Nei primi film sui mostri giganti kaiju, proiettati a partire dalla metà degli anni ’50, il bersaglio della furia di Godzilla & Co. era sempre la grande città metropolitana di Tokyo. Un luogo istantaneamente riconoscibile, sia in patria che all’estero, e per questo tanto più soddisfacente da ridurre fantasiosamente in polvere, mentre l’esercito tentava per l’ennesima volta di bersagliare il lucertolone di turno. Quale altro luogo del Giappone, d’altra parte, vantava una serie di punti di vista altrettanto iconici, degni di essere raffigurati sulle locandine e gli altri materiali promozionali a corredo dell’innovativo franchise d’intrattenimento? Tanto che il primo cambio di registro può essere individuato solamente dieci anni dopo, con l’avventura apocalittica dal titolo ガメラ対バルゴン (Gamera Vs. Barugon) in cui il tartarugone alieno titolare si ritrova ad affrontare un gigantesco rettile cornuto dalla coda a frusta, nella sua ingrata missione autogestita di difendere l’umanità sulla Terra. E finisce per farlo, tra tutti i luoghi possibili, nell’operoso e “friabile” porto di Kobe, importante città portuale situata nella parte centro-meridionale della grande isola di Honshu. Prima vittima designata: l’interessante torre panoramica alta 108 metri di colore rosso e dalla forma paraboloide di un oblungo tamburo tradizionale di tipo tsuzumi (鼓) , costruita tre anni prima nel 1963 grazie ad un’iniziativa fortemente voluta dal sindaco Chujiro Haraguchi, sul modello della popolare Euromast di Rotterdam, da lui visitata durante un viaggio in Olanda. Il successo internazionale del film costituisce l’inizio di un processo di sdoganamento mediatico, tanto a lungo ricercato da tutti gli abitanti di quei centri urbani che non sono delle capitali, ma possiedono allo stesso tempo un fascino del tutto degno, e qualche volta giustamente capace, di raggiungere i quattro distanti angoli della Terra. Ora nel caso specifico di Kobe, un luogo strettamente legato alla storia marittima e commerciale del Giappone, è possibile osservare luna singolare inclinazione pubblica a celebrare la fondazione del suo porto moderno nel 1867 con grandi opere architettoniche, sebbene la torre avrebbe finito per anticipare di cinque anni il primo secolo trascorso da un tale fatidico momento. Non così, d’altra parte, l’edificio costruito accanto ad essa nel 1987 (120° anniversario) quello che oggi viene conosciuto come Kōbe kaiyō hakubutsukan (神戸海洋博物館) o in maniera più accessibile il Museo Marittimo di Kobe. Il cui edificio, recante la sola firma architettonica della commissione edilizia cittadina (che metodo tipicamente asiatico di attribuire i meriti!) risulta impreziosito dalla caratteristica configurazione del tetto a forma di vela gonfiata dal vento, rappresentata grazie all’utilizzo di una serie di elementi tubolari in metallo. Simili a quelli della torre preesistente, ma lasciati questa volta di un più sobrio color bianco, grazie al cambiamento nel frattempo delle norme di sicurezza aeronautica, in modo tale da formare, assieme, i due colori della bandiera nazionale del Sol Levante. Possibile che si sia trattato di una semplice… Coincidenza?
