagli antipodi ma frutto di una pianificazione conclamata da parte del pilota californiano Robby Gordon, è un tale susseguirsi di disastri, mancati cappottamenti, urti accidentali dei paraurti e pezzi di “carrozzeria” che volano da tutte le parti (se così vogliamo chiamare la sottile lamiera coi fari dipinti che ricopre una struttura interna in acciaio tubolare). Se giudicata con il metro serio e compunto delle gare nostrane organizzate dalla FIA, il cui prestigio deriva anche dalla sicurezza e serietà di contesto, potremmo facilmente liquidare un simile spettacolo mediante il proverbiale “La solita americanata…” ma è soltanto da un’analisi più approfondita, che si può approdare a comprendere la struttura di sostegno, in altri termini,  giustificare il divertimento.
Lo spettacolo dei Super Truck, formalmente noto come Speed Energy Formula Off-Road, doveva costituire ai suoi inizi nella stagione relativamente recente del 2013 una versione al passo coi tempi dello storico campionato organizzato dalla leggenda dell’automobilismo fuoristrada Mickey Thompson, capace di monopolizzare l’attenzione e gli spazi televisivi sul finire degli anni ’70. Finché il tragico ed inspiegabile assassinio del fondatore da parte di un ex-partner di affari nel  1988, non portò il mondo dell’automobilismo a muoversi oltre, ritornando per così dire sul binario pre-determinato. Ma lasciando una traccia chiara, come il segno di gomma bruciata sull’asfalto di una pista, nel cuore di coloro che quell’epoca l’avevano vissuta, partecipando in prima persona all’entusiasmo e l’obiettivo finale. Ed è stato in funzione di un sentimento di questo tipo che il pluri-celebrato pilota vincitore di cinque campionati consecutivi della SCORE (l’ente che organizza, tra le altre cose, la Baja 500) Robby, già corridore agli inizi della sua carriera nella serie di Mickey, ha scelto di creare, all’interruzione anticipata del suo ultimo contratto per la NASCAR, un nuovo metodo per far sfogare alcuni dei più abili, e spericolati piloti di veicoli simi-Trophy Trucks. Con la riproposizione, dapprima particolarmente fedele, dello stesso concetto di 30 anni prima, una qualcosa di facilmente riassumibile nell’espressione “Motocross da stadio per i veicoli a quattro ruote” mediante l’impiego delle caratteristiche piste in sterrato, formate da numerose curve a ferro di cavallo e generosi dossi propedeutici al distacco da terra, tanto per aumentare in proporzione il senso di caos fuori controllo a margine dell’esperienza di base. Decidendo quindi per la progressiva mutazione, un’edizione dopo l’altra, verso qualcosa di molto più personale nonché in effetti, semplice e redditizio.
Si può anche essere i piloti più famosi del mondo, trasformati in capi del circo sulla base di un’idea perfettamente calibrata e degna della massima attenzione popolare. Ma se quanto hai concepito richiede ogni volta il trasferimento di incalcolabili tonnellate di terra all’interno di stadi motoristici in grado di ospitare 70/80.000 persone, l’applicabilità di un simile spettacolo inizia necessariamente a ridursi. Ed è sulla base di una simile considerazione, che si è giunti progressivamente al moderno aspetto delle gare di Super Trucks…

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Antica tecnica giapponese per far sgommare le city car