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Katana contro la catena coreana, in mano ai due guerrieri più versatili del Web
La battaglia di Chungju del 1592 fu un punto di svolta fondamentale nel conflitto tra Corea e Giappone nato dal bisogno di quest’ultimo, manifestato dal sommo kanpaku (reggente) Hideyoshi, di mantenere impegnati potenti daimyo (signori regionali) del paese recentemente e tanto faticosamente unificato, affinché non continuassero a cercare un metodo per rovesciare il suo predominio. In essa, indubbiamente la più dolorosa sconfitta subita dai coreani, fu dimostrata l’assoluta superiorità di un’arma rispetto a tutte le altre: il moschetto di produzione occidentale, che aveva iniziato ad essere impiegato estensivamente nell’arcipelago dopo i rinnovamenti apportati all’organizzazione militare dal suo precedente conquistatore, Oda Nobunaga. E ci sarebbero voluti altri 5 anni perché l’ammiraglio Yi Sun-sin, alla guida delle sue famose navi tartaruga, rovesciasse a Myeongnyang le sorti della guerra sconfiggendo i comandanti samurai affondando 30 delle loro imbarcazioni prive di corazzatura. Non è tuttavia impossibile provare a immaginare, nel periodo intercorso tra le due cruciali battaglie, un incontro tra guerrieri fermamente intenzionati a dimostrare la fondamentale differenza tra i rispettivi metodi e ideali guerrieri. Da una parte il perfetto spadaccino con l’armatura iconica dall’aspetto di un demone o divinità, forgiato negli ultimi 15 o 20 anni di guerre civili tra individui essenzialmente armati ed abbigliati esattamente come lui, possibilmente rimasto separato dai suoi ausiliari ashigaru, dotati di fucili pericolosamente moderni. E dall’altra il soldato nazionale di una penisola spesso assediata, ancora intento a difenderlo con un qualcosa che fino a quel momento, aveva sempre funzionato con palese ed innegabile efficienza: pyeongon, il suo nome (nell’alfabeto hangul – 편곤) un oggetto che dal punto di vista occidentale non esiteremmo a definire una mazzafrusto, o catena da guerra. Pur venendo essenzialmente dallo stesso attrezzo agricolo, su scala certamente più ingombrante, che nelle isole Okinawa avrebbe dato in seguito i natali al ben più celebre nunchaku, mostrato all’interno d’innumerevoli film d’arti marziali, pur essendo ragionevolmente poco utile all’interno di una vera e propria battaglia. Laddove questo attrezzo, come dimostrato in modo tanto appassionante e scenografico dai due protagonisti del canale YouTube Weaponism, proviene chiaramente dalla stessa costola di tante altre armi inastate, create per poter costituire ostacolo alla fanteria nemica anche quando impugnate da persone prive di un particolare addestramento pregresso. Con il vantaggio ulteriore di poter rappresentare un oggetto chiaramente riconoscibile, e per questo comprensibile, da parte della popolosa fascia agricola della popolazione reclutata ai margini di simili battaglie.
Non che il margine di miglioramento nell’impiego del pyeongon, per chi dovesse possedere una preparazione fisica e marziale adeguatamente approfondita, debba essere del tutto inesistente, come ci dimostra Yum Won-Seop (30 anni) misurando le sue possibilità tattiche contro l’esperta spada della sua compagna e partner di ormai quasi 8 anni Kim Kyung-rim (28 anni) in quella che potremmo quasi definire come una notevole ed appassionante coreografia guerriera, se non nascesse spontaneamente dai legittimi tentativi dei due protagonisti di riuscire a colpirsi a vicenda. Che poi sarebbe proprio il marchio di fabbrica di questi due atipici creativi di Instagram, noti in patria con il soprannome di Hogu Couple. Lui con la riconoscibile armatura d’allenamento dall’aspetto particolarmente eclettico, lei la classica uniforme da kendo, entrambi virtualmente “insanguinati” dall’effetto grafico impiegato ad arte al fine di sottolineare evidenziandolo ciascun singolo colpo portato a segno. Una sequenza nata come forma d’intrattenimento, per immedesimarsi condividendo almeno in parte l’entusiasmo e la frenesia di un simile conflitto, che riesce nondimeno a sollevare alcune questioni interessanti, stimolando in vari ambienti digitali la solita pletora di osservazioni, da parte di un’affollatissima schiera di sedicenti esperti…
Ritrovate a Kyoto le fondamenta dell’antico padiglione delle Imperatrici Heian
Perché alla fine un grande governante non può fare altro che piantare i semi. Saranno i suoi remoti discendenti, a ritrovarsi a cogliere i frutti, positivi e negativi, delle sue scelte. Il sommo Kanmu, cinquantesimo discendente terrestre della Dea del Sole Amaterasu, rivolse il suo sguardo verso il distante ingresso della Grande sala delle Udienze recentemente ultimata dopo molti mesi di lavoro, tra le schiere di funzionari, guardie di palazzo e nobili di corte chiamati a presenziare uno dei momenti più importanti del suo regno. Lentamente, seguendo un complicato cerimoniale, il guerriero dalla pelle scura Sakanoue no Tamuramaro avanzava verso il trono, genuflettendosi ogni quattro passi nonostante il peso non indifferente dei suoi abiti cerimoniali, il grande elmo, la faretra vuota che rappresentava il proprio ruolo all’interno della tradizionale società del clan Yamato. Raggiunta la infine la piattaforma rialzata dove si trovava il suo sovrano, sollevò per qualche attimo il capo, le mani protese raccolte sul ginocchio destro, mentre pronunciava le parole di rito: “Il figlio del Cielo ha richiesto la mia umile presenza. Cosa posso fare per soddisfare i terreni requisiti della sua saggezza?” Kammu-tennō, con ai lati attendenti che tenevano le sacre insegne che a quell’epoca dovevano accompagnare la sua carica in qualsiasi momento, guardò lo specchio della saggezza Yata no Kagami, un tempo usato per restituire la luce dell’astro vitale a un Giappone reso cupo dall’arroganza del fraterno Dio delle tempeste, Susanoo. “Abbiamo sopportato le scorribande del popolo degli Emishi abbastanza a lungo. Il nostro inviato nei territori settentrionali e tuo predecessore, Ōtomo no Otomaro, si è dimostrato indegno della fiducia che avevamo riposto in lui. Per questa ragione, nel nono giorno dell’ottavo mese…” Qui trascorsero alcuni momenti di silenzio ad effetto, mentre il cancelliere della Capitale della Grande Pace (Heian) si avvicinava alla piattaforma con in mano la preziosa Shichishitō, spada a sette punte normalmente custodita nel tempio di Isonokami. “Noi ti nominiamo Taishōgun, grande generale che sottomette i barbari. Ora va, mio suddito onorato. Cavalca verso i confini dell’Impero e vedi che la nostra volontà sia del tutto esaudita.”
Circa un secolo dopo, durante il regno del 66° Imperatore, Ichijō-tennō (980-1011), è un sito del potere molto differente, quello che sorge al centro della grande città che governa l’arcipelago più a Oriente del mondo antico. Già parzialmente abbandonato nelle sue più vaste sale meridionali, costruite sulla base di un cerimoniale particolarmente grandioso ed importato direttamente dalla Cina, tale interpretazione nipponica della Città Proibita vede tutta l’attività concentrata nella parte centrale del Dairi, 182×226 metri di complesso dove si trovavano le residenze propriamente dette della famiglia reale. In quest’epoca di pace e cultura, in cui le donne si occupavano di questioni colte e scrivevano opere letterarie tra le più importanti del paese, un particolare edificio assume un’importanza di prim’ordine: si tratta del cosiddetto Tokaden, dove risiedeva la somma consorte, assieme al resto delle concubine e le loro onorevoli attendenti, incaricate di mantenere uno stile di vita che potesse costituire un modello da seguire per il resto dei nobili di corte. In questo luogo, menzionato più volte come termine di paragone nelle celebri Note del guanciale, raccolta di poesia dell’autrice coéva Sei Shōnagon, il principe splendente Genji della sua collega e rivale Murasaki Shikibu, prima scrittrice di romanzi della storia umana, s’incontrava clandestinamente con le sue molte amanti delle grandi famiglie, totalmente all’oscuro del comportamento disinibito delle loro figlie. Ma nel frattempo, gli edifici abbandonati circostanti nella cittadella murata del Chōdō-in diventano secondo l’ideale shintoista luoghi di perdizione, residenze di fantasmi e spiriti malevoli, per questo privi di guardiani e frequentati da effettivi criminali ai margini della società civile. Più volte colpito da incendi e ricostruito fino al 1177, mentre i sovrani si trasferivano temporanemente nei grandi palazzi appartenenti all’influente famiglia dei Fujiwara, il mitico palazzo di Heian-kyu venne infine abbandonato e distrutto del tutto nel 1227, mentre il tentativo successivo di ricostruirlo, da parte dell’imperatore Go-Daigo nel 1334, non sarebbe mai stato realizzato a causa della difficoltà nel reperire i fondi necessari.
Gli anni trascorrono, la ruota gira e persino i ricordi delle cose più fantastiche e meravigliose, svaniscono come se si trattasse di neve sotto lo sguardo della fiammeggiante Dea dei cieli. Così il grande palazzo fortemente voluto dal sommo Kanmu, un tempo simbolo dell’illimitato potere imperiale, come tante altre strutture costruite in legno scomparì del tutto. Almeno fino all’inizio del 2015, quando un team di archeologi inviati a svolgere indagini nel quartiere di Kamigyo a Kyoto, l’antica Capitale della Pace Heian, non riuscirono a trovare un qualcosa di tanto a lungo desiderato. Nient’altro che una serie di fori paralleli nel terreno del cortile di una casa di cura…
Davvero un vulcano giapponese sta facendo riemergere “navi fantasma” della seconda guerra mondiale?