Iizasa Yamashiro-no-Kami spinse in avanti il piede destro, mentre posizionava la spada impugnata con entrambe le mani in maniera precisa sopra la testa, prendendo nota con la visione periferica della posizione di almeno 14 steli di bambù. Ma senza distogliere le sue pupille, dilatate per l’attenzione, dalla sagoma disciplinata del suo avversario, il giovane Wakasa no-Morichika, colui che sarebbe diventato, molto presto, l’erede della sua scuola. I due si scrutarono ancora per un tempo che parve infinito, in realtà consistente in appena 46 secondi e mezzo, quando lo studente, ruotando di 15 gradi a sinistra, balzò in avanti per manifestare la sua personale visione della Via del guerriero. Con un possente colpo vibrato di taglio all’altezza del petto, mirò a disabilitare il maestro Yamashiro prima ancora che potesse sfruttare la sua rinomata tecnica del cinghiale di montagna (yama kujira – 山鯨) consistente di una serie di finte e contromosse che nessun avversario, per quanto versato nell’arte del bujutsu armato, era mai riuscito a contrastare. E questo sia fuori che dentro i campi di battaglia che continuavano a palesarsi sul sentiero del clan Chiba, nonostante l’egemonia shogunale del clan dei Minamoto. Ma il veterano di cento battaglie sotto l’antico stendardo era già pronto, mentre recitava nella sua mente i versi del celebre Fujiwara: “Un altro anno è passato / nessuna primavera riscalda il mio cuore / non è niente per me / ormai sono abituato / a fissare l’alba” così esattamente mentre pronunciava la parola “alba” passò alla sesta posizione del suo repertorio, impugnando l’arma in diagonale verso il basso. Quindi, in un solo fluido movimento in cui veniva parzialmente coperto dalla vegetazione, slittando letteralmente di lato e portando a compimento una mezza rotazione, andò a segno sul fianco sinistro del suo avversario. Dal punto di vista sia teorico che materiale, la vittoria fu confermata istantaneamente, mentre l’avversario cadeva in ginocchio, momentaneamente paralizzato.
Ora, credete forse che un samurai, nel corso di un incontro di addestramento, affrontasse il suo avversario con una vera e propria katana, bastante a tagliarlo istantaneamente a metà? Ciò avrebbe comportato allo stretto giro dei termini, non pochi problemi. Così che nella pratica delle arti marziali, fin dall’epoca della loro prima pratica effettiva, era stato inventato uno strumento fondamentale, quello del bokken (木剣 – lama di legno) ovvero un bastone lievemente ricurvo, di noce o quercia, che tendeva a ferire, ma non uccidere l’avversario. Il quale successivamente si sarebbe trovato sostituito dall’ancor più efficiente e ragionevole shinai (竹刀 – bambù flessibile) costituito da un fascio di stecche del suddetto materiale, letteralmente incapace di arrecare lesioni gravi. Con il declino formale di un ideale, quindi, e l’insorgere di nuove tecniche belliche, il vero significato della mentalità samurai andò incontro a significativi slittamenti. Nell’epoca dei Tokugawa, oltre 100 anni dopo il momento immaginato in apertura, le antiche famiglie diventarono poco più che dei segni di riconoscimento, mentre il combattimento dei guerrieri itineranti, condotto per esprimere la superiorità di un dojo rispetto ad un altro, diventava l’unico sfogo di una classe oramai in declino. Finché ai giorni nostri, finiti il tempo delle spade, iniziò a diffondersi un concetto diverso per far prevalere la propria visione in combattimento. Sotto il segno degli pneumatici, mentre il rombo dei motori definisce il nuovo significato del termine Bushido ovvero il sentiero, o la strada (asfaltata) del samurai.
K-Soul è il nome del clan automobilistico preso in esame al termine del mese scorso da Noriyaro, grande appassionato di motori gaijin (di etnia e provenienza occidentale) che ormai da anni rappresenta la principale autorità di Internet nel campo più eclettico della cultura motoristica giapponese. Largamente fondata, come ormai tutti sanno grazie alla serie di film Fast & Furious, su un approccio per così dire onorevole alle curve, che prevede il posizionamento trasversale dell’automobile, mentre le ruote posteriori slittano liberamente grazie all’applicazione di una quantità generosa di potenza. Come fatto da questo gruppo di giovani, e non tanto giovani piloti, che grazie all’elaborazione momentanea di un’idea, seguita da un lungo periodo di perfezionamento, si propongono di offrire al loro mondo la versione su quattro ruote dell’originale bokken: praticare il drifting (o ドリフト – do-ri-fu-to) senza rischiare costantemente l’osso del collo, semplicemente perché le velocità raggiunte sono molto minori. Chiunque dovesse in effetti fare il suo ingresso nel circuito di Fuji mentre la squadra è in sessione, noterà in primo luogo qualcosa d’inaspettato: un insolito, impossibile e relativo silenzio. Finché raggiunti gli spalti, non finirà per trovarsi di fronte alla più surreale delle scene: un’ordinata sfilata di Daihatsu, Toyota e Mazda a trazione anteriore, con meno di 64 cavalli di potenza, che piroettano attorno al tracciato con un’orientamento trasversale simile a quello della tecnica del cinghiale del maestro Yamashira-no-Kami…

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