In una delle più famose leggende nipponiche inerenti al mondo degli Yokai, mostri o fantasmi che condividono occasionalmente il mondo degli umani, l’attuale stretto di Shimonoseki, tra le isole di Honshu e Kyushu, risulterebbe popolato da una specie assai particolare di granchi. Chiamati Heikegani, dal nome di un antico clan guerriero, essi porterebbero sopra le loro schiene il volto intrappolato e rianimato dei samurai che morirono annegati, nel corso della grande battaglia di Dan-no-ura, che si svolse presso questo luogo al culmine della guerra Genpei (1180-1185). Marchio effettivamente visibile, nella particolare forma del carapace posseduto dalla specie Heikeopsis japonica, e reso ancor più chiaro ed evidente attraverso i secoli, a causa di un possibile fenomeno di selezione antropogenica, da parte dei pescatori superstiziosi che gettavano in mare gli esemplari più somiglianti. Poiché non è insolito che cose ripescate dalle ignote profondità degli abissi riescano a portare alle mente gli antichi ricordi guerreschi, subordinati nel trascorrere del tempo alla situazione storica di partenza e quella d’arrivo; quasi come se il sacrificio delle molte migliaia di uomini e donne, dolorosamente preteso dall’altare del conflitto, fosse ormai svanito dalle pagine sbiadite degli eventi. In un libro che ancora una volta, verso la metà del mese scorso, sembrerebbe essersi spalancato con una visibilità niente meno che globale, mentre il popolo di Internet tentava di reinterpretare, per quanto possibile, una serie d’immagini decisamente impressionanti. La scena si svolge presso una delle coste sabbiose dell’isola di Iō Tō, più famosa in Occidente con il nome che gli fu assegnato durante il corso dell’ultimo conflitto mondiale, Iwo Jima. E per la battaglia orribilmente sanguinosa, combattuta tra 20.000 truppe giapponesi e 110.000 soldati statunitensi, fermamente intenzionati a catturare le batterie antiaeree che impedivano il bombardamento dei propri nemici all’altro lato del Pacifico, proprietari di un impero destinato all’annientamento. Protagonista un elicottero, inviato dall’importante testata d’informazione nazionale Asahi Shinbun, ad osservare lo stato delle cose a qualche mese di distanza dalla roboante eruzione del vulcano sommerso Fukutoku-Okanoba, il più attivo e (normalmente) invisibile, inaudibile dei rilievi facenti parte dell’arcipelago meridionale delle isole Ogasawara, almeno fino alla comparsa improvvisa lo scorso agosto di un anomalo pennacchio di fumo in grado di raggiungere la stratosfera terrestre. E nel susseguirsi delle settimane, il verificarsi di una serie di prodigi paesaggistici, tra cui la nascita spontanea di un isolotto a forma di mezzaluna, formato dall’accumulo di materiale magmatico sgorgato a una profondità marittima di appena 29 metri. Nonché lo spontaneo ampliamento ed emersione di regioni costiere delle isole più vicine, inclusa la vicina Iō Tō, portando in evidenza un qualche cosa d’assolutamente notevole. Poiché nessuno sembrava aspettarsi, nel panorama ripreso dal suddetto apparecchio televisivo, la colossale serie di forme fin troppo riconoscibili, capaci di gettare la loro ombra sopra la compatta distesa di sassi, sabbia e pomice: nient’altro che un totale di nove scafi, o parti di scafo superstiti, appartenenti a un numero non facilmente identificabile di vascelli, molto evidentemente risalenti al periodo di un’ottantina di anni a questa parte, quando una gremita moltitudine combatté con le unghie e con i denti, oltre alle più terribili armi prodotte nella prima metà del Novecento, per il controllo di una sottile striscia di terra dal valore strategico assolutamente spropositato. Da qui l’immediata teoria, ripetuta più o meno ovunque presso i social d’ordinanza, che le navi in questione dovessero rappresentare “corazzate ed incrociatori imperiali” che erano state “coraggiosamente affondate” nel corso dello strenuo conflitto che stravolse il volto socio-politico della sua Era. Come nei migliori esempi di racconti spaventosi di Yokai e fantasmi normalmente recitate per la festa di Obon (13-15 agosto) sorprendentemente simile alla ricorrenza di Halloween entro il paese dello Zio Sam, le apparenze potrebbero generare un giustificato sospetto di essere stati tratti in inganno, ulteriormente amplificato dal bisogno di “far notizia” chiaramente attribuito ad una simile forma di comunicazione. Come Yoshitsune del clan dei Minamoto che sconfisse i Taira a Dan-no-ura, guerriero noto per l’abilità di dirimere la nebbia che si frapponeva tra i due mondi, sarà dunque il caso d’inoltrarsi nell’approfondire l’intera questione